Quarant'anni si compiono una volta sola. E non è un compleanno qualsiasi: si entra negli "anta", da cui non si esce più. 40 moltiplicato 40 fa 1600: ecco dunque un racconto di 1600 parole scritto oggi di getto per festeggiare con voi lettori. Grazie, sempre, di fermarvi su queste pagine.
Alessandro
Che cosa ci fece
sognare che egli avesse potuto pettinarsi capelli grigi?
W.B. Yeats, In memoria del maggiore Robert Gregory
Luca guardava la
formica soldato che prigioniera fra i polpastrelli gli si affannava sull’indice:
le mandibole sproporzionate non gli scalfivano l’epidermide, non avvertiva
pizzicorio; lasciò la bestiola sulla mano di Marco, quella daccapo si accanì ad
azzannare:
«Quando da bimbi
si guastavano i formicai», lui rise, «ricordate che paura del morso di questi mostri?»
«O delle forbici
nelle cortecce degli alberi in grado di
sicuro di tranciarti le dita», enumerava Alessandro, «dei lombrichi e
lumaconi giganti; gli zanzaroni di
fiume che dissanguavano con un morso.»
«Ragni e
cavallette mi fanno ancora un po’ schifo», Luca si alzò da seduto sul prato,
scrutò l’erba, si scrollava la giacca.
«Non ti
ammazzano», disse Marco, schiacciò la formica, «sono loro che poverini…»
Alessandro
guardava all’insetto morto, quel poco che ne restava: briciole di chitina. I suoi
simili le spezzettavano, le prendevano fra le fauci, tornavano in lunga marcia ai
cunicoli sotterranei.
«E tu cosa ne
sai? Ti mordono, ti scopri allergico… se ne sentono di queste storie; c’è gente
che è morta per la puntura di un’ape.»
Luca lo
spernacchiò con un falsetto da speaker, «gli inquirenti stanno addosso all’Ape
Maia e Magà.»
«Uccisi da uno
sciame di calabroni, di tafani o di vespe.»
«Uno solo fa un
male cane e finisce lì, uno sciame è diverso. A proposito: e ricordate come da
piccoli si fuggissero nei sottoscala, manco fossero bombardieri, e i ronzii le
sirene?»
Il parco
sprofondava in un afoso mezzogiorno, e i passeri sguazzavano nella piscina dell’istituto
checché le infermiere si ostinassero a scacciarli, rubavano dai tavoli le
arachidi dei cocktail. Gli ospiti della clinica, spettri pallidi in teli
bianchi, si raccoglievano con i parenti in visita in oasi discrete di frescura
e sussurri, distanti l’una dall’altra quanto occorreva per non udire spiacevolezze
dagli altri.
«Inutili
sopravvissuti!», la mamma schiumò.
Luca, Marco e Alessandro
si scambiarono un «ricomincia» e un’occhiata di sconforto. I fratelli si
alternarono alla poltrona a rotelle, la spinsero sotto l’ombra di una betulla. Si
sedettero su una panchina, sopportarono quei deliri. L’anziana gridava insulti d’incompetenza
e codardia, liste incoerenti di animali e di oggetti: «amianto! polli infetti!
zanzare-tigre! videogame incapaci!», finiva in ululati, parole senza alcun senso.
Il volto le si aggrumava attorno alla bocca aperta, gli occhi stretti e le
narici dilatate: una smorfia disgustosa, la pelle le si scuriva.
«È mamma», s’impose
Luca.
Le urla esplodevano
nel parco sonnolento. Marco e Alessandro tentavano di calmarla: «mamma, non puoi fare così»; Luca si allontanava,
andava in cerca di un’infermiera, la trovava l’istante dopo con i calmanti già bell’e
pronti: la quiete dell’istituto, degli altri, le rette, non tolleravano quegli
scoppi d’isteria.
«Tenetela,
prego», disse tetro quel donnone dell’Est mentre spezzava la fialetta di xanax,
lo inalava con la siringa. Luca strinse la mamma allo schienale della poltrona,
Marco le tenne i polsi, Alessandro la accarezzava.
L’ago le affondò
nella vena.
L’anziana
masticò un insensato «ma torneremo! e la prossima volta!…», la faccia trattenne
quella maschera di frustrazione, di rabbia, ma infine si rilassò nel sonno
chimico del calmante.
