Josh diede
un’occhiata alla nuova barista: dovette ammettere che era molto, molto, è un
po' troppo carina. Ma che era una bambina. Lo capì da un orecchino a forma
di testa mozza che le pendeva dal lobo destro: perché solo una bambina poteva
avere un gusto simile per i gioielli. Un gioiello, in effetti: perché non era
bigiotteria. Un gioiello in oro rosso con pupille di brillanti.
Quanti anni doveva
avere? Quindici? Diciassette? Nemmeno il minimo per lavorare? Si atteggiava a
ragazza vera di dieci anni più grande. Perché non pensano, a quell’età, che sei
dieci anni più vecchia.
E atteggiarsi le
piaceva.
La tradivano i
dettagli.
Josh certi
dettagli li notava al primo sguardo. Si era molto esercitato per saper
coglierli: sapere usarli.
Gli piacevano, i
dettagli.
Perché lui ci
lavorava.
I tedeschi
dicevano che nei dettagli c’è il diavolo.
Agli scrittori i
dettagli piacciono.
Anche a quelli più
mediocri.
Gli era sembrato
di aver capito si chiamasse tipo-Salma.
Selma.
O Salomè.
La guardò pulire
un tavolo sette volte con un panno color porpora. Poi un altro. Sette volte. Li
puliva sette volte. Doveva avere una fissa sua. Agitava tette e culo sette
volte eccezionali, sempre, e tanta roba. Quanti aveva fregato, sulla soglia
degli inferi? Era al bar da appena un mese, ma si diceva già quasi tutti. «Se
il rapporto è consensuale», ridacchiavano i bavosi, «non è un reato», finché
non tocca a tua figlia. Si diceva che per lei ci si fosse accoltellati. E che
fossero finiti all’ospedale quel-certo-tizio di nome Eros e un-altro-tizio di
nome Butt. E dicevano, comunque, «non hai mai visto la madre».
«Bella figa?»
«È una milfona»;
si chiamava Erodiade.
«È un nome
strano.»
«Mi sa che è
un’araba.»
«Resta ovvio che a
quindici anni non ci sono paragoni…»
ˈSti schifosi.
Josh
proverbialmente predicava molto bene, ma altrettanto proverbialmente razzolava
molto male. Peggio, anzi: perché aveva razzolato, e il casino era
successo; e adesso, ormai, non si trattava di dare occhiate a un bel culetto
da adolescente, si trattava di realtà. Tra persone fatte adulte in un
ansito sudato.
«Josh», disse a sé
stesso, «non t’atteggiare a poeta: in un istante di sperma, è stato; un
bell’istante del cazzo.
«Ma sei sicura?»
«Sicura, sì», gli
aveva detto la Miri.
Dio, com’era bella
con quegli occhioni celesti! E che abbinava quand’era inverno ai suoi montgomery
blu, e in estate ai costumi di quel blu mare di un mare laggiù in fondo, un mare
irraggiungibile. Con i capelli come uno scroscio di oscurità su una pelle color
caffè di un vero bar italiano. Com’era bella, in silenzio coi fogli in mano,
che Josh le passava appena tolti dall’Olivetti:
«E com’è, quindi?»
«Puoi migliorare»,
lei gli sorrideva.
Sapeva leggere,
Miri, e molto bene: e riflettere, e editare i suoi racconti, molto meglio del pack
of rats dei redattori di "Four".
Dei colleghi che stasera,
ieri, all’infinito, attendeva lì al Jazz Garden per un ultimo birrino.
Pack of rats era il modo in cui
Lauren Bacall, quando era diciannovenne, definiva quelle merde degli amici di
Humphrey Bogart.
Che ne aveva
quarantaquattro.
Quando loro, da
sposati, le insozzavano la vita.
Aveva avuto
ragione Lauren.
Aveva sempre,
ragione lei.
Era vero.
Era incinta.
Era bellissima.
E aveva sedici
anni.
Josh, invece, era
arrivato alla parte triste e miserabile dei trenta: quando è chiaro che il
Personaggio Protagonista non ha più tante occasioni di un plot twist e un terzo
atto.
