Era l’Anno del
Signore Millequalcosa e qualcosa.
L’Arciprete di
Sant’Orione aveva detto adirato, «e che Iddio mi perdoni il peccato d’ira», che
«non importa che sia Vigilia, verrà notte e buio presto: per la messa a mezzanotte
vorrò la pala finita». Lui - «la Chiesa» - aveva avuto «fiducia in voi»; lui -
«la Chiesa, ve l’ha pagata in anticipo»: con le decime e i denari di tasca
propria, «la mia», per fare invidia a tutte le altre parrocchie e al Vescovo
per primo - confessò il Don Arciprete: «mi perdoni il Signore Iddio questo
peccato di vanità, ma nemmeno in cattedrale c’è una pala delle vostre».
Luca era celebre nell’intera
provincia: senza un padre né una madre che gli avessero lasciato un nome, le
sue pitture d’inquiete vergini, di sante e d’alabarde gli avevano meritato
d’esser Luca di Giovanna, di Giuditta e d'Oloferne, di Susanna e dei
Vecchioni, e di Miriam e di Marta che debellano tarasche. Era il Luca delle
sante con il fuoco e con la spada, di Maria sul Trono d’Oro tra gli eserciti
celesti.
L’Arciprete, il mese prima, era venuto in un giorno freddo.
Era stato un lunedì con poca legna, cipolle, pane, e i suoi fogli di disegni che si afflosciavano inumiditi. Né la lana né il lambrusco lo consolavano di quel novembre, e le dita, la mattina, gli dolevano di crampi.
L’Arciprete gli
aveva messo dei bei berlenghi sul tavolo, luccicanti al sole freddo che
accecava alla finestra. Quand’era giovane aveva visto in una marca degli
Appennini - «ordunque», l’Arciprete aveva detto - una pittura di gloria e oro
della Vergine e i tre Magi:
«Ne vorremmo una
anche noi»; aveva aggiunto dell’altro argento e aveva inteso che fosse un «sì».
Se n’era andato in
mantella scura per le stradette gelate e bianche, deserte, silenziose, che
scricchiolavano di ghiaccio sporco sotto il cielo azzurro vuoto.
Luca il giorno
dopo bussava alla canonica, e si accampava col suo mestiere su una branda in
sagrestia.
La perpetua lo destava al rosa gelido dell’aurora con una ciotola di latte vivo e del pane abbrustolito: se era avanzato del grasso dal giorno prima lo stirava su una fetta bruna d’olio e di carbone. Uno spiffero di giorno, di stallatico, di stufa, di zinale e di sapone strofinati su una pietra penetrava dalla porta che accedeva alla canonica. L’uscio si apriva con un ragliare di catenacci, un antico cigolio: la domestica avvizzita lo salutava con gli occhi bassi: «buona mattina, signor pittore». Guardava sbiechi gli scarabocchi, i suoi cartoni, gli studi, la filza irsuta dei suoi pennelli nei barattoli di coccio.
« ˈi me sembra dei
diavlett», mugugnava, a volte, tetra.
Poi tutta la
stanza esplodeva di campane, e l’Arciprete badava al proprio officio e lasciava
a Luca e il sole di proseguire con il dipinto.
Sotto i raggi del
mattino e nelle fiamme del mezzogiorno, fin il fioco pomeriggio, nella mandorla
di quercia di quella pala di devozione apparirono la notte e i minareti di
Terrasanta, i bastioni di Re Erode, le colline, i boschi, i greggi, le coorti
di Pilato: un Oriente mai veduto, mai viaggiato da nessuno, ma che era indubbiamente
tale e quale lo dipingeva secundum scripturas, il Milione e i
Vangeli.
«Sarà finito, a
Natale?»
«Sì»: perché il
disegno correva facile sul legno e sulla tela, il deserto e gli animali gli
scivolavano dalle dita. E l’Arciprete si allontanava accontentato e giulivo e
Luca seguitava a immaginare l’Adorazione.
