Racconto di Natale 2025

Josh diede un’occhiata alla nuova barista: dovette ammettere che era molto, molto, è un po' troppo carina. Ma che era una bambina. Lo capì da un orecchino a forma di testa mozza che le pendeva dal lobo destro: perché solo una bambina poteva avere un gusto simile per i gioielli. Un gioiello, in effetti: perché non era bigiotteria. Un gioiello in oro rosso con pupille di brillanti.

Quanti anni doveva avere? Quindici? Diciassette? Nemmeno il minimo per lavorare? Si atteggiava a ragazza vera di dieci anni più grande. Perché non pensano, a quell’età, che sei dieci anni più vecchia.

E atteggiarsi le piaceva.

La tradivano i dettagli.

Josh certi dettagli li notava al primo sguardo. Si era molto esercitato per saper coglierli: sapere usarli.

Gli piacevano, i dettagli.

Perché lui ci lavorava.

I tedeschi dicevano che nei dettagli c’è il diavolo.

Agli scrittori i dettagli piacciono.

Anche a quelli più mediocri.

Gli era sembrato di aver capito si chiamasse tipo-Salma.

Selma.

O Salomè.

La guardò pulire un tavolo sette volte con un panno color porpora. Poi un altro. Sette volte. Li puliva sette volte. Doveva avere una fissa sua. Agitava tette e culo sette volte eccezionali, sempre, e tanta roba. Quanti aveva fregato, sulla soglia degli inferi? Era al bar da appena un mese, ma si diceva già quasi tutti. «Se il rapporto è consensuale», ridacchiavano i bavosi, «non è un reato», finché non tocca a tua figlia. Si diceva che per lei ci si fosse accoltellati. E che fossero finiti all’ospedale quel-certo-tizio di nome Eros e un-altro-tizio di nome Butt. E dicevano, comunque, «non hai mai visto la madre».

«Bella figa?»

«È una milfona»; si chiamava Erodiade.

«È un nome strano.»

«Mi sa che è un’araba.»

«Resta ovvio che a quindici anni non ci sono paragoni…»

ˈSti schifosi.

Josh proverbialmente predicava molto bene, ma altrettanto proverbialmente razzolava molto male. Peggio, anzi: perché aveva razzolato, e il casino era successo; e adesso, ormai, non si trattava di dare occhiate a un bel culetto da adolescente, si trattava di realtà. Tra persone fatte adulte in un ansito sudato.

«Josh», disse a sé stesso, «non t’atteggiare a poeta: in un istante di sperma, è stato; un bell’istante del cazzo.

 

«Ma sei sicura?»

«Sicura, sì», gli aveva detto la Miri.

Dio, com’era bella con quegli occhioni celesti! E che abbinava quand’era inverno ai suoi montgomery blu, e in estate ai costumi di quel blu mare di un mare laggiù in fondo, un mare irraggiungibile. Con i capelli come uno scroscio di oscurità su una pelle color caffè di un vero bar italiano. Com’era bella, in silenzio coi fogli in mano, che Josh le passava appena tolti dall’Olivetti:

«E com’è, quindi?»

«Puoi migliorare», lei gli sorrideva.

Sapeva leggere, Miri, e molto bene: e riflettere, e editare i suoi racconti, molto meglio del pack of rats dei redattori di "Four".

Dei colleghi che stasera, ieri, all’infinito, attendeva lì al Jazz Garden per un ultimo birrino.

Pack of rats era il modo in cui Lauren Bacall, quando era diciannovenne, definiva quelle merde degli amici di Humphrey Bogart.

Che ne aveva quarantaquattro.

Quando loro, da sposati, le insozzavano la vita.

Aveva avuto ragione Lauren.

Aveva sempre, ragione lei.

Era vero.

Era incinta.

Era bellissima.

E aveva sedici anni.

Josh, invece, era arrivato alla parte triste e miserabile dei trenta: quando è chiaro che il Personaggio Protagonista non ha più tante occasioni di un plot twist e un terzo atto.

Aspettava un loro figlio.

Glielo disse con due occhi come stelle sulle onde.

Regina Coeli.

Di sol vestita.

Lui - che da adulto in quell’istante tornò a essere un bimbominkia - seppe risponderle «secondo me dev’essere figlio di qualcun altro.»

Miri impallidì.

«Perché diciamolo, lo sai: sei fica. Hai sempre attorno quei troppi amici», fece pesare le virgolette, «con cui mi dici che ragazzini avete avuto la mezza storia; la cosa di una sera; eravamo un po' ubriachi. Quando è stato, ragazzini, che compi adesso diciasett’anni? E scopavi già parecchio. Mi sta anche bene, però scopavi. Con tutti quelli ti vedi ancora, o no? Puoi capirlo se sospetto e se mi girano i coglioni.»

Non si vedevano né si sentivano da un po' di giorni, perciò.

Da mesi.

 

Era stato un aprile senza la luna nel cielo, e dal muro aveva tolto nove fogli di calendario. La parete dell’ufficio gli sembrava molto vuota, ora, e molto spoglia, nonostante le scalette fissate al muro con le puntine e una decina di copertine che poteva dire sue.

Ché le aveva scritte lui.

Spesso immaginava il proprio buffo funerale con colleghi nerd e grigi che rievocavano «che cosa ha fatto»; cosa aveva graffiato sulla tavola del mondo.

«Non ha fatto grandi cose», si scrollavano le spalle.

Ma una sera che rientrava da una bevuta del "Four" - solo, a piedi, senza alcuna ragion d’essere, quando gli altri erano già in una tana di pantegana - Josh trovò ad attenderlo su un percorso di cassonetti il fratello della Miri: Gav.

Gavriel-qualcosa.

All’anagrafe e per lei era fratello maggiore: se ci avevi a che fare era fratello quello-grosso. Era un cristo del genere norvegese di almeno uno e novanta, con le spalle così larghe che pensavi indossasse un’imbottitura, anche se aveva addosso soltanto la canottiera. Portava al collo il ciondolo di una spada che alla luce dei lampioni scintillava di punizioni. Non si era mai capito perché lei - che aveva un incarnato mezzo Tigri e mezzo Eufrate - avesse un consanguineo di puro orrore vichingo. Però si assomigliavano, e questo a Gav bastava:

«Mia sorella sta da cane, Josh.»

«Sto male anch’io.»

«E allora perché non ve la fate finita?»

«È una storia complicata.»

«Sai che cos’è invece molto semplice da capire? Che se tu non te la sposi, non riconosci il bambino, non ve ne andate da qualche parte e non vi fate una vita vera, io, e i ragazzi della "King’s Guard", ti dovremo insegnare com’è che un uomo sta al mondo. E i ragazzi ti cercano: non li posso trattenere.»

«Quando avrò un po' più di soldi, Gav. Io non mi voglio tirare indietro.»

«Già lo sai che qualche spicciolo per iniziare, e affrontare le prime spese, ve lo prestano gli zii»: valeva a dire tre equivoci sui parenti proprietari di un "Compro Oro", un negozio di profumi e una piccola farmacia. Dove dietro la bottega succedeva un po' di tutto; «La devi smettere con quei fumetti, devi portare qualcosa a casa. Vieni in segheria, di questi giorni, Josh: ché un posto te lo trovo.»

«Grazie, Gav. Ma non lo so.»

«Io ti aspetto. Ciao, coglione.»

Gav lavorava a fare a pezzi le querce. Lavorava con le assi, con le accette, con le seghe circolari. Per sembrare meno orribile raccontava di essere un falegname. «Farebbe crescere pure te», gli aveva detto una volta. La "King’s Guard" - sapeva Josh - era invece una palestra.

Praticava il pugilato.

