«È a San Servolo,
professoressa, è un’isola. È la sede momentanea della Scuola di Nuove Tecnologie.»
«Sì, ma come ci si
arriva?»
«Deve prendere il
battello fino a San Zaccaria. Linea due, di solito: la rossa. Da lì un altro
battello la porta a destinazione. Linea venti. Sarà circa una mezz’ora di
attraversata. Con la nebbia forse un po' di più.»
«In due ore ce la
faccio? Inizio oggi alle undici.»
«Non si preoccupi»,
le sorrise la segretaria, «casomai, gli studenti la aspetteranno. Ma vedrà che
sarà lei, sempre, a dovere aspettare loro.»
È così che
succedeva.
«Benvenuta tra
noi.»
Laura firmò per la
presa di servizio, ficcò in cartella le venti pagine di contratto, norme e documenti,
e dalla sede dell’Accademia a Zattere di Santo Spirito passò - di imbarcadero
in imbarcadero, domandando agli equipaggi se fosse quella la corsa giusta - al pontile
di legno e di metallo che cigolava su un’acqua verde tra San Marco e gli Schiavoni.
Come tutti, nella vita, era già stata a Venezia: la città ovvero la
città nota le era impressa negli occhi azzurri nella sua forma di
cartolina: da una gita alle medie, al liceo, da un weekend alla Biennale; da
una fuga con un ragazzo, baciandolo, alla laurea di un’amica. Era stata e sarà sempre
- pensò - per il turista, che è sempre stupido e presuntuoso di non
essere turista quanto gli altri - una Venezia di sole e oro o di pioggia e di
cobalto, piombo, panno, antracite e lacca nera; e i ponti e cupole, le onde e
il campanile dove i fotografi degli Anni ˈTrenta, o i vedutisti del Rococò, le
avevano ormeggiate ad un marmo immaginario. Oggi invece - ma lo prese per un
buon segno - quella nebbia la immergeva nella Venezia feriale: dei motori che
tossivano e saltavano sull’acqua, e il parlato tra la gente di una liquida
durezza; dei cartoni, dei carrelli e le buste della Coop. Le facciate, i campanili,
le cattedrali e le chiese si afflosciavano nel bianco come ombrelloni di un bar
che è chiuso, quel vapore li impregnava di umidità faticosa. Si disfacevano sui
marciapiedi in ombre grigie e solenni.
Alla fermata San
Zaccaria le confermarono che «sì, tra poco»: la bigliettaia guardò il display delle
partenze e gli arrivi, guardò la nebbia, l’orologio alla parete, guardò ancora
la nebbia, il display, schioccò le labbra; «sì, tra poco», ripeté.
Laura attese in
una fredda pensilina che sembrava assemblata con i relitti di un mercantile:
assi di legno sul pavimento e gli infissi di lamiera, distributori automatici
di caffè, sedili in plastica su quattro file com’è l’attesa negli ospedali.
Persone sole coi loro cani. Accucciati in silenzio. Come attenti e spaventati
dai gorgoglii nell’assito.
Un barrito
annunciò il battello per San Servolo, la fiancata della barca cozzò i pali dell’approdo.
Il pilota legò una cima, e gettò una passerella. Laura andò a sedersi nel
desolato sottocoperta. Le due donne e l’anziano con i cani preferirono gli
schizzi, il vento e la salsedine. Le due eliche ringhiarono e sbatterono nell’acqua,
il pilota puntò la prua nel bianco immobile attorno a loro.
Venezia era
scomparsa.
L’isola addensò in
un monastero settecentesco, severo, di marmo nitido e luccicante nel cielo nuvolo
lattiginoso. La riva era scavata in una darsena per motoscafi; due moli di
garzette, cornacchie e di gabbiani scendevano nell’acqua infestati d’alghe e
mitili. San Servolo era chiusa in un perimetro di mura e d’alberi, più da
vicino si distinguevano, tra i filari di cipressi, i tetti scuri degli edifici su
un rettangolo di terra. Laura cercò su Google qualche immagine dall’alto, una
mappa: era davvero rettangolare.