Luca si
asciugava i polsini della camicia dalla bava copiosa e maleolente di lei: lo
sguardo di Marco, che combatteva con il fradicio fazzoletto un’inutile
battaglia contro l’afa del mezzogiorno, gli esprimeva sconfitta, disistima e stanchezza.
Alessandro lasciava all’infermiera le maniglie appiccicose della poltrona a
rotelle: la donna calciò il freno con gli zoccoli, «meglio che torni in
stanza», spinse mamma esanime nell’atrio della clinica.
Fra le fessure
degli scuri dell’edificio, abbassati contro il caldo e l’estate, Luca
indovinava quei troppi pazienti rassegnati nei loro letti ai decorsi di malattie.
Ai capezzali erano curve figure nere e minute, forse gli inservienti filippini che
allacciavano le flebo o rimboccavano le coperte. Stornò i due fratelli che tornavano
ai loro SUV.
«Facciamo una
chiacchierata con il direttore?»
Cordella mostrò
loro la schermata, aprì sul tavolo una cartella di plastica con lo stampato del
dossier sulla mamma. Scorreva i dati con l’indice sottile e batteva alcune date
con l’unghia, le evidenziava a pennarello rosso:
«Le crisi si
acuiscono dallo scorso venticinque maggio.»
«Sì, lo
ricordo», Alessandro inghiottì, «compivo quarant’anni, festeggiavo con gli
amici, telefonaste per avvertire. Mi rovinaste la cena.»
«Il farmaco
perde effetto, ma c’è un fatto che ho riscontrato: gli attacchi si verificano sempre, e solo, quando venite a farle visita insieme.»
«È una cosa psicologica secondo lei, dottore?»,
chiese Marco.
«Il malato di alzheimer rielabora le situazioni, i
ricordi, in modo disordinato e confuso. Lei sa
che da adulti vivete ognuno la vostra vita, sa
che siete uomini maturi ma vi ritrova tutti tre con lei, e reagisce come
foste bambini. Teme forse che corriate un pericolo, e questo la terrorizza.»
«Ci vomita
addosso rabbia, sciorina maledizioni. Che cosa dovremmo fare perché non vada in
panico?», Luca s’innervosì, si alzò dalla seggiola, urtò con il gomito un
vinile da collezione intonso su un leggio sul tavolo del professore.
Cordella salvò
il disco dalla caduta, lo riappoggiò con un sospiro di sollievo.
Dietro gli
incartamenti e le tabelle del medico Alessandro riconobbe l’lp:
«I Queen»,
strabiliò, «A Kind of Magic; con il
brano One Vision, che ascoltato al
contrario…»
«… si dice
nasconda il verso my sweet Satan I’ve saw
the Sabba», il medico s’illuminò, «Quel rock satanico che da prima che
adolescenti avrebbe dovuto distruggerci tutti quanti, dicevano. Lo ricordate? E
invece che nostalgia! Colleziono quei vecchi album, questo pezzo mi è molto
caro; lo conservo qui in ufficio ché a casa, con i figli piccoli… che disastro
se si rovinasse. Anche lei è un appassionato?»
«Non proprio,
ma…»
Luca si
appoggiava corrucciato ai mobili e gli scaffali dello studio del professore. Fra
i testi di medicina e i fascicoli amministrativi c’erano fermacarte scolpiti in
cristalli d’ambra, sepolcri millenari d’insetti irriconoscibili; giocattoli cult degli
anni '80 - '90 spariti dal commercio ché si temevano tossici. Un incarto dei
Big Babol pubblicizzati da Daniela Goggi.
«Che gusti, il
dottore, e che ciarpame», pensò. Ma sapeva di collezioni, collezionisti,
modernariato, trash, eBay, pop e cose simili: e immaginò che quegli oggetti
rappresentassero uno status symbol. Soprattutto si rattristò: si rammentava di tutto. Oggetti che riaffioravano da un’infanzia,
sorrise, avvelenata dal Dolce Forno e dalle Crystal Ball; minacciata dai
grillotalpa cannibali e le ortiche che se pungevano si moriva avvelenati. L’umanità
all’estinzione. Macché. È che esageri da bambino, e t’immagini l’apocalisse.
Marco schiarì la
voce:
«Non stavamo
parlando di nostra madre?»