Aspettava un loro
figlio.
Glielo disse con
due occhi come stelle sulle onde.
Regina Coeli.
Di sol vestita.
Lui - che da
adulto in quell’istante tornò a essere un bimbominkia - seppe risponderle
«secondo me dev’essere figlio di qualcun altro.»
Miri impallidì.
«Perché diciamolo,
lo sai: sei fica. Hai sempre attorno quei troppi amici», fece pesare le
virgolette, «con cui mi dici che ragazzini avete avuto la mezza storia; la
cosa di una sera; eravamo un po' ubriachi. Quando è stato, ragazzini,
che compi adesso diciasett’anni? E scopavi già parecchio. Mi sta anche bene,
però scopavi. Con tutti quelli ti vedi ancora, o no? Puoi capirlo se sospetto e
se mi girano i coglioni.»
Non si vedevano né
si sentivano da un po' di giorni, perciò.
Da mesi.
Era stato un aprile
senza la luna nel cielo, e dal muro aveva tolto nove fogli di calendario. La
parete dell’ufficio gli sembrava molto vuota, ora, e molto spoglia, nonostante
le scalette fissate al muro con le puntine e una decina di copertine che poteva
dire sue.
Ché le aveva
scritte lui.
Spesso immaginava
il proprio buffo funerale con colleghi nerd e grigi che rievocavano «che cosa
ha fatto»; cosa aveva graffiato sulla tavola del mondo.
«Non ha fatto
grandi cose», si scrollavano le spalle.
Ma una sera che
rientrava da una bevuta del "Four" - solo, a piedi, senza alcuna
ragion d’essere, quando gli altri erano già in una tana di pantegana - Josh
trovò ad attenderlo su un percorso di cassonetti il fratello della Miri: Gav.
Gavriel-qualcosa.
All’anagrafe e per
lei era fratello maggiore: se ci avevi a che fare era fratello quello-grosso.
Era un cristo del genere norvegese di almeno uno e novanta, con le spalle così
larghe che pensavi indossasse un’imbottitura, anche se aveva addosso soltanto
la canottiera. Portava al collo il ciondolo di una spada che alla luce dei
lampioni scintillava di punizioni. Non si era mai capito perché lei - che aveva
un incarnato mezzo Tigri e mezzo Eufrate - avesse un consanguineo di puro
orrore vichingo. Però si assomigliavano, e questo a Gav bastava:
«Mia sorella sta
da cane, Josh.»
«Sto male
anch’io.»
«E allora perché
non ve la fate finita?»
«È una storia
complicata.»
«Sai che cos’è
invece molto semplice da capire? Che se tu non te la sposi, non riconosci il
bambino, non ve ne andate da qualche parte e non vi fate una vita vera, io, e i
ragazzi della "King’s Guard", ti dovremo insegnare com’è che un uomo
sta al mondo. E i ragazzi ti cercano: non li posso trattenere.»
«Quando avrò un po'
più di soldi, Gav. Io non mi voglio tirare indietro.»
«Già lo sai che
qualche spicciolo per iniziare, e affrontare le prime spese, ve lo prestano gli
zii»: valeva a dire tre equivoci sui parenti proprietari di un "Compro Oro",
un negozio di profumi e una piccola farmacia. Dove dietro la bottega succedeva
un po' di tutto; «La devi smettere con quei fumetti, devi portare qualcosa a
casa. Vieni in segheria, di questi giorni, Josh: ché un posto te lo trovo.»
«Grazie, Gav. Ma non
lo so.»
«Io ti aspetto.
Ciao, coglione.»
Gav lavorava a
fare a pezzi le querce. Lavorava con le assi, con le accette, con le seghe
circolari. Per sembrare meno orribile raccontava di essere un falegname.
«Farebbe crescere pure te», gli aveva detto una volta. La "King’s
Guard" - sapeva Josh - era invece una palestra.
Praticava il pugilato.