Il battello toccò
il molo: lo trovarono deserto. Gli uccelli fuggirono all’apparire dei cani
appollaiandosi tra i rami fitti e più alti delle mura, la nebbia attutì i
gridi, i guaiti, le eliche e la sirena della barca che se ne andava e puntava a
un’altra isola. Il frullio dell’ali bianche dei gabbiani echeggiò grande e
pauroso. Lei, non trovando indicazioni né altri accessi, seguì il vecchio e le
due donne in una sorta di reception.
Le ragazze in
uniforme dietro un bancone di legno e vetro, tutto sparso di depliant, con
vetrinette di souvenir, li lasciarono passare e neppure li salutarono.
Strano, pensò Laura: sì
fermò.
Realizzò da avvisi
appesi, da due bacheche di chiavi, e dai monitor sul banco su cui scorrevano
prenotazioni, che il monastero e che tutta l’isola, di fatto, era un hotel. Era
un centro di accoglienza. E una sede di congressi.
Notò la foto,
seppellita tra tutto il resto, di un uomo esile dal viso triste. Con la stessa
uniforme delle ragazze in servizio.
"IL MUSEO
DELLA FOLLIA", si leggeva su un pieghevole: un’area intera dell’edificio
dedicata alla storia del disagio, tristi reperti di manicomi e pannelli su
Basaglia, Van Gogh, quelli famosi.
Dell’Accademia,
invece, nemmeno il logo.
I padroni e gli
animali percorsero un corridoio, e un gemito di cardini durò in un colonnato. Da
in fondo a destra la luce pallida della nebbia entrò nella reception.
«Buongiorno. Prego»,
la invitò il personale, «È nostra ospite? Ha prenotato?»
«Buongiorno. Scusate»,
lei schiarì la voce; e chiese a quella, tra le ragazze, che le sembrava che
fosse il capo: una bionda ingioiellata senza imbarazzo del proprio peso,
«sono la professoressa Alessi dell’Accademia di Belle Arti. Mi hanno mandato
qui, spero». Cioè: spero di aver capito. Di non essermi perduta, «Dove
devo…»
«Accademia di
Belle Arti, certo», annuì la ragazza, «Non si ferma per la notte.»
«Oggi no, è la
prima volta. Mi sto orientando. Però… dovrei?»
«Siamo qui a
disposizione.»
«Vivo a Padova, ma
grazie. Ho treni comodi fino a sera.»
«Ma i battelli, a
volte… sa, con la nebbia com’è oggi…»
«Mi hanno detto
che i collegamenti tra le isole e la città sono sempre assicurati.»
«Possono esserci
dei casi limite. Una volta abbiano dovuto sistemare una scolaresca, in gita,
che la sera si è trovata bloccata qui. I ragazzi hanno dormito nei locali laggiù
in fondo», la ragazza inghiottì. Accennò uno sguardo obliquo all’altro capo
dell’isola, «preferiamo non usarli, naturalmente, può immaginare: questo era un
sanatorio… e c’è stato un incidente…»
«Che incidente?»
Volevo chiederlo?
Voglio sapere?
«Io non c’ero. Non
so bene. Ma si parla di trenta o di quaranta anni fa. Il vostro stabile», l’altra
tagliò corto: era un "vostro" molto ostile, «è qui», le mostrò su una
cartina: «complesso "I Tigli": quello accessibile,
naturalmente. Lo vedrà, capirà. Esce a destra», le indicò: dove infatti erano
andate le tre persone coi cani… «e prosegue sul sentiero. Trova "Il Tiglio"
a sinistra dietro i campi sportivi.»
Lei non volle sembrare
stupida: non dovrebbe essere lontano; sulla carta la intera isola
sembra lunga sì e no un chilometro...
… a voler
esagerare.
E infatti non lo
è.
San Servolo le
apparve come un parco cittadino. Di una piccola città. L’orto botanico di un
ateneo. Le eco sorde e marine dei quattro lati dell’isola non tracimavano le
mura basse di mattoni e rampicanti: le penetravano dalle finestre sulle secche
e la città - invisibile e remota - cui si affacciavano rose rosse di monastica
bellezza. Laura si inoltrò su un lastricato perfetto che incrociava aiole e siepi,
il prato rorido, pettinato. I tronchi vivi di arbusti ed alberi le apparirono
pennellate, macchie verdi ad acquarello sul cotone della nebbia. Graffi, coli.
