Era un corpo di trent'anni, colorito, muscoloso: ma impossessarsene avvinazzato sui banchi luridi di una taverna, senza accorgersi che un rene era squarciato da un serramanico, era un errore che il Grande Pathemet non commetteva da almeno un secolo: quella brutta, unica volta che cantò quell'incantesimo per ritrovarsi nei reumatismi e la podagra di un settantenne.
La buon'ora era crepato, fosse pure con dolore.
Ma sfuggire agli esorcismi dei prelati e i loro sgherri - andasse al diavolo la ragazzina, che mi ha quasi fatto perdere!, - era stata una battaglia che accresceva la sua fama: e pensò, d'ora in avanti, di promuoversi a "magnifico".
Più borioso il negromante, più potenti gli anatemi.
Penetrò le carni e il senno di quell'utile imbecille: era vivo - ch'era un bene - ma anche, in pratica, già morto. Tornava comodo alla possessione che il poverino non si opponesse, ma come involucro non sarebbe durato troppo a lungo: sperò almeno avrebbe retto fino alla Loggia di Sottoterra, si augurò che i suoi Fratelli non si offendessero per quel carcame. Spense il lume di coscienza e dell'essenza del moribondo: era stato un tagliapietre, visse sempre giorni ingrati, lasciava moglie e due figli piccoli che non avevano sostentamento: pochi astragali in un panno sotto un letto scricchiolante, quella casa fredda e buia nel quartiere della fame. Si chiamavano Melania, Izach e il più piccolo Matteo: lei, a quindici anni, fu felice, illusa e bella.
Tutta qui, la vita umana: quei pensieri si sfilacciarono, la mente e il cranio del pover'uomo gli si svuotarono in un nuovo nido; lui, per un istante, ne provò rimorso e pena, e un'avversione per le carni e l'anime che divorava da duecento anni. Poi la fame insana e demoniaca di eternità gli annerirono gli intenti, vi si chiuse come un ragno: estese i sensi alle cartilagini, le vene e i nervi del burattino.
Tolse il coltello dalla ferita. Si alzò dal tavolo. Lentamente.
Soffrì il puzzò, il tocco ruvido, il rumore delle cose che ritornarono alle narici, dita e orecchie di quel corpo. Il calore e il gusto acidulo di un vinaccio sulla lingua, il rimescolo ed il peso di una sbobba nello stomaco. Aghi, farmaci, duecento volt; cotone ed alcool del posseduto che se ne andava nel gelo cerulo, e quel tuono di bestemmie e spacconate da taverna, il rollio di dadi d'osso e di boccali in peltro e coccio, fumo, peti e carne arrosto muco e metallo della realtà.
Barcollò verso la porta.
C'era nell'aria l'adrenalina e la violenza di un tafferuglio, quella rissa fra banditi in cui lo avevano accoltellato. I garzoni e il taverniere risistemavano le sedie e i tavoli, e lavavano dal sangue le piastrelle e una parete.
Cocci e monete schegge di vetro fra le saggine di una ramazza.
Non lo fermarono perché pagasse quel mezzo pasto che aveva in corpo, quella fiasca di un liquore che lo ottundeva, lo nauseava: si accontentarono che se ne andasse.
«Quello lì», sentì grugnire, «è meglio perderlo che trovarlo»; il disprezzo ed il timore per un ceffo da galera.
Lui li salutò stirando il volto del suo cadavere in un ghigno disgustoso di denti marci e gengive gonfie.
Quanto avreste più paura, se sapeste che cosa sono!
Chiuse l'uscio alla pignatta, fuoco, vino ed il sudore; l'anta di quercia gli attutì lo strepito, gli starnazzi delle troie, il fruscio degli assi falsi e i tintinni dei bicchieri.
Un campanile batté un rintocco. Lumi e torce tutte spente. Stradette immobili e silenziose e figuri schivi nei noviluni. Buio pesto:
«Non importa.»
Guardò le cose con occhi vuoti ma che bruciavano di fiamme fatue: le vide avvolte di una canicola verde insano e maledetta. Corse i portici, i chiassuoli, scese scale e uscì in esedre. Sentì il peso del carcame più gravoso ad ogni passo, le membra rigide lo rallentavano, spargeva umori dalla ferita. Si trascinava aggrappato ai muri, crollò bocconi, tornò ad alzarsi, giunse carponi ad una fontana dalla vasca vuota e sporca. Le due serpi le cui gole vomitarono acque fresche, canne ossidate essiccate e brune nelle fauci delle statue, attorcigliavano una porta cieca incastonata in un muraglione, la soglia falsa decorativa di cinque metri di dura roccia.