Questa sera insomma
eccolo lì, un po' dopo le ventuno, e Selma puliva i tavoli sette volte con
quella testa in brillanti e oro che pencolava all’orecchio. Gliela aveva
regalata questo amico messicano, o Batista. Questo amico era sparito. E i
ragazzi scendevano dal quarto piano del Nazza Building - dagli uffici del
"Four" - per il bicchiere recap del ventiquattro del mese.
Il bicchiere
recap era un nome carino: era stata la Maddi, a battezzarlo così. E parlare
stravaccati al loro tavolo del "Jazz Garden" - anche se era sempre un
parlare di lavoro - non era affatto la stessa cosa che ad una macchina del
caffè.
Ma il recap era lo
stesso: la situazione stagnava sempre, la testata vacillava, e i lettori
abbandonavano gli heroic comics per i generi e fumetti che loro, Joshua e
l’editore non comprendevano quasi più.
Un ambiente che
invecchiava.
Era stato
consolante prender atto che il settore - insistevano - era in crisi: lo leggevi
dappertutto, lo affermavano rassegnati i maestri; con la emme maiuscola e la
esse di sensei.
Ma l’affitto e le
bollette le si doveva pagare.
«Ci vogliono idee
nuove», passarono a ripetersi: ma lo sapevano, che non avrebbe risolto nulla.
E non era così
semplice:
«Non siamo Michael
Moore.»
Pack of rats era perfetto, e c’era
poco da contestare: Marco era uno schifo di italiano o finto-tale che infilava,
alla fine, in qualsiasi conversazione, la sua nonna friulana e la sua casa a
Venezia; che «un’estate vi ci porto».
Non avevano il
coraggio di spiegargli che Venezia, e il Friuli Venezia Giulia, su una mappa
dell’Italia non si trovavano allo stesso posto.
Matthew era quello
che più di tutti ci aveva perso, a scegliere il mestiere di sceneggiare
fumetti. Si sapeva che il padre era un manager del fisco, la madre nelle
banche, e che lui aveva in tasca una laurea sudata a Yale in tutti i modi di fare-i-soldi.
Ogni tanto gli
toccava di rispondere a un «ma perché, allora, marcisci qui», e lui si
inventava una teoria socialista.
Luc, figlio e
nipote di macellai kasherut, dalla tarda adolescenza si era arreso all’evidenza
che la vista di un po' di sangue lo faceva vacillare. Il primo manzo che gli
squartarono davanti gli occhi lo stese in ospedale e su un lettino di
psichiatra. Papà Zekharyah decise che per forza dovesse essere abominevole: che
tradotto in gentile doveva essere frocio.
John era a metà
tra il mondo solido della città e quello iridescente degli acidi lisergici: trascorreva
le serate in depressioni definitive sul che domani, di questo mondo, non
ne sarebbe rimasto nulla. E intendeva domattina; non the year twenty
five and twenty five.
Le sue storie
erano forse le più belle del "Four", fino a che la trama non franava
in cavallette, motociclisti con la bilancia, paraplegici che divoravano
musicassette dei Blue Öyster e sommergibili-alligatori con dieci tiare zariste.
Phil Druillet gli aveva scritto dagli uffici degli Humanoïdes che quella roba
pareva troppo: «devi darti una calmata, mon ami.»
Indossavano tutti
una camicia di flanella, e un maglione di Natale con le renne a grossi pixel:
era il capo più economico che trovavi giù da "Marshalls". Le lamette,
il dopobarba, deodorante e bagnoschiuma a tutti cinque compreso lui avanzavano
un semestre.
Maddi era l’unica
con un aspetto decente.
Con l’incendio
rosso e crespo che le scendeva alla vita - gli occhi verdi, tutto il resto, la
fronte alta, le labbra piccole - se si fosse anche infilata in un sacco di
patate sarebbe apparsa, comunque e sempre, la migliore di quel team.
E lo era, la
migliore.
Con più fiducia,
energia; con profonda e vasta immaginazione. A Josh e gli altri prendeva sempre
il magone, però, ogni volta che sfilava dalla sua borsa di tela quel vasetto di
pillole che non diceva perché assumesse:
«Perché devo.