O sbavature. Su un tessuto grigio sporco. Tra gli spettri delle piante tremolavano,
lontane, le forme piccole delle persone e le scie brune dei cani in corsa:
molte più dei passeggeri e gli animali sul suo battello. Era un orto botanico
come anche uno sgambatoio. Dove porti il cane a correre, altrimenti, a
Venezia? Affioravano dal niente e ritornavano nel niente bianco. Non
fischiava, abbaiava né ansimava nessuno.
Sul percorso erano
infissi i cartelli in bel corsivo con i nomi botanici degli edifici del parco:
I Larici, Le Querce, Gli Ulivi, I Pioppi, I Pini… dietro a quelli si intuiva a
qualche metro di nebbia la massa scura, fumosa e cubica di alloggi e dormitori.
Più da vicino Laura li trovò muti - perché ho pensato "muti",
invece di "silenziosi"? - con gli scuri in legno verde accostati tutti
madidi di nebbia.
Sono camere. È un
albergo. È ottobre,
Laura scrollò le spalle: mi pare ovvio che sia così.
Il campanile bianco
del monastero - alto, e nitido sui vapori - quegli edifici schiacciati e cupi
nella lattiggine del giardino, le ricordarono un ospedale. La solitudine,
la malattia, Ma la receptionist lo aveva detto: questo è stato un sanatorio.
E le prese un groppo in gola al pensiero, al dovere, di doverci, d’ora
in poi, ritornare per vent’anni.
Ma aveva appena
firmato, o no? Ho accettato l’incarico, ho ottenuto la cattedra. Dopo decenni
di precariato le sembrò quasi irreale.
Era inverno,
inghiottì, e c’è la nebbia. Con il sole, a primavera, qui dev’essere molto
bello.
Tra i cespugli
apparirono delle sculture di legno: animali, forme astratte. Il lavoro di
bambini. Laura immaginò una scuola media, elementare della città che aveva
svolto un laboratorio sull’isola e donato gli elaborati.
Più di tutto la
colpì una grande sfinge scolpita bene - forse troppo, per un
bambino: forse questa è del docente. Con il volto di un neonato. La
scultura era spezzata, era annerita da un lato, era segnata di bruciature sugli
occhi attoniti e levigati. Inclinata e abbandonata sull’erba umida scura,
soffocata dalla nebbia, e macchiata dagli insetti, la scultura tuttavia sentiva
ancora di arso.
Poco oltre, i
vapori ribollivano come nel ventre di una cascata contro il muro perimetrale
dell’altro capo dell’isola: "I Tigli", a questo punto, doveva essere lì.
Su un terrazzino affacciato
al mare, che sciabordava là sotto, una sedia arrugginiva in salmastra solitudine.
Il terrazzino si interrompeva contro un piccolo edificio, molto diverso dai
dormitori: lei lo trovò di proporzioni sgradevoli. Sulla porta era
infissa una targhetta di ottone non incisa di alcuna lettera: o grattata, o
graffiata, o cancellata con acido. Su un cartello più recente c’era scritto "spogliatoio".
Laura sentì
vociare nel fitto della nebbia, e molti passi sul lastricato e sull’erba e
sulla ghiaia. Voci giovani - studenti? - parecchi colpi di tosse secca.
Seguì i rumori. Trovò i campi di basket. Dietro i campi il cartello "I
Tigli" e l’edificio dell’Accademia.
Attualmente, dell’Accademia - la
receptionist le avrebbe precisato.
Tutto aveva l’aria
di qualcosa di provvisorio; ma di molto, provvisorio: il logo, e il nome
della scuola, figuravano su un bristol affidato alle puntine. La porta a vetri
era aperta. Nel cabinotto in portineria trovò un bicchiere di plastica, con un
fondo di caffè che luccicava appiccicoso. Da un ripostiglio di scope e sacchi, spalancato
nell’androne, era evidente che mancasse qualche mocio e il secchio per
strizzarli.
A uno stipite
ronzava il lettore del badge. Laura infilò il proprio, ritirato quel mattino:
lucido, nuovissimo, ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VENEZIA, bianco e nero, essenziale,
"106" impresso sul recto. La macchinetta brillò di un bip:
questo, almeno, funzionava. Doveva essere nel posto giusto, nonostante le
apparenze.