 

Questa sera insomma eccolo lì, un po' dopo le ventuno, e Selma puliva i tavoli sette volte con quella testa in brillanti e oro che pencolava all’orecchio. Gliela aveva regalata questo amico messicano, o Batista. Questo amico era sparito. E i ragazzi scendevano dal quarto piano del Nazza Building - dagli uffici del "Four" - per il bicchiere recap del ventiquattro del mese.

Il bicchiere recap era un nome carino: era stata la Maddi, a battezzarlo così. E parlare stravaccati al loro tavolo del "Jazz Garden" - anche se era sempre un parlare di lavoro - non era affatto la stessa cosa che ad una macchina del caffè.

Ma il recap era lo stesso: la situazione stagnava sempre, la testata vacillava, e i lettori abbandonavano gli heroic comics per i generi e fumetti che loro, Joshua e l’editore non comprendevano quasi più.

Un ambiente che invecchiava.

Era stato consolante prender atto che il settore - insistevano - era in crisi: lo leggevi dappertutto, lo affermavano rassegnati i maestri; con la emme maiuscola e la esse di sensei.

Ma l’affitto e le bollette le si doveva pagare.

«Ci vogliono idee nuove», passarono a ripetersi: ma lo sapevano, che non avrebbe risolto nulla.

E non era così semplice:

«Non siamo Michael Moore.»

Pack of rats era perfetto, e c’era poco da contestare: Marco era uno schifo di italiano o finto-tale che infilava, alla fine, in qualsiasi conversazione, la sua nonna friulana e la sua casa a Venezia; che «un’estate vi ci porto».

Non avevano il coraggio di spiegargli che Venezia, e il Friuli Venezia Giulia, su una mappa dell’Italia non si trovavano allo stesso posto.

Matthew era quello che più di tutti ci aveva perso, a scegliere il mestiere di sceneggiare fumetti. Si sapeva che il padre era un manager del fisco, la madre nelle banche, e che lui aveva in tasca una laurea sudata a Yale in tutti i modi di fare-i-soldi.

Ogni tanto gli toccava di rispondere a un «ma perché, allora, marcisci qui», e lui si inventava una teoria socialista.

Luc, figlio e nipote di macellai kasherut, dalla tarda adolescenza si era arreso all’evidenza che la vista di un po' di sangue lo faceva vacillare. Il primo manzo che gli squartarono davanti gli occhi lo stese in ospedale e su un lettino di psichiatra. Papà Zekharyah decise che per forza dovesse essere abominevole: che tradotto in gentile doveva essere frocio.

John era a metà tra il mondo solido della città e quello iridescente degli acidi lisergici: trascorreva le serate in depressioni definitive sul che domani, di questo mondo, non ne sarebbe rimasto nulla. E intendeva domattina; non the year twenty five and twenty five.

Le sue storie erano forse le più belle del "Four", fino a che la trama non franava in cavallette, motociclisti con la bilancia, paraplegici che divoravano musicassette dei Blue Öyster e sommergibili-alligatori con dieci tiare zariste. Phil Druillet gli aveva scritto dagli uffici degli Humanoïdes che quella roba pareva troppo: «devi darti una calmata, mon ami.» 

Indossavano tutti una camicia di flanella, e un maglione di Natale con le renne a grossi pixel: era il capo più economico che trovavi giù da "Marshalls". Le lamette, il dopobarba, deodorante e bagnoschiuma a tutti cinque compreso lui avanzavano un semestre.

Maddi era l’unica con un aspetto decente.

Con l’incendio rosso e crespo che le scendeva alla vita - gli occhi verdi, tutto il resto, la fronte alta, le labbra piccole - se si fosse anche infilata in un sacco di patate sarebbe apparsa, comunque e sempre, la migliore di quel team.

E lo era, la migliore.

Con più fiducia, energia; con profonda e vasta immaginazione. A Josh e gli altri prendeva sempre il magone, però, ogni volta che sfilava dalla sua borsa di tela quel vasetto di pillole che non diceva perché assumesse:

«Perché devo. Punto e basta.»