Punto e basta.»
E non c’erano
etichette.
Il recap fu
comunque che anche il numero di dicembre non aveva venduto bene.
Che era andato
molto male.
Che le voci
pispigliavano che a gennaio la testata avrebbe chiuso.
Che la pacchia era
finita.
Si sarebbe smesso
il sei.
«Dobbiamo
ammetterlo», disse Marco, «non è facile tirare avanti per tre decenni un
personaggio che non abbiamo inventato noi, animato da un buonismo in cui non
crede più nessuno.»
«Non ci può
credere, più nessuno: è diverso…», disse Matthew.
«… perché fa
schifo la società», disse Luc bevendo un sorso.
«E con tutti i poteri
che ci si inventa che abbia, in tutti gli universi e dimensioni possibili, alla
fine c’è una fine», disse Jhon.
«È ineccepibile»,
lo accontentarono.
Josh ricordava con
una certa soddisfazione il numero in cui J-Man, il loro protagonista, svalicava
nell’horror alla Hammer e affrontava un negromante. Zombi, cadaveri rianimati:
«Al pubblico è
piaciuto.»
Poi si rese conto
che non fu una brutta idea solo perché Maddi, al negromante, aveva dato un nome
piuttosto fico: Lazarus Undead; e il background di un coroner necrofilo
cacciato con disonore e assetato di vendetta.
Nel suo script era
soltanto uno stregone da barzelletta.
E Miri aveva riso:
«Vuoi chiamarlo
Mambo-Jambo?»
Non le aveva
confessato che il primo nome era stato quello. Gli suonava un po' voodoo, e il
voodoo vendeva a pacchi.
Si depresse, fece
un tiro:
«Si potrebbe
riproporlo.»
«No, già fatto»,
disse Luc.
A Matthew piaceva
la storia lunga di Marc con il pazzo genetista che ingigantiva coltivazioni, e mutava
i pesci in leviatani in un lago di
Betsaida. O anche quella del miliardario, ed enologo francese, che durante una
cena del G8 voleva distruggere Parigi sotto uno tsunami di vino rosso-sangue:
«Monsieur Chana,
si chiamava.»
«Il disastro è
stato disegnarlo con la faccia di Depardieu e un cappotto di Alain Delon.»
«A chi cazzo era
venuta, quella cazzo di idea di merda?»
Josh non disse
niente: si rannicchiò sulla sedia, e sperò che i suoi colleghi non ricordassero
chi fosse stato.
J-Man aveva
debellato epidemie di ebola e di lebbra. Salvato piattaforme petrolifere che
rischiavano di collassare; riportato alla luce, dopo tre giorni di oscurità,
minatori già dati per spacciati nel crollo di miniere. E aveva combattuto gli antichi
demoni babilonesi nell’Iraq di Saddam: che intendeva usarli come armi contro i
Nostri Coraggiosi Ragazzi. Aveva fatto evadere da un carcere di massima
sicurezza - The Hell: il nome era di Maddi - un hacker filantropo ingiustamente
accusato: «questa sera, Mr. Thief, sarai con me fuori da questo posto». Era
stato anche colpito da un raggio atomico ma salvato dalla morte da una escort di
colore: cui però - cliffhanger! - J-Man non permise fino al numero successivo di
avvicinare nessuno dei loro amici, perché era diventata La Donna Radioattiva.
Anche questo era
stato un finale molto debole: scritto, sceneggiato ed editato da Josh.
«Il personaggio finisce
qui: rassegnamoci ragazzi.»
«C’è da dire che in
merito alle tavole J-Man ha avuto dei contributi potenti. Leonard Vance, per
dirne uno; o quel Deariter. O ancora quel Raph Littletown. Disegnatori coi
controcazzi.»
«Ma magari è colpa
nostra», soffiò Josh.
«Ma magari è colpa
tua!» gli diede addosso la Maddi.
«Forse dovrebbero
licenziare noi soli. Salveremmo molti culi.»
«Vallo a dire al
capo, Josh. Negozia tu.»