«Buongiorno,
desidera?», una donna la apostrofò: la apparve dietro in felpa e fuseaux neri e
scarpe morbide e comode da lavoro. Posò a terra il secchio rosso e odoroso di detersivo.
Brandì il mocio.
«Buongiorno. Sono
la professoressa Laura Alessi» eccetera: ebbe la impressione di ripeterlo a sé
stessa, «inizio oggi. Sono in ritardo?»
Guardò l’ora: non
lo era.
La portinaia tornò
in gabbiotto, gettò il bicchiere, stese sul tavolo una tabella stampata su un
A4 con nomi e numeri aggiunti a mano con matite, grafíe e pennarelli diversi.
Molte macchie, cancellature e nastro carta adesivo. Laura scoprì che il giovedì,
di mattina, per il Triennio, dalle undici alle quindici, erano in calendario
soltanto le sue lezioni. I colleghi affollavano tutte le aule negli altri
giorni, con una ressa particolare martedì e mercoledì. Non era detto che fosse
un male.
«Aula B,
professoressa», disse l’altra in tono più gentile, «è dietro l’angolo: la
struttura separata. Non questa: l’altra, naturalmente. Vedrà. Io, se non
le spiace, ho da finire di sopra», tornò al secchio, lo scopone e accennò alle
aule e i bagni che si trovavano al primo piano.
«Grazie. Grazie»,
disse lei.
Dall’ingresso al
lato opposto dell’edificio, sullo zoccolo d’asfalto che si appoggiava sull’erba
rorida, si susseguivano quattro aule con le porte chiuse a chiave. Dai battenti
trasparenti e le finestre dai vetri spessi si scorgevano, all’interno, i proiettori
e i pc, i teloni da proiezione che pencolavano alle pareti e scatoloni di attrezzature
da inventariare o sostituire; le prolunghe, i cavi e le ciabatte. Tutte le aule
multimediali del paese, e forse il mondo, erano in fondo lo stesso posto. Poteva
essere materiale che era appena arrivato, o materiale che andava portato via;
poteva essere un locale da allestire o un locale da sgomberare. Poteva essere
non agibile da un giorno all’altro e restare non agibile per un semestre o per
sempre. È una sede provvisoria, le aveva detto la segreteria; è una
sede provvisoria, le aveva detto il Direttore dell’Accademia alla prima
telefonata per conferirle l’incarico. Secondo graduatoria del Ministero dell’Istruzione.
Trovò studenti seduti
al muro all’aperto a fumare e chiacchierare, la lasciarono passare per riguardo
a una signora: non era ancora - non lo sapevano - la loro professoressa.
Era presto per
entrare: doveva attenderli in aula.
Contro il muro la
nebbia si infittiva: inghiottiva quelle porte, quei ragazzi e le ragazze, solo un
metro o un passo dopo che li aveva superati. Le loro voci si sbriciolavano tra
i crepitii della ghiaia, e i mozziconi di sigaretta si spegnevano nel bianco.
Pur se erano all’aperto le strisciò dietro un odor di fumo.
Un odore di
bruciato.
Che non è la stessa
cosa.
Laura voltò l’angolo,
e di là non c’era nulla.
L’edificio, il
muro esterno, una barriera di alberi, il profilo disgraziato della struttura
inquietante - che, intuì, era ridosso allo stabile dell’Accademia - formavano una
conca di lattiggine e silenzio. Lo aveva visto una volta, al mare, da
bambina, a passeggio con sua madre triste e zitta tutto il tempo. Perché il
babbo non ci fosse, quel giorno, non lo aveva mai capito. Le era accaduto in
età diverse in città diverse e vuote, che attraversava delusa e sola e ferita e
calpestata. I rumori rallentarono in un vibrato angoscioso, lei, con un senso
di vertigine, procedette a un passo dopo l’altro verso il bianco un po' più
grigio che poteva essere una parete, una porta, l’Aula B: doveva essere lì
davanti, se un davanti c’era ancora.
La trovò, c’era
una targa, e la lettera era B. Su un pannello di metallo gocciolante di vapori.