E non c’erano etichette.

Il recap fu comunque che anche il numero di dicembre non aveva venduto bene.

Che era andato molto male.

Che le voci pispigliavano che a gennaio la testata avrebbe chiuso.

Che la pacchia era finita.

Si sarebbe smesso il sei.

«Dobbiamo ammetterlo», disse Marco, «non è facile tirare avanti per tre decenni un personaggio che non abbiamo inventato noi, animato da un buonismo in cui non crede più nessuno.»

«Non ci può credere, più nessuno: è diverso…», disse Matthew.

«… perché fa schifo la società», disse Luc bevendo un sorso.

«E con tutti i poteri che ci si inventa che abbia, in tutti gli universi e dimensioni possibili, alla fine c’è una fine», disse Jhon.

«È ineccepibile», lo accontentarono.

Josh ricordava con una certa soddisfazione il numero in cui J-Man, il loro protagonista, svalicava nell’horror alla Hammer e affrontava un negromante. Zombi, cadaveri rianimati:

«Al pubblico è piaciuto.»

Poi si rese conto che non fu una brutta idea solo perché Maddi, al negromante, aveva dato un nome piuttosto fico: Lazarus Undead; e il background di un coroner necrofilo cacciato con disonore e assetato di vendetta.

Nel suo script era soltanto uno stregone da barzelletta.

E Miri aveva riso:

«Vuoi chiamarlo Mambo-Jambo?»

Non le aveva confessato che il primo nome era stato quello. Gli suonava un po' voodoo, e il voodoo vendeva a pacchi.

Si depresse, fece un tiro:

«Si potrebbe riproporlo.»

«No, già fatto», disse Luc.

A Matthew piaceva la storia lunga di Marc con il pazzo genetista che ingigantiva coltivazioni, e mutava i pesci in leviatani in un  lago di Betsaida. O anche quella del miliardario, ed enologo francese, che durante una cena del G8 voleva distruggere Parigi sotto uno tsunami di vino rosso-sangue:

«Monsieur Chana, si chiamava.»

«Il disastro è stato disegnarlo con la faccia di Depardieu e un cappotto di Alain Delon.»

«A chi cazzo era venuta, quella cazzo di idea di merda?»

Josh non disse niente: si rannicchiò sulla sedia, e sperò che i suoi colleghi non ricordassero chi fosse stato.

J-Man aveva debellato epidemie di ebola e di lebbra. Salvato piattaforme petrolifere che rischiavano di collassare; riportato alla luce, dopo tre giorni di oscurità, minatori già dati per spacciati nel crollo di miniere. E aveva combattuto gli antichi demoni babilonesi nell’Iraq di Saddam: che intendeva usarli come armi contro i Nostri Coraggiosi Ragazzi. Aveva fatto evadere da un carcere di massima sicurezza - The Hell: il nome era di Maddi - un hacker filantropo ingiustamente accusato: «questa sera, Mr. Thief, sarai con me fuori da questo posto». Era stato anche colpito da un raggio atomico ma salvato dalla morte da una escort di colore: cui però - cliffhanger! - J-Man non permise fino al numero successivo di avvicinare nessuno dei loro amici, perché era diventata La Donna Radioattiva.

Anche questo era stato un finale molto debole: scritto, sceneggiato ed editato da Josh.

«Il personaggio finisce qui: rassegnamoci ragazzi.»

«C’è da dire che in merito alle tavole J-Man ha avuto dei contributi potenti. Leonard Vance, per dirne uno; o quel Deariter. O ancora quel Raph Littletown. Disegnatori coi controcazzi.»

«Ma magari è colpa nostra», soffiò Josh.

«Ma magari è colpa tua!» gli diede addosso la Maddi.

«Forse dovrebbero licenziare noi soli. Salveremmo molti culi.»

«Vallo a dire al capo, Josh. Negozia tu.»