Cordella li
guardò fisso negli occhi:
«Non fatevi
illusioni: l’alzheimer degenera. Se l’ipotesi è giusta, e vostra madre ha terrore a vedervi
uniti, il più che potete fare per lei è alternarvi nelle visite. Finché,
beninteso, vi riconosce e non vi tratta da estranei. Comprendo che sia penoso
assisterla nelle crisi, o a come le infermiere intervengono su di lei:
preparatevi piuttosto a quando un giorno vi chiameremo per…», si alzò, li
congedava, strinse loro la mano, «Qui da noi, per quel che vale, non le manca nient’altro.
Arrivederci.»
Cordella tolse l’osso frontale,
incise le due suture coronali, cauto scoperchiava quel cervello di donna
anziana addormentata sul tavolo operatorio.
Recideva con il bisturi il filo
nero fra i lobi, ci infilò il divaricatore uretrale. Le due piccole grinfie
nere lì dentro allargarono la massa
grigia gelatinosa, e la faccia
affiorò dallo squarcio. Quei grappoli d’occhi scuri e le branchie, e la proboscide
che schiumava d’umori gialli, tradivano, pur aliene, fastidio e stoltezza. L’essere
si rannicchiava dentro il cranio dell’ammalata, rivoltava l’orrido muso nel
cenerognolo della carne:
«Uscite, colonnello», Cordella gli
ordinò. Le parole gli scaturivano dalle labbra in un tono molto diverso dal suo
solito gentile usato. Suonavano maligne.
Il mostro, con un gemito di sonnolenza, sgranchì gli arti neri, viscidi e minuti
e dal cranio si rovesciò sul cellophane insanguinato.
Il medico lo afferrò con una pinza:
«L’essere un ufficiale in congedo
con onore», sibilò, e strinse con l’utensile, «non vi autorizza a sparlare con
il nemico degli attacchi falliti in passato, denigrare i nostri mezzi e le
truppe né soprattutto lasciare intendere agli abitanti di Terra le strategie
messe in atto contro di loro: perché ancora sono valide, e voi lo sapete. Né
Big Jim, né Sabbia Magica, né Calippo hanno servito allo scopo dell’invasione; voi
non siete responsabile per quei piani, né di altri imbarazzanti reggimenti
quali per esempio le Mucche Pazze. È inteso. Tacete ciò nondimeno. Abbiamo
sempre nuove e pronte unità, ma è necessario mantenere il segreto. Oggi, in
studio, sondavo le menti dei tre figli del vostro ospite e ho timore che
qualcosa sospettino. Gli déi ci perdonino, hanno pure ragione: commettiamo
grossolani errori. Con quale sicumera non fabbrichiamo più scarafaggi,
millepiedi giganti, caramelle nocive come quelle di tre cicli fa?
È vero che all’epoca si mostrarono
inefficaci, che gli umani sono sempre un osso duro, ma scoprirsi in questo modo…
e usare ratti, cellulari e hamburger… bah!»
«Tratterrò la mia rabbia»,
gorgogliò la creatura.
Una corte di suoi simili schifosi,
accucciati sulle spalliere dei letti degli anziani che abitavano da parassiti,
si fregò gli arti tridattili per esprimere assoluzione. Tornarono ad
addormentarsi nei cervelli degli ammalati, Cordella ricucì tutti i crani.
Luca guidava dietro a Marco, e all’uscita
dal parcheggio del policlinico l’auto del fratello si arrestò con uno schianto:
il paraurti di resina dipinta acciaio si era rotto su una radice di quercia.
Alessandro si fermò a offrirgli aiuto: insieme costatarono che non c’era altro
da fare che calciare e bestemmiare sulla plastica spezzata.
Luca, serioso a occhiali scuri dal
finestrino, aspettava se ne facessero una ragione: «una volta un fuoristrada era
in pratica un carro armato: da piccoli», ricordò, «su quello di nostro padre,
ci guadammo un torrente, ma ora…»
Sorprendente. Man mano che procedi pensi di aver capito finché non c'è quel primo colpo di coda, e poi un altro ancora... grande. Buoni 'anta!
RispondiEliminaUna immensa perla!
RispondiEliminaIntanto auguri. Io fra poco ne faccio 42, quindi capisco bene... e dietro l'elemento fantastico, scorgo bene la sottile malinconia del tuo racconto...
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