C’era anche una maniglia. Era aperto, Laura entrò. Una stanza fredda e vuota illuminata
da un lucernaio, con lunghi tavoli ma poche sedie: come sempre, poche
sedie. Non c’era ancora nessuno. Posò lo zaino, il pc, i suoi libri; scribacchiò
su un quaderno per non sentirsi a disagio. Per sembrare già impegnata. Lasciò
aperta la porta. Entrò caligine e più freddo ancora. Doveva avere tutto il
cappotto impregnato di sigarette, accidenti a quei ragazzi. Le narici le
prudevano di fumo.
Non di fumo: di
bruciato.
Era cenere,
in effetti.
Rabbrividì. Si
raccolse il capotto sulle spalle e sperò che accendessero i termosifoni; pensò
agli anni ovunque in altre scuole e ricordò che i termosifoni non li avevano
accesi mai.
Sono le undici,
arriveranno.
Sono qui.
Sono in orario.
Alzò gli occhi dal
quaderno.
Ce n’è uno.
Uno studente.
Ma non lo aveva
sentito entrare.
Era seduto al lato
opposto dell’aula a due sedie di distanza dall’ingresso spalancato.
Altra nebbia
strisciò dentro:
«Buongiorno.
Buongiorno», disse Laura seriosa.
Lo studente le
rispose con un cenno della testa.
Laura allora si
stizzì.
No.
Non pensare che
sia maleducato.
Non ti ha mai
visto. Non ti conosce. Sono timidi, concesse.
Continuò, per
darsi un tono, a scribacchiare sul suo quaderno, compilare i fogli firma per le
presenze degli studenti e aprire e chiudere i propri libri e a spostarli sul tavolino.
A spostarli un’altra volta. A annotare altre sciocchezze. Fare un conto della
serva sulle spese di trasferta. A rileggere i messaggi sul cellulare e
cancellare i messaggi letti dalla lista di WhatsApp. A spostare ancora i libri.
E notò che il cellulare, nella stanza, non prendeva. Anzi, no: prendeva male.
Considerata la nebbia fuori, e le pareti robuste e vecchie, e l’isola, le
sembrò ovvio che non prendesse. Ma accenderanno i termosifoni?
Alle undici mancavano solo pochi minuti. Alle undici e qualcosa si sarebbe
alzata in piedi, decise; avrebbe detto «buongiorno a tutti», si sarebbe presentata.
Iniziato le lezioni per chi c’era e chi non c’era. Però forse, con la nebbia - che
rallentava i battelli; e che impediva le traversate dove e quando era più fitta
- era giusto, e aveva senso che non fossero venuti. Più in ritardo. Forse un’ora.
Le dispiaceva, quel primo giorno. Si ostinò con gli occhi bassi sulle sue
pagine e le sue carte. Per sembrare indaffarata. Ricordò che aveva appunti nell’agenda
e scontrini e promemoria da ordinare e conservare. L’appuntamento con il
dentista. Il biglietto del battello. L’appuntamento con il tecnico della
caldaia e il tecnico Fastweb. E una rata di condominio e due biglietti di
Frecciarossa.
Un quarto d’ora di
cose varie.
Le sembrò fossero
ormai le undici-e-qualche-cosa da più tempo delle undici-e-qualche-cosa:
l’orologio alla parete poteva forse essersi fermato, ma il display del cellulare
non poteva essere guasto. Tuttavia le cifre elettriche, azzurre sul
display, tremolavano sempre uguali dentro il plexiglass graffiato.
Sarà ora di
cambiarlo?
Non c’era ancora
nessun studente.
Quando fossero
arrivati, però, li avrebbe visti.
Sentiti entrare.
Spostare i tavoli,
i pc, le sedie: come sempre e dappertutto.
E gettare i loro
zaini ad afflosciarsi sul pavimento. Quel rumore vagabondo di stanchezza e di rinuncia.
Frugò a caso nella
borsa. Levò lo sguardo, accidenti!
Come?!
Due dozzine di
studenti sui lunghi tavoli contro il muro.
Come erano
arrivati?
Zitti. Fermi. Silenziosi.