Di sera, i primi tempi, com’era solito non lavorava. La perpetua gli serviva il minestrone e il formaggio, e lui macinava i colori nel mortaio. Poi si accorse che il calendario si assottigliava, e che i giorni si accorciavano come i ceri nella chiesa. E di andare un po' a rilento, con le figure nel quadro…
E appese una lanterna alla volta del presbiterio.
Gli diede un’ora in più di debole chiarore.
La lanterna oscillava da un lato all’altro del quadro: il fuoco rosso, odoroso d’olio, toccava il margine di nubi, stelle e il plenilunio dipinto. Luca urtava il lume con la schiena curva all’opera. La lanterna era puntuta, gli strideva sulla testa, «e alla malora per questo olio e questa coda di anelli!»
Non gli dava
granché luce:
«Questo poco ha da
bastarmi.»
«C’è qualcosa da
vedere?», gongolava l’Arciprete.
«Sì, qualcosa già
si vede.»
Gli sembrava già
un Presepio. Lo rendeva soddisfatto. E prese a spargere la voce tra i
parrocchiani che avrebbero presto avuto la loro pala d’altare.
All’inizio
sbirciarono dal portale socchiuso. Poi si inginocchiarono a snocciolare i
rosari ma a guardare di sottecchi come andavano i lavori - e non sembrava che
andassero granché bene, Luca si innervosì.
Una bimba si
arrampicò su un tavolaccio di impalcatura. Lui le urlò «perdio!», lo aveva
spaventato. Non si era accorto della mocciosa scivolata accanto a lui, così
piccola, bianca e magra nelle ombre della volta. La camicia era bucata sulle
scapole appuntite, la sua pelle rifletteva le faville di lanterna.
Lui le arruffò i capelli che luccicavano di giallo, troppo: temette andasse a fuoco, tant’era luminosa. Più di tutto fu atterrito dagli occhi fermi e glaciali, remoti, indifferenti. La sua voce era acciaio nella seta.
La bambina gli
indicò quei personaggi marginali che già affollavano i due lati del dipinto:
«I pastori», si
imbronciò: «non sono mica venuti bene…»
«È un abbozzo»,
Luca si indispettì, «ho da dipingere prima San Giuseppe, i tre Magi, il Bambino
e Maria.»
«Sì, ma guarda,
ché i pastori non sono fatti così.»
«Tu li hai visti,
eri lì?»
Dovette ammettere
che la stronza non aveva tutti i torti.
La navata
all’improvviso soffocò d’odore d’erba, di pipe e di sudore. Di pelo madido di
cane e d’irco e di sterco calpestato. Gli sembrò che dalla porta, spalancata su
dicembre, soffiasse dentro per istante sabbia ruvida e riarsa. Sentì un sapore
di frutti dolci e con un nòcciolo appiccicoso.
Un capannello di
montanari e di gente della terra - senza animali, però caprari, con le
facce bruciate e con i piedi pesanti - entrò a pregare, chino, e curioso del
dipinto. Un latino senza libri sbatacchiò tra le colonne, acuto, o piccolo o
soffocato come gli zufoli che avevano alla cintura.
Erano quelli,
i pastori veri: i suoi, solo pupazzi.
I colori erano
altri, le posture erano altre: lui cavò di tasca il carboncino per disegnare e
segnò le sue figure di promemoria per migliorarle.
«Chi vuoi che
guardi i pastori, bimba?», si strinse nelle spalle: gli rodeva, ma ha
ragione, dovrei rifarli daccapo.
Non aveva molto
tempo.
Dovrò lasciarli
così.
La bambina lo
fissò con quei crisoliti spaventosi.
Il San Giuseppe
non fu difficile: l’Arciprete declinò finché fu decoroso, poi gli disse «sia»
con gli occhi al cielo, sofferente, e si mise in posa su un pagliericcio con un
bastone da gregge, un asino, un bue e un’aureola di cartone ritagliata da una
grida.