Lui non lo sapeva,
non lo aveva mai saputo chi fosse il proprietario, direttore ed editore di
"Four". Lavorava per qualcuno che non aveva mai conosciuto e che,
eccetto per un nome su un sottile libro paga, non aveva scorso un rigo di tutto
quello che aveva scritto, scriveva, e che Miri aveva letto e aveva detto
facesse schifo.
Aveva appena
diciassette anni.
Ci aveva fatto lo
stesso un figlio. Insieme.
E insisteva fosse il
suo.
Era il figlio di
un fallito; uno scrittore fallito.
Di tutti i generi
di fallito lo scrittore è tra i peggiori.
«Io sono incinta.»
«Sicura.»
«Sì.»
Nella nebbia delle
birre, sigarette e in quella merda di bar queste cose incominciavano a
assomigliare all’amore. Jhon, quasi immerso del tutto in quel suo mare
lisergico, ebbe un ultimo stanco guizzo:
«J-Man e i
pescecani, ragazzi, che ne dite? Lo facciamo correre sul Pacifico per salvare una
barca di migranti filippini. Scivolare sulle acque. Scivolare, intendo:
letteralmente. Gli squali!»
«Lo hanno fatto
con Fonzarelli nella quinta stagione di Happy Days. È l’esempio lampante di una
serie che va a puttane.»
«È la fine di ogni
cosa. Ma la fine per davvero.»
Josh pensò che il
falegname, forse, non era affatto un lavoro brutto.
Calò il silenzio.
Ma quello greve.
Il locale si
svuotò una faccia sfatta dopo l’altra anche dei soliti frequentatori. I
perdenti più accaniti. Rimaneva solo Selma a pulir tavoli per sette volte. La
notte fredda batteva nera e mugghiante sulle porte, nel "Jazz Garden"
fischiò un vento di cose misere concluse male che li morse alle Sneackers e nei
calzetti di spugna. Era l’ora in cui la birra cominciava a dare nausea, era
un’ora che attanaglia e ti fa male allo stomaco.
«Dovremmo
andarcene», disse Josh.
«Dovremmo, sì.»
Ma dove ce ne
andremo?
Lui sentì che
fuori doveva essere tutto vuoto. Probabilmente non c’era niente; «non c’è più
niente», corresse Jhon.
Josh sarebbe stato
anche contento, questa sera, persino un po' felice di incrociare ancora Gav: ché
lo avrebbe preferito, a quel silenzio e quel buio.
Maddi lasciò
partire l’ultimo taxi che si fermò e raccolse gli altri quattro dal marciapiede
ventoso.
C’era quell’aria
che sa di neve.
Rotolarono nel
taxi, nel sedile posteriore, con lattine a carta straccia portate dentro da una
folata.
«Ci stiamo, Maddi.
Dài: sali, vieni. È un freddo che si muore», Matthew la invitò.
Lei li saluto con
un colpetto alla portiera. L’automobile sparì con una coda di fari bianchi a un
isolato di oscurità dal locale che chiudeva.
E restarono a
tremare loro due negli aloni di lampione.
«Ti accompagno»,
disse Maddi.
«È una striscia, a
farla a piedi»: soprattutto - inghiottì lui - io non so di preciso a
cosa posso tornare.
«Non mi dispiace.»
«Ma grazie, no.»
«Ne sei sicuro?»
Sì, lo era. Non
ricordava nemmeno più che si fosse alla Vigilia.
«Buonanotte,
Maddi.»
«Buon Natale. E salutami
tanto Miriam», lei rispose, «salutami il bambino, quando nasce. Sarà presto.»
«Io non so se…»
«Vaˈ affanculo,
Josip», Maddi rise forte. Inghiottì un’altra pasticca dal suo flacone di zinco,
si coprì i capelli rossi con la sciarpa e s’avvio senza rumore nei cerchi
elettrici dei lampioni.
Doveva essere la
prima volta che qualcuno lo chiamava con il suo nome.
C’era vento. Era
terso. E si gelava. E non vedeva da nove mesi una luna come quella.
È una notte
bellissima.
Josip tornava a
casa.

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