Nella penombra dell’aula fredda. La luce pallida della nebbia che penetrava dal
lucernaio. Il grigiore della stanza affiochiva i loro abiti, i giubbotti e le
sciarpe colorati; le ciocche gialle, i capelli azzurri, le facce livide e gli
occhi spenti: La stanchezza di svegliarsi per i treni del mattino, e per gli
autobus e le barche che li portavano alla stazione. Le levatacce.
Dei ragazzini.
Dei bambini di
liceo.
Laura, in vent’anni
di insegnamento, non aveva mai creduto né mai smesso di stupirsi di quanto, al
primo anno degli studi universitari, fossero ancora così piccini. Tanto persi e
così smorti.
L’odor di cenere e
adesso di bagnato impregnò l’aula, le sedie, i tavoli.
«Buongiorno a
tutti», Laura salutò. Si alzò in piedi, fece il giro della cattedra, qualche
passo tra le sedie e i banchi vuoti di fronte. Più vicina e più cordiale con i ragazzi. Nella sala ristagnava
un vapore rarefatto mescolato all’aria chiusa e alla polvere e quel freddo.
Le risposero un
brusio. Ma ovattato, lontano. Nella nebbia. Poteva essere diretto a lei:
le sembrò che non lo fosse. Che continuassero a parlottare, soli, e sordi.
Tra di loro. Come se Laura non li ascoltasse, non li sentisse, come non fosse
nemmeno lì.
Come non fossero,
nemmeno lì.
Il brusio crebbe
di tono in un’intensa vibrazione, che però, realizzò Laura, era adesso alle sue
spalle.
Il suo telefono
cellulare.
Una chiamata dall’Accademia.
Passò accanto e
attraverso gli studenti. Uscì dall’aula. Rispose:
«Pronto.»
Riconobbe il tono
mite, puntuale e preoccupato della stessa segretaria con cui aveva firmato:
«Professoressa, va
tutto bene?»
«Sono a San
Servolo.»
«Cos’è, si è
persa?»
«Come sarebbe, mi
sono persa?»
«Se n’è già
andata?»
«Sono qui, in Accademia.»
«Ce lo ha detto la
collega…»
«Ecco, appunto. Lei
mi ha visto, ho timbrato, mi ha indicato le aule. Sono qui, con gli studenti.»
«La collega ci ha
avvisato che gli studenti la aspettano. E che è venuta a cercarla in aula: lei
non c’era. Si è preoccupata. La sta cercando da più di un’ora»
Laura si voltò
nella nebbia che diradava, una folata di vento salso spazzò i vapori tra gli
alberi e gli edifici. Si trovò all’ingresso nero, buio, fatiscente, di
una specie di magazzino divorato ed annerito. La memoria di un incendio.
Sullo zoccolo era sparso un nastro in plastica di interdizione a bande rosse ma
scolorite e bande bianche insozzate: sospettò, all’improvviso, di averlo schiantato
lei. Si ritrovò con le scarpe sporche, grigie e ricoperte di cenere.
Una calza era smagliata per una scheggia di legno, o - e sperò di no - per un
chiodo arrugginito.
Però là dentro non
c’era niente.
Un dolore, un urlo
e una paura la gelarono sulla soglia. La accecò il lampo, l’istantanea
di agenti di polizia che esaminavano rassegnati una caldaia sventrata. Che coprivano
di teli piccoli corpi carbonizzati. Un agente vomitava di
nascosto tra le piante.
Chi cazzo li ha
messi a dormire qui, diocristo.
Vide un uomo con
in mano una pistola chiuso a piangere e tremare nella toilette dell’albergo.
Allo specchio c’era un volto triste ed esile. Nel neon. Una poltiglia di carne
e cranio che esplose sullo specchio.
La portinaia le
corse incontro trafelata e turbata, con il telefono a vivavoce nelle tasche
della felpa:
«L’ho trovata, l’ho
trovata! Ohssantocielo, professoressa! Eccola! Dov’era?!»
A pochi passi dalle
rovine del magazzino c’era uno stabile ben tenuto, studenti, e una targa sulla
porta che indicava l’AULA B.
L’indicazione di
fronte a lei, su un intonaco bruciato, era quasi illeggibile: gli anni, il
fuoco, le intemperie e l’abbandono non avevano risparmiato che la B di OBITORIO.
Nessun commento:
Posta un commento