«Le bestie in
chiesa, portiamo, adesso?!», la perpetua protestava ad ogni merda sul marmo:
perché poi toccava a lei ripulire il pavimento.
«Per rispettare le
proporzioni», la azzittì l’Arciprete: non voleva che la sua faccia, eternata
nella pala, riuscisse grossa, più brutta e larga del muso di un bovino.
Indolenzito sulle
ginocchia, patristico, paterno, per quell’ora di bozzetto fu paziente e
perfetto.
A Luca non importò
che gli riuscisse davvero bene - era il venti di dicembre, non gli
importava granché di molto: solo di un giudice del vescovado che gli avrebbe
tolto i soldi, e il suo nome di pittore incompiuto e scolorito… - perché era certo
che i vetri spessi e rotondi dell’amor proprio, sul naso a tartufo e
irritato dell’Arciprete, gli avrebbero mostrato una perfetta somiglianza.
Quattro giorni di
lavoro gli bastarono per i Magi, «perché i negri e saraceni sono sempre e
tutti uguali», convennero i paesani; e inventare giubbe strane, scimitarre,
quei turbanti, arrotolarne le scarpe porpora in una coda di basilisco,
caricarne i dromedari di giare immense di incenso e mirra, fu un salutare
divertimento per non pensare al cimento vero.
Solo al mattino
del ventiquattro, invece, accennò al volto di Maria.
Le ossa gli
urlavano di gelo e di fatica, e i tavolacci di impalcatura scricchiolavano al
suo respiro. La sua pelle era il colore del vello giallo di quei cammelli,
della tiara babilonese di Gasparre e Baldassare e il carminio omicida dei
soldati all’inseguimento. Doveva avere cinabro e terra nelle orecchie e le
narici. Le budella gli torcevano per quei giorni di bruschetta, gli bruciava il
deretano per il latte troppo caldo. L’Arciprete gli passò sotto mentre
indugiava sul trave, brandì il messale in una mano guantata e, nell’altra, la
sacca inesorabile e feroce del creditore. Un brutto tizio in pistola e stocco
stava appostato al fonte battesimale, e a Luca parve avesse quella siringa di
occhi di chi conta per mestiere e riscuote per sollazzo.
«Io celebrerò la messa
di Natale alla luce di questa pala, stanotte», gli ripeté per tre dure volte.
Ma la Vergine era
ancora solo un’ombra all’ingresso della grotta, e il Bambino gemeva nella
paglia con lo sguardo di fiamme bianche a una mamma che non c’era.
Anche il Bambino
non fu difficile, perché era un secolo che dei neonati non si curava granché, e
il Signore doveva essere verisimile solo uomo e crocefisso.
Luca accampò un
malumore d’artista, saltò giù dall’impalcatura, infilò i pennelli in tasca,
finse - innanzi il bravo - una ridicola spavalderia. Uscì a bere un po' di luce
nel sagrato solatio.
Non sarebbe stato
inverno ancora per molto tempo. Percepì il mondo che germogliava sotto il
grigio delle zolle.
Vide, a una
finestra, una ragazza di rose e pesche, che accarezzava nell’aria fredda la
lunga treccia castana. Il mattino di Vigilia le brillava negli occhi azzurri: il
vestito verde e panna, abbandonato dal davanzale, scivolava su un abbaino e due
gatti addormentati.
Tornò di corsa
all’impalcatura e fissò il viso su un foglio. Ecco: almeno un volto, ora,
la Vergine ce lo aveva.
Lo sbirro avanzò
dalla vasca battesimale, si fermò contrito e curvo, mite, intimorito
alla pala e con tono un po' infantile disse «ostia! Questa è bella!». Si segnò
a destra e sinistra come fanno i bizantini. D’istinto tornò a stringere la
spada e la pistola, come per - di nuovo, ancora - farsi presente al sé stesso
bestia. Senza volgere le spalle.
Ma non è per me: è per
lei; Luca
capì.
E tornò a stare di
sentinella perché nessuno potesse uscire.