Lui non lo sapeva, non lo aveva mai saputo chi fosse il proprietario, direttore ed editore di "Four". Lavorava per qualcuno che non aveva mai conosciuto e che, eccetto per un nome su un sottile libro paga, non aveva scorso un rigo di tutto quello che aveva scritto, scriveva, e che Miri aveva letto e aveva detto facesse schifo.

Aveva appena diciassette anni.

Ci aveva fatto lo stesso un figlio. Insieme.

E insisteva fosse il suo.

Era il figlio di un fallito; uno scrittore fallito.

Di tutti i generi di fallito lo scrittore è tra i peggiori.

«Io sono incinta.»

«Sicura.»

«Sì.»

Nella nebbia delle birre, sigarette e in quella merda di bar queste cose incominciavano a assomigliare all’amore. Jhon, quasi immerso del tutto in quel suo mare lisergico, ebbe un ultimo stanco guizzo:

«J-Man e i pescecani, ragazzi, che ne dite? Lo facciamo correre sul Pacifico per salvare una barca di migranti filippini. Scivolare sulle acque. Scivolare, intendo: letteralmente. Gli squali!»

«Lo hanno fatto con Fonzarelli nella quinta stagione di Happy Days. È l’esempio lampante di una serie che va a puttane.»

«È la fine di ogni cosa. Ma la fine per davvero.»

Josh pensò che il falegname, forse, non era affatto un lavoro brutto.

Calò il silenzio.

Ma quello greve.

Il locale si svuotò una faccia sfatta dopo l’altra anche dei soliti frequentatori. I perdenti più accaniti. Rimaneva solo Selma a pulir tavoli per sette volte. La notte fredda batteva nera e mugghiante sulle porte, nel "Jazz Garden" fischiò un vento di cose misere concluse male che li morse alle Sneackers e nei calzetti di spugna. Era l’ora in cui la birra cominciava a dare nausea, era un’ora che attanaglia e ti fa male allo stomaco.

«Dovremmo andarcene», disse Josh.

«Dovremmo, sì.»

Ma dove ce ne andremo?

Lui sentì che fuori doveva essere tutto vuoto. Probabilmente non c’era niente; «non c’è più niente», corresse Jhon.

Josh sarebbe stato anche contento, questa sera, persino un po' felice di incrociare ancora Gav: ché lo avrebbe preferito, a quel silenzio e quel buio.

Maddi lasciò partire l’ultimo taxi che si fermò e raccolse gli altri quattro dal marciapiede ventoso.

C’era quell’aria che sa di neve.

Rotolarono nel taxi, nel sedile posteriore, con lattine a carta straccia portate dentro da una folata.

«Ci stiamo, Maddi. Dài: sali, vieni. È un freddo che si muore», Matthew la invitò.

Lei li saluto con un colpetto alla portiera. L’automobile sparì con una coda di fari bianchi a un isolato di oscurità dal locale che chiudeva.

E restarono a tremare loro due negli aloni di lampione.

«Ti accompagno», disse Maddi.

«È una striscia, a farla a piedi»: soprattutto - inghiottì lui - io non so di preciso a cosa posso tornare.

«Non mi dispiace.»

«Ma grazie, no.»

«Ne sei sicuro?»

Sì, lo era. Non ricordava nemmeno più che si fosse alla Vigilia.

«Buonanotte, Maddi.»

«Buon Natale. E salutami tanto Miriam», lei rispose, «salutami il bambino, quando nasce. Sarà presto.»

«Io non so se…»

«Vaˈ affanculo, Josip», Maddi rise forte. Inghiottì un’altra pasticca dal suo flacone di zinco, si coprì i capelli rossi con la sciarpa e s’avvio senza rumore nei cerchi elettrici dei lampioni.

Doveva essere la prima volta che qualcuno lo chiamava con il suo nome.

C’era vento. Era terso. E si gelava. E non vedeva da nove mesi una luna come quella.

È una notte bellissima.

Josip tornava a casa.

 

        

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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