Pathemet, strisciando, come un randagio che gratti casa, segnò la porta di marmo e guano di un'invisibile e ancestrale lettera: la consonante di un alfabeto precedente alla realtà, cui le molecole della materia rispondevano sfaldandosi. La lastra bianca, e il granito al di là da quella, si spalancarono in un corridoio di un altro tempo ed un altro luogo: un colonnato di stele dispari, sghembe e in pietra rossa che reggevano un soffitto a cassettoni trapezoidali.
L'eterno stridere e scricchiolare del ciliegio e calcedonio.
Pathemet impose al corpo di rialzarsi e camminare: e varcò la soglia arcana che scomparve alle sue spalle, moltiplicandosi in una identica, infinita galleria come quella che aveva innanzi e sprofondava in remote tenebre.
Davanti a lui, nell'oscurità, echeggiò un ta-clac metallico e un nervoso «chi va là»: Magister Martius gli venne incontro, gli puntò addosso la *P38.
«Di', sei matto?!», Pathemet lo apostrofò, «Una pistola! Ma noi spariamo?!»
«Non ti conosco», lo incalzò l'altro: gli tremava l'arma in mano. Calzava stretto il berretto bruno di lana grezza sopra la cuffia da demonologo, sui lunghi riccioli incanutiti; sciarpa rossa, eskimo beige e maglione un po' infeltrito sulla tunica rituale ricamata di pentacoli. Bubbolava per il gelo di quel wormhole fra i molti mondi.
Siamo giunti a questo punto. E non ne usciamo; lui si intristì: affiorò dal tunnel nero e avanzò verso il Magister.
Il corpo morto si ricompose nella banale panza da birra, burger, pizza e troppi pasti disordinati. La barba e il pizzo sul volto gonfio e un'innocenza da cicciobello, camicia a quadri giacchetta e Levi's sotto un mantello da negromante. Gli si seccavano nelle tasche radici e polveri ossicini umani, l'I.phone 20 nero e lucido con il simbolo di Bat Man.
Ma di Kane, mica di Nolan.
Che in questo tunnel però non prende.
Finalmente il mondo vero tornava ad essere consistente. Forse no: forse è il contrario. Come ha predetto quell'Uomo Uccello.
«Sono Pattini, imbecille.»
«Oh, Alessandro. Ti avevo mica riconosciuto.»
«Quella è finta, spero.»
«Scherzi? È di mio padre, da brigatista.»
«Noi non siamo le bierre. O mi son perso qualche riunione?»
«È una misura di sicurezza, ché se ci trovano...»
«Sì: cosa?»
«Io mi sento più sicuro.»
«Spari, ammazzi. Dài, rinfodera.»
«È il cimelio di un'idea.»
«Ma vaffanculo, va': tu credi a Cthulhu.»
«Il brigatismo degli anni '80.»
«Terrorismo. Rosso e Nero. Non lo manda in onda Netflix.»
«Ci verrebbe una gran serie.»
«Tu sei stronzo, ma a puntate. Sei coglione, ma alla terza.»
«Si dice al cubo.»
«No: la stagione. Che cazzo ridi?», si disperò.
Proseguirono
lungo il tunnel fino alla Loggia di Sottoterra, Magister Martius
bussò sei volte alla serranda basculante: sei toc-toc contro il
metallo con il calcio di pistola.
Quei
momenti-malavita da film poliziotteschi.
Gli aprì
Irene:
«Ah,
sei tu.»
«Qui
che avete? Mitra, bombe?»
«Sono
ore che ti aspettiamo», lo aggredirono i compagni, «credevamo che vi
avessero...»
«Tutti
gli altri, temo.»
«E
tu?»
«Sono
fuggito», lui confessò, «c'era la Celere, pestava duro: gliel'ho
detto ai fascistelli...»
«Ehi,
rispetta i camerati», saltò in piedi Magister Jakoba della corrente
di estrema destra.
«...
loro no: sono restati.»
«Sai
com'è: c'è gente con le palle.»
«Io, però, le ho avute per tre secoli.»
«Non ti confondere: è il mondo vero.»
«Ma
il professore? Ma i cinque nuovi?», il compagno Stefano insistette
ansioso.
«Entusiasti,
ma inesperti: li hanno subito fregati.»
«Cristo,
è fatta! Ché adesso parlano, ci fotteranno.»
«Non
sanno niente, non vi conoscono.»
«Te,
ti conoscono: li hai reclutati.»
«Sono
scappato, non mi hanno visto.»
«Ne
sei sicuro?»
«Non
ero lì.»
L'Avvoltuomo
gli ammiccò da appollaiato su uno sgabello: fra le seggiole, i
divani, le poltrone sporche e sfonde disposte a caso alle quattro
mura di quel piccolo garage. Il ronzio di un frigorifero di Moretti e
Coca Cola, e il crepitio delle lampadine che pencolavano dal soffitto,
sigillarono il silenzio e la paura nei loro sguardi, volti pallidi
dal freddo sotto coppole e pon-pon. Magister Jakoba pestò coi piedi
e si grattò la testa rasa, e si strinse bofonchiando nel suo bomber
spillettato. E come lui camerata Carlo. Irene e Stefano, intirizziti,
nei loro lino e camicie indiane, si passarono una paglia che odorava
di cannella; Martina e Chicca, in uniforme da Sailor Moon, si tenevano
per mano e si mordevano le labbra. Marzio, lui - coglione - era tranquillo del suo giocattolo.
«Non
mi avrebbero già rintracciato?», provò a convincerli Magister
Pathemet.
«Ha
ragione, dài, raga': non facciamoci le pippe», cinguettò Magistra
Kika che soffocava per la tensione.
«Anche
ammesso che sia così», concesse greve Magister Stephan, «non è
andata affatto bene. Non va bene: questa è una conferma.»
Si
alzò dal trono di ottone e teschi e venne al centro della grande
sala, e i bracieri di fiamme magiche e corrusche lo illuminarono di
un drammatico scarlatto. La barba, il basco, il cubano e la
cartucciera sulla tunica e gorgiera e le babbucce da evocatore.
Quei
suoi modi insopportabili che preludevano un pistolotto, Pathemet si
infastidì.
«È
andata bene, la gente ha visto, ne è rimasta impressionata: quel
filmato dei dormienti, l'intervista alla tedesca... basta poco, è
roba forte. Se intervengono gli sbirri è perché siamo pericolosi, se
ci arrestano ci temono.»
Quelle
formule ritrite da grimorio sovversivo.
«Sono
balle», disse Karolus: saltò in piedi da uno scranno nero, gli andò
incontro sferragliando nella pesante armatura runica. Gli puntò
addosso la bacchetta magica con il pomolo littorio; «giusto stasera,
mentre eri fuori, e prevedendo questo ennesimo disastro, si è decisa
un'altra linea.»
«Più
aggressiva», disse Irene.
Chicca
e Martina e Magister Martius annuirono, eccitati.
Stravaccato
in posa gangsta con la pistola su un divanetto.
«Vorreste
uccidere?»
«Magari
no. Ma ci vuole un gesto forte.»
«Quanto
forte? Fa' un esempio», Pathemet lo provocò.
Lui
e Stephan si affrontarono in un muto scontro mistico, le loro auree
scarlatta e verde sfrigolarono contrarie; lampi rossi e fiamme fatue
rischiararono il garage, i poster stinti di 300 e V e del Signore
degli Anelli; di Fight Club; Black Mirror; Star Wars
ma-però-quei-tre-episodi.
Quei pentacoli in cornice contro il grigio del Sistema.
Ma anche qui diventa grigio.
Un motore e un clacson, fuori, e un accordo di sitar, azzittirono i loro salmi e gli incantesimi da duello. L'i.phone rosa di Martina scintillò di una chiamata:
«Ce
ne andiamo, sì, vabbè», disse lei all'apparecchio. Andò ad aprire
la saracinesca a un SUV fermo sul vialetto; «è tornata mia sorella,
mette dentro il fuoristrada. È anche tardi: ci aggiorniamo, okay?»
«Alla
prossima sessione», si salutarono contrariati.
Sorrisi
e ciao-ciao, sbadigli e brividi: si separarono nella notte. Lungo una
strada di casette a schiera ed echi stupidi di TV, finestre azzurre
di bagliori on-line da camerette di fanciulle in chat.
L'Uomo
Uccello si tuffò dentro quei poster alle pareti: prese il volo
all'orizzonte di un cielo d'ocra di fiamme e fumo, cui fuggivano
incendiandosi le automobili di Mad Max.
Lui
era ancora teso per quelle ore così frenetiche, e la fifa gli
mordeva nello stomaco e le chiappe. Gli tremavano le gambe; dài:
ammetti che ti tremano. Lo innervosiva la discussione, lo
preoccupavano i suoi compagni: e non sarebbe finita lì.
«Dio!»,
sbottò rabbioso, «che cazzo di serata! Quanto varebbe in experience point?»
E
quel pensiero lo ingaglioffò.
(...)