Perché io non
possa uscire.
Puoi salvarti, se
lavori.
Le campane
annunciarono che era ormai pomeriggio. I raggi chiari dalle vetriate non gli
bastarono più. Issò il lume, accese l’olio e sperò che andasse bene. L’Arciprete
passò di nuovo a ricordargli il dovuto. E venne ancora la terza volta:
«ricordate il vostro impegno», il lavoro era lontano dal sembrare a compimento:
«Voi cadrete,
mastro Luca.»
«Non cadrò.»
«Cadde pure San
Pietro, per tre volte: come voi, che vi ostinate a mentire e negare i fatti
nonostante che la pala per questa notte non sarà pronta. E noi ne avremo
scorno.»
Noi, «la Chiesa»,
le sue tasche.
Il fatto era che
al dipinto mancava ancora la Luce vera, maris stella, il paradiso. Nelle
tele e sugli altari che celebravano Maria Vergine, quella luce era l’azzurro
del suo mantello incorrotto, un’onda chiara di piume d’angeli, lo squarcio
d’indaco su un cielo spento. Luca aveva in mente quel Maestro di Messina in cui
il miracolo di tutto il quadro era un viso sotto un velo, ricordò versi
italiani che la cantavano di sol vestita. L’occhio umano, lo sapeva, in una
folla all’Adorazione, peccatore e disperato cerca il blu tra le corone, le
zampogne, gli zoccoli, e i barattoli di mirra che nessuno sa cos’è.
L’occidente si
incupì, sui vetri alti strisciò la sera, e la sera si accanì sul battaglio
della notte intabarrata di buio e ferro e sonante di campane. Luca poteva anche aver
finito così, doveva aver finito: aveva steso nella cornice il blu più
bello tra i suoi colori. Il più raro, il più costoso: quello che adoperi una
volta sola.
Era stanco. Era
spezzato.
E doveva essere
tardi.
Tuttavia, si
convinse che il risultato era buono.
Accettabile. Onesto.
Si augurò che lo
fosse anche per l’Arciprete; e l’esattore là in fondo, al buio, con la lama e la garrota.
Tre borghesi
sospettosi, infagottati nei bei vestiti, dondolarono davanti all’impalcatura
con occhi giudici, taglienti, ostili; la faccia aspra e le mani tutt’arrugate e
intrecciate sulla schiena. Non potevano aspettare l’introibo e mezzanotte:
no, lui si irritò. La pittura era lucida, fresca, faceva ancora quel
certo odore:
«Giovane»,
giovane!», lo apostrofarono i tre borghesi, «non si lavora così, ché non mi
sembra l’azzurro giusto.»
«Io ci avrei messo
una misura di bianco.»
«Per me c’è i
grumi: hai mescolato il colore?»
«Giovane, faˈ un
po' vedere: che pennello hai usato?»
«Non è mica quel
celeste… Non l’hai mai visto, mi sa, tu.»
Era un tu
che lo accusava. Gli chiarirono, in un rutto, che ce ne avevano parecchie
altre, di critiche da farne:
«Lasciamo perdere
però, ché è meglio.»
Lui adesso sarebbe
sceso dal palco e li avrebbe presi a calci. Lo avrebbe fatto, lo faccio.
Perché parlate? Chi siete voi? Con quelle facce da chi Cristo ce l’ha in
tasca e i capelli impomatati come i principi del Catai. Che luccicavano di
argento e grasso sotto il lume pencolante. E il coglione sorrideva,
strafottente e panzuto, con una bocca di denti d’oro e le orecchie di rubino, e
una scarsella per niente scarsa che gli ingrossava l’uccello. Il secondo,
segaligno, che puzzava di speziale: di quegli intrugli per le ferite, di
funerale e quaresima. E il terzo che sembrava fosse approdato dall’Africa: ma
un’Africa profonda, al di là dei portolani, dei labari dei turchi e il terrore
dei leoni. E fumava da un’ampolla gli stessi fumi di noi cristiani.
Cosa avevano da
dire?
Che la pala era
mediocre, e non hanno affatto torto.
Meglio no.
Li ignorerò.
Voglio scendere lo
stesso.
A guardare dalle
panche il suo lavoro finito.
Il mondo era a un
battito dalla nascita di Dio, e la folla venne in chiesa dalle mura e le
campagne. Portò dentro un po' di neve e l’olezzo della vita. L’Arciprete, in
sagrestia, si infilava la pianeta, la casula, il pallio, la perpetua lo
tormentava che non la aveva stirata bene, insisteva a rammendarla, la
riallacciava da capo. Un chierichetto la allontanava dal guardaroba del
sacerdote, perché quelli erano i panni interdetti ad ogni donna.
Luca si fermò a
pochi passi dalla pala: era ancora all’altare, con la schiena al leggio.
Sopraffatto dai colori e le figure imponenti.
Arretrò di qualche
piede, era ancora dentro il quadro. La Famiglia, i Re, i pastori, il
corteo e Re Erode in lontananza gli apparirono grandi quanto lui, spalla a
spalla, sguardo a sguardo. Si dissolveva in quell’ampia folla come, adesso, in
quel piccolo paese che gremiva l’edificio.
Volle ancora andare
indietro, e sulla porta capì di aver fallito.
La sezione della
pala che aveva fatta a novembre - i boschi, i templi, il mondo falso lontano,
gli aquiliferi romani, i tremendi infanticidi - gli sembrarono perfetti di
quell’arte truffatrice che si addice alle menzogne e i fondali in cartapesta.
Ricordò di averli stesi con le mani calde e ferme, con in pancia il minestrone,
quando c’era ancora tempo. Quando cerano i quattrini.
Le figure più
vicine, le figure più importanti, non riuscì, o piuttosto volle,
quasi neppure guardarle. Doveva averle imprecate tutte, in quelle ultime
settimane. Non aveva dato niente, aveva solo contato i giorni.
Si aspettò la
spada fredda, la pallottola nel cuore, e una mano che gli frugava nei pantaloni
per riavere quei denari che non aveva onorato. Uno sguardo dello sbirro lo
trafisse alle scapole, sentì addosso tra un oremus e un versetto le
attenzioni dell’Arciprete che pretendeva giustizia.
Doveva essere, e
apparire così affranto, che l’esattore lo lasciò andare, per ora.
Tanto, lui inghiottì, lo
avrebbe ritrovato.
Si sedette sui
gradoni.
Nel nitore della
notte.
Restò lì ad
intirizzire.
La funzione era
finita.
E il cielo c’era
ancora.
Sentì passi
impantofolati e un fruscio di paramenti.
«Maestro, maestro!»:
l’Arciprete si spogliò dagli indumenti del rito, e asciugò con il panno e col
velluto gli occhi stanchi, felici, e gli occhiali appannati, «Io non ho mai
visto un’arte così bella»; lo tirò per il cappuccio e lo costrinse a tornare
dentro. Si sedette silenzioso, a sinistra della pala, con la sua tonaca vecchia
e bruna su una seggiola di paglia.
La ragazza con la
treccia, quel mattino alla finestra, ora era ammantata nella cascata dei suoi
capelli: che nel bagliore dei ceri inquieti poteva essere di penombre, fiamme o
firmamento. Un riverbero marino. I tre borghesi si inginocchiarono ai colori
del dipinto, portando per le briglie i tre cavalli potenti. Ai fianchi neri
degli animali luccicavano bisacce: gonfie d’oro, di elisir e di grani resinosi.
I caprai vennero avanti dalle tenebre gremite, e la prima fu una donna con un
agnello portato al seno e tenuta per la mano dalla bambina di vetro. Gli altri
la seguirono come scendessero per una duna.
La luna piena gelò di luce le colline e le montagne, le casette acuminate, le pinete all’orizzonte.
La corona delle stelle che si specchiava sui mari blu.
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