Alibi di poeta
1.
(nota in basso numerata:
qui l'autore sta a indicare)
La parola "me", in francese
- lingua eletta dell'Europa,
dell'esordio di Godot:
palcoscenico aforisma
del pianeta avuto in sorte -
"moi" si scrive e legge
"muà":
assomiglia al lemma stanco,
vinto, cinico, perplesso
dei discorsi rinunciati
coi pensieri a una parete.
Le impressioni di letture
riflettute su un wc,
o i commenti a una banana
fatta un'arte scotch al muro:
«Mah!», un sospiro, poi scatarri,
resti stretto nelle spalle,
hai la faccia da animale,
pieghi il grugno in una ruga.
Scrolli il fango dalle scarpe,
tiri l'acqua, giù il coperchio,
lasci gli altri e le giornate
rotolare fin in fondo.
«Mah!», dei versi su di un Me.
Eh.
Vorrei fosse
servita
l'erta pagina di Dante
che mi impresse nelle ossa
che poesia ci ha tre motivi:
guerra, amore e la virtù.
Ma per l'alito e le fiamme
io non sono mai bastato:
serve l'essere di carne,
non vigliacchi al proprio corpo.
Sono figlio di un Paese
la cui Scuola ha stanze basse,
coi soffitti reclinati
di lezioni a stare curvi.
La virtù ce l’ha in parrocchia,
la domenica nei bar.
Io, Bertrand, non ho i colori
vari d'elmi a primavera;
Guido, io non ho mai visto
nevi all'alba più di Lei;
né il commercio di Giuseppe
con la mia Democrazia:
solo, ho avuto questo Niente
(la buon’ora che lo ammetta).
2.
Non è un fatto che una casa
che non sanguina né grida
sia la stanza luminosa,
la coperta di un'infanzia,
né i portoni verniciati,
né l'ottone e i campanelli.
Né i cortili né l'aiuole
né i gerani al davanzale
ti ricordano che allora,
ecco, è andato tutto bene.
Che era estate.
C'era
luce.
La lucertola guizzava.
Questo adesso lo sapete,
lo leggete sui giornali:
l'ematoma a colazione,
labbra rotte su un divano,
le altre storie dell'orrore
che dimostrano l’orrore.
Questo adesso lo sapete,
la buon'ora. O forse no.
C'è un dolore che non tocca,
la violenza che non sfiora,
che non fa nessun rumore
certe volte e in certe età:
per me è stata - non sapevo
su un sofà celeste e bianco,
in un angolo d'agosto
tra quei placidi scaffali.
Che cos'è che mi piaceva,
piacque, vinse me dei libri?
È ridicolo: la forma,
quei rettangoli in cartone;
lo spessore,
dove
giusto
dove
bello:
sempre,
i tomi
ho sospettato.
Questo solo.
Solo
questo.
Sciocco,
poco.
Una scatola, in effetti
(questo lemma è così puro
fatto carta o fatto legno:
è quel tipo di parole
che le leggono le dita):
una scatola, in effetti.
Una scatola è qualcosa.
Dei giocattoli, e monete,
cartoline, una fettuccia,
tralci strani di un passato
di persone, ma diverse.
Dentro un libro cosa c'era
tra le costole di pelle,
oltre, in fondo quei paesaggi
colorati sui coperchi?
(ero già bell'e grandino
quando intesi "copertine"...)
I paurosi bui di Thole,
i velieri, i corvi, i cervi,
le ragazze bionde e rosa
sui bus rossi londinesi?
Chi sa leggere, bambino?
(ora invece lo sai fare?)
Poi nel tempo l'ho saputo:
c'era - io, fetale al libro
quel silenzio musicale.
Quel non essere nel pianto
da una camera lì in casa.
Quel bastarsi su un cuscino.
Dentro un sole di finestra.
Forse è stato solo questo.
Il restare illeso e solo.
3.
Leggo un giovane seduto
sotto un pino, nella pioggia:
Robert Walser scrive versi
"brutti, belli, luminosi:
non importa", dice,
"scrissi".
Robert Walser che ha vent'anni,
che va a piedi, corre il mondo,
le colline in giacca gialla,
veste gli abiti leggeri.
Ha un cappello colorato.
William Butler dei Fantasmi
dell'Infanzia e Gioventù:
"Quando peso questa vita
sulla stàdera, la mia
sembra attesa a qualche cosa
che non c'è e che non accade".
Sulla pagina gualcita
dai miei furti in casa Yeats
c'è una roccia di silenzio,
c'è un terrore, su quel foglio.
Hermann Hesse mago e bimbo
di un librino colorato,
i disegni, il bel corsivo,
l'edizione originale.
Lo emulavo, a diciott'anni:
foto appese agli scaffali,
Buddha, Khali, Anubi, un teschio,
scrivania disordinata.
Come fosse in quelle cose, l'arte,
non la polvere su quelle.
Le cartine di montagne
con i draghi attorcigliati,
la manina amanuense
che indicava frasi in rune,
gli Hildebrandt in copertina,
le cannicce e la collina.
Il romanzo in verde e rosso
rilegato in grigioperla,
torre tortile in avorio
nei serpenti inanellati.
Tolkien, Lord Of The Abat-jour
di un bambino sempre solo
- fuori invece aprile e gli altri,
l'aria mite e il cri dei grilli.
Ma speravo la finestra
si schiantasse al plenilunio,
fosse vero - a tredici anni!
(solo, e un cesto di problemi) -
Michael Ende che leggevo,
la faccenda di Fantàsia.
Fu ridicolo in cappotto
farsi il fiume in bicicletta,
fare in versi gli imbrunire
di ogni giorno di settembre.
Spetalare Charles dei Fiori
come fai coi figurini,
nota in margine a matita
"io però l’ho scritto meglio".
Darti un frère e un tuo nemico
pur di avere un tuo qualcuno.
Hawthorne: chiuso tredici anni
sotto i travi di abbaini;
solitudine dei morti,
facce impresse alle finestre,
i pispigli, i cerchi, i ceri
nei parchetti sottocasa.
Qualche rigo di racconto
color Meyrink sul quartiere.
Ero sbronzo di ˈSeicento.
Quando altrove c’era il mondo.
Studiai No per Ezra Pound,
ci ho provato con l’ebraico,
la grammatica d’egizio
nei librini di Papùs.
Versi in metri medievali,
lessi il Fiore di Zeami,
Pauwels e Bergier de Il Mattino
e il Kalevala e Sturlusson;
Sacks, sua Moglie ed il Cappello.
Certo: Ernesto De Martino.
Mi rivedo: un deficiente.
The Portrait: la stessa età,
gli anni a Lettere (pensate!...),
quel capitolo: la scarpa
e il rettore gesuita.
Il finale: in cui James Stephen
dice "Andrò", com'è in Of Old
(when the heroes thought it base
to be confin'd to native air).
A vent'anni hai il sangue in guerra:
io restai nella mia stanza.
4.
Diciasett’anni, ricordo.
Un
sabato.
Torno a casa dal liceo.
Trovo mamma ad annaffiare
l’albicocco nel giardino,
rose, fragole e gramigna
di un triangolo di terra
(eravamo in condominio,
via Panoramica novantuno:
ghiaia, calce, reti verdi,
la facciata era nocciola).
Dice «Hai vinto»
«Cosa?»,
chiedo.
«Quel Premio Mