Racconto di Natale 2024

Era l’Anno del Signore Millequalcosa e qualcosa.

L’Arciprete di Sant’Orione aveva detto adirato, «e che Iddio mi perdoni il peccato d’ira», che «non importa che sia Vigilia, verrà notte e buio presto: per la messa a mezzanotte vorrò la pala finita». Lui - «la Chiesa» - aveva avuto «fiducia in voi»; lui - «la Chiesa, ve l’ha pagata in anticipo»: con le decime e i denari di tasca propria, «la mia», per fare invidia a tutte le altre parrocchie e al Vescovo per primo - confessò il Don Arciprete: «mi perdoni il Signore Iddio questo peccato di vanità, ma nemmeno in cattedrale c’è una pala delle vostre».

Luca era celebre nell’intera provincia: senza un padre né una madre che gli avessero lasciato un nome, le sue pitture d’inquiete vergini, di sante e d’alabarde gli avevano meritato d’esser Luca di Giovanna, di Giuditta e d'Oloferne, di Susanna e dei Vecchioni, e di Miriam e di Marta che debellano tarasche. Era il Luca delle sante con il fuoco e con la spada, di Maria sul Trono d’Oro tra gli eserciti celesti.

L’Arciprete, il mese prima, era venuto in un giorno freddo.

Era stato un lunedì con poca legna, cipolle, pane, e i suoi fogli di disegni che si afflosciavano inumiditi. Né la lana né il lambrusco lo consolavano di quel novembre, e le dita, la mattina, gli dolevano di crampi.

L’Arciprete gli aveva messo dei bei berlenghi sul tavolo, luccicanti al sole freddo che accecava alla finestra. Quand’era giovane aveva visto in una marca degli Appennini - «ordunque», l’Arciprete aveva detto - una pittura di gloria e oro della Vergine e i tre Magi:

«Ne vorremmo una anche noi»; aveva aggiunto dell’altro argento e aveva inteso che fosse un «sì».

Se n’era andato in mantella scura per le stradette gelate e bianche, deserte, silenziose, che scricchiolavano di ghiaccio sporco sotto il cielo azzurro vuoto.

 

Luca il giorno dopo bussava alla canonica, e si accampava col suo mestiere su una branda in sagrestia.

La perpetua lo destava al rosa gelido dell’aurora con una ciotola di latte vivo e del pane abbrustolito: se era avanzato del grasso dal giorno prima lo stirava su una fetta bruna d’olio e di carbone. Uno spiffero di giorno, di stallatico, di stufa, di zinale e di sapone strofinati su una pietra penetrava dalla porta che accedeva alla canonica. L’uscio si apriva con un ragliare di catenacci, un antico cigolio: la domestica avvizzita lo salutava con gli occhi bassi: «buona mattina, signor pittore». Guardava sbiechi gli scarabocchi, i suoi cartoni, gli studi, la filza irsuta dei suoi pennelli nei barattoli di coccio.

« ˈi me sembra dei diavlett», mugugnava, a volte, tetra.

Poi tutta la stanza esplodeva di campane, e l’Arciprete badava al proprio officio e lasciava a Luca e il sole di proseguire con il dipinto.

Sotto i raggi del mattino e nelle fiamme del mezzogiorno, fin il fioco pomeriggio, nella mandorla di quercia di quella pala di devozione apparirono la notte e i minareti di Terrasanta, i bastioni di Re Erode, le colline, i boschi, i greggi, le coorti di Pilato: un Oriente mai veduto, mai viaggiato da nessuno, ma che era indubbiamente tale e quale lo dipingeva secundum scripturas, il Milione e i Vangeli.

«Sarà finito, a Natale?»

«Sì»: perché il disegno correva facile sul legno e sulla tela, il deserto e gli animali gli scivolavano dalle dita. E l’Arciprete si allontanava accontentato e giulivo e Luca seguitava a immaginare l’Adorazione.

Di sera, i primi tempi, com’era solito non lavorava. La perpetua gli serviva il minestrone e il formaggio, e lui macinava i colori nel mortaio. Poi si accorse che il calendario si assottigliava, e che i giorni si accorciavano come i ceri nella chiesa. E di andare un po' a rilento, con le figure nel quadro…

E appese una lanterna alla volta del presbiterio.

Gli diede un’ora in più di debole chiarore.

La lanterna oscillava da un lato all’altro del quadro: il fuoco rosso, odoroso d’olio, toccava il margine di nubi, stelle e il plenilunio dipinto. Luca urtava il lume con la schiena curva all’opera. La lanterna era puntuta, gli strideva sulla testa, «e alla malora per questo olio e questa coda di anelli!»

Non gli dava granché luce:

«Questo poco ha da bastarmi.»

«C’è qualcosa da vedere?», gongolava l’Arciprete.

«Sì, qualcosa già si vede.»

Gli sembrava già un Presepio. Lo rendeva soddisfatto. E prese a spargere la voce tra i parrocchiani che avrebbero presto avuto la loro pala d’altare.

 

All’inizio sbirciarono dal portale socchiuso. Poi si inginocchiarono a snocciolare i rosari ma a guardare di sottecchi come andavano i lavori - e non sembrava che andassero granché bene, Luca si innervosì.

Una bimba si arrampicò su un tavolaccio di impalcatura. Lui le urlò «perdio!», lo aveva spaventato. Non si era accorto della mocciosa scivolata accanto a lui, così piccola, bianca e magra nelle ombre della volta. La camicia era bucata sulle scapole appuntite, la sua pelle rifletteva le faville di lanterna.

Lui le arruffò i capelli che luccicavano di giallo, troppo: temette andasse a fuoco, tant’era luminosa. Più di tutto fu atterrito dagli occhi fermi e glaciali, remoti, indifferenti. La sua voce era acciaio nella seta.

La bambina gli indicò quei personaggi marginali che già affollavano i due lati del dipinto:

«I pastori», si imbronciò: «non sono mica venuti bene…»

«È un abbozzo», Luca si indispettì, «ho da dipingere prima San Giuseppe, i tre Magi, il Bambino e Maria.»

«Sì, ma guarda, ché i pastori non sono fatti così.»

«Tu li hai visti, eri lì?»

Dovette ammettere che la stronza non aveva tutti i torti.

La navata all’improvviso soffocò d’odore d’erba, di pipe e di sudore. Di pelo madido di cane e d’irco e di sterco calpestato. Gli sembrò che dalla porta, spalancata su dicembre, soffiasse dentro per istante sabbia ruvida e riarsa. Sentì un sapore di frutti dolci e con un nòcciolo appiccicoso.

Un capannello di montanari e di gente della terra - senza animali, però caprari, con le facce bruciate e con i piedi pesanti - entrò a pregare, chino, e curioso del dipinto. Un latino senza libri sbatacchiò tra le colonne, acuto, o piccolo o soffocato come gli zufoli che avevano alla cintura.

Erano quelli, i pastori veri: i suoi, solo pupazzi.

I colori erano altri, le posture erano altre: lui cavò di tasca il carboncino per disegnare e segnò le sue figure di promemoria per migliorarle.

«Chi vuoi che guardi i pastori, bimba?», si strinse nelle spalle: gli rodeva, ma ha ragione, dovrei rifarli daccapo.

Non aveva molto tempo.

Dovrò lasciarli così.

La bambina lo fissò con quei crisoliti spaventosi.

 

Il San Giuseppe non fu difficile: l’Arciprete declinò finché fu decoroso, poi gli disse «sia» con gli occhi al cielo, sofferente, e si mise in posa su un pagliericcio con un bastone da gregge, un asino, un bue e un’aureola di cartone ritagliata da una grida.

«Le bestie in chiesa, portiamo, adesso?!», la perpetua protestava ad ogni merda sul marmo: perché poi toccava a lei ripulire il pavimento.

«Per rispettare le proporzioni», la azzittì l’Arciprete: non voleva che la sua faccia, eternata nella pala, riuscisse grossa, più brutta e larga del muso di un bovino.

Indolenzito sulle ginocchia, patristico, paterno, per quell’ora di bozzetto fu paziente e perfetto.

A Luca non importò che gli riuscisse davvero bene - era il venti di dicembre, non gli importava granché di molto: solo di un giudice del vescovado che gli avrebbe tolto i soldi, e il suo nome di pittore incompiuto e scolorito… - perché era certo che i vetri spessi e rotondi dell’amor proprio, sul naso a tartufo e irritato dell’Arciprete, gli avrebbero mostrato una perfetta somiglianza.

Quattro giorni di lavoro gli bastarono per i Magi, «perché i negri e saraceni sono sempre e tutti uguali», convennero i paesani; e inventare giubbe strane, scimitarre, quei turbanti, arrotolarne le scarpe porpora in una coda di basilisco, caricarne i dromedari di giare immense di incenso e mirra, fu un salutare divertimento per non pensare al cimento vero.

Solo al mattino del ventiquattro, invece, accennò al volto di Maria.

Le ossa gli urlavano di gelo e di fatica, e i tavolacci di impalcatura scricchiolavano al suo respiro. La sua pelle era il colore del vello giallo di quei cammelli, della tiara babilonese di Gasparre e Baldassare e il carminio omicida dei soldati all’inseguimento. Doveva avere cinabro e terra nelle orecchie e le narici. Le budella gli torcevano per quei giorni di bruschetta, gli bruciava il deretano per il latte troppo caldo. L’Arciprete gli passò sotto mentre indugiava sul trave, brandì il messale in una mano guantata e, nell’altra, la sacca inesorabile e feroce del creditore. Un brutto tizio in pistola e stocco stava appostato al fonte battesimale, e a Luca parve avesse quella siringa di occhi di chi conta per mestiere e riscuote per sollazzo.

«Io celebrerò la messa di Natale alla luce di questa pala, stanotte», gli ripeté per tre dure volte.

Ma la Vergine era ancora solo un’ombra all’ingresso della grotta, e il Bambino gemeva nella paglia con lo sguardo di fiamme bianche a una mamma che non c’era.

Anche il Bambino non fu difficile, perché era un secolo che dei neonati non si curava granché, e il Signore doveva essere verisimile solo uomo e crocefisso.

Luca accampò un malumore d’artista, saltò giù dall’impalcatura, infilò i pennelli in tasca, finse - innanzi il bravo - una ridicola spavalderia. Uscì a bere un po' di luce nel sagrato solatio.

Non sarebbe stato inverno ancora per molto tempo. Percepì il mondo che germogliava sotto il grigio delle zolle.

Vide, a una finestra, una ragazza di rose e pesche, che accarezzava nell’aria fredda la lunga treccia castana. Il mattino di Vigilia le brillava negli occhi azzurri: il vestito verde e panna, abbandonato dal davanzale, scivolava su un abbaino e due gatti addormentati.

Tornò di corsa all’impalcatura e fissò il viso su un foglio. Ecco: almeno un volto, ora, la Vergine ce lo aveva.

Lo sbirro avanzò dalla vasca battesimale, si fermò contrito e curvo, mite, intimorito alla pala e con tono un po' infantile disse «ostia! Questa è bella!». Si segnò a destra e sinistra come fanno i bizantini. D’istinto tornò a stringere la spada e la pistola, come per - di nuovo, ancora - farsi presente al sé stesso bestia. Senza volgere le spalle.

Ma non è per me: è per lei; Luca capì.

E tornò a stare di sentinella perché nessuno potesse uscire.

Perché io non possa uscire.

Puoi salvarti, se lavori.

Le campane annunciarono che era ormai pomeriggio. I raggi chiari dalle vetriate non gli bastarono più. Issò il lume, accese l’olio e sperò che andasse bene. L’Arciprete passò di nuovo a ricordargli il dovuto. E venne ancora la terza volta: «ricordate il vostro impegno», il lavoro era lontano dal sembrare a compimento:

«Voi cadrete, mastro Luca.»

«Non cadrò.»

«Cadde pure San Pietro, per tre volte: come voi, che vi ostinate a mentire e negare i fatti nonostante che la pala per questa notte non sarà pronta. E noi ne avremo scorno.»

Noi, «la Chiesa», le sue tasche.

Il fatto era che al dipinto mancava ancora la Luce vera, maris stella, il paradiso. Nelle tele e sugli altari che celebravano Maria Vergine, quella luce era l’azzurro del suo mantello incorrotto, un’onda chiara di piume d’angeli, lo squarcio d’indaco su un cielo spento. Luca aveva in mente quel Maestro di Messina in cui il miracolo di tutto il quadro era un viso sotto un velo, ricordò versi italiani che la cantavano di sol vestita. L’occhio umano, lo sapeva, in una folla all’Adorazione, peccatore e disperato cerca il blu tra le corone, le zampogne, gli zoccoli, e i barattoli di mirra che nessuno sa cos’è.

L’occidente si incupì, sui vetri alti strisciò la sera, e la sera si accanì sul battaglio della notte intabarrata di buio e ferro e sonante di campane. Luca poteva anche aver finito così, doveva aver finito: aveva steso nella cornice il blu più bello tra i suoi colori. Il più raro, il più costoso: quello che adoperi una volta sola.

Era stanco. Era spezzato.

E doveva essere tardi.

Tuttavia, si convinse che il risultato era buono.

Accettabile. Onesto.

Si augurò che lo fosse anche per l’Arciprete; e l’esattore là in fondo, al buio, con la lama e la garrota.

Tre borghesi sospettosi, infagottati nei bei vestiti, dondolarono davanti all’impalcatura con occhi giudici, taglienti, ostili; la faccia aspra e le mani tutt’arrugate e intrecciate sulla schiena. Non potevano aspettare l’introibo e mezzanotte: no, lui si irritò. La pittura era lucida, fresca, faceva ancora quel certo odore:

«Giovane», giovane!», lo apostrofarono i tre borghesi, «non si lavora così, ché non mi sembra l’azzurro giusto.»

«Io ci avrei messo una misura di bianco.»

«Per me c’è i grumi: hai mescolato il colore?»

«Giovane, faˈ un po' vedere: che pennello hai usato?»

«Non è mica quel celeste… Non l’hai mai visto, mi sa, tu.»

Era un tu che lo accusava. Gli chiarirono, in un rutto, che ce ne avevano parecchie altre, di critiche da farne:

«Lasciamo perdere però, ché è meglio.»

Lui adesso sarebbe sceso dal palco e li avrebbe presi a calci. Lo avrebbe fatto, lo faccio. Perché parlate? Chi siete voi? Con quelle facce da chi Cristo ce l’ha in tasca e i capelli impomatati come i principi del Catai. Che luccicavano di argento e grasso sotto il lume pencolante. E il coglione sorrideva, strafottente e panzuto, con una bocca di denti d’oro e le orecchie di rubino, e una scarsella per niente scarsa che gli ingrossava l’uccello. Il secondo, segaligno, che puzzava di speziale: di quegli intrugli per le ferite, di funerale e quaresima. E il terzo che sembrava fosse approdato dall’Africa: ma un’Africa profonda, al di là dei portolani, dei labari dei turchi e il terrore dei leoni. E fumava da un’ampolla gli stessi fumi di noi cristiani.

Cosa avevano da dire?

Che la pala era mediocre, e non hanno affatto torto.

Meglio no.

Li ignorerò.

Voglio scendere lo stesso.

A guardare dalle panche il suo lavoro finito.

Il mondo era a un battito dalla nascita di Dio, e la folla venne in chiesa dalle mura e le campagne. Portò dentro un po' di neve e l’olezzo della vita. L’Arciprete, in sagrestia, si infilava la pianeta, la casula, il pallio, la perpetua lo tormentava che non la aveva stirata bene, insisteva a rammendarla, la riallacciava da capo. Un chierichetto la allontanava dal guardaroba del sacerdote, perché quelli erano i panni interdetti ad ogni donna.

Luca si fermò a pochi passi dalla pala: era ancora all’altare, con la schiena al leggio. Sopraffatto dai colori e le figure imponenti.

Arretrò di qualche piede, era ancora dentro il quadro. La Famiglia, i Re, i pastori, il corteo e Re Erode in lontananza gli apparirono grandi quanto lui, spalla a spalla, sguardo a sguardo. Si dissolveva in quell’ampia folla come, adesso, in quel piccolo paese che gremiva l’edificio.

Volle ancora andare indietro, e sulla porta capì di aver fallito.

La sezione della pala che aveva fatta a novembre - i boschi, i templi, il mondo falso lontano, gli aquiliferi romani, i tremendi infanticidi - gli sembrarono perfetti di quell’arte truffatrice che si addice alle menzogne e i fondali in cartapesta. Ricordò di averli stesi con le mani calde e ferme, con in pancia il minestrone, quando c’era ancora tempo. Quando cerano i quattrini.

Le figure più vicine, le figure più importanti, non riuscì, o piuttosto volle, quasi neppure guardarle. Doveva averle imprecate tutte, in quelle ultime settimane. Non aveva dato niente, aveva solo contato i giorni.

Si aspettò la spada fredda, la pallottola nel cuore, e una mano che gli frugava nei pantaloni per riavere quei denari che non aveva onorato. Uno sguardo dello sbirro lo trafisse alle scapole, sentì addosso tra un oremus e un versetto le attenzioni dell’Arciprete che pretendeva giustizia.

Doveva essere, e apparire così affranto, che l’esattore lo lasciò andare, per ora.

Tanto, lui inghiottì, lo avrebbe ritrovato.

Si sedette sui gradoni.

Nel nitore della notte.

Restò lì ad intirizzire.

La funzione era finita.

E il cielo c’era ancora.

Sentì passi impantofolati e un fruscio di paramenti.

«Maestro, maestro!»: l’Arciprete si spogliò dagli indumenti del rito, e asciugò con il panno e col velluto gli occhi stanchi, felici, e gli occhiali appannati, «Io non ho mai visto un’arte così bella»; lo tirò per il cappuccio e lo costrinse a tornare dentro. Si sedette silenzioso, a sinistra della pala, con la sua tonaca vecchia e bruna su una seggiola di paglia.

La ragazza con la treccia, quel mattino alla finestra, ora era ammantata nella cascata dei suoi capelli: che nel bagliore dei ceri inquieti poteva essere di penombre, fiamme o firmamento. Un riverbero marino. I tre borghesi si inginocchiarono ai colori del dipinto, portando per le briglie i tre cavalli potenti. Ai fianchi neri degli animali luccicavano bisacce: gonfie d’oro, di elisir e di grani resinosi. I caprai vennero avanti dalle tenebre gremite, e la prima fu una donna con un agnello portato al seno e tenuta per la mano dalla bambina di vetro. Gli altri la seguirono come scendessero per una duna.

La luna piena gelò di luce le colline e le montagne, le casette acuminate, le pinete all’orizzonte.

La corona delle stelle che si specchiava sui mari blu.  

    

 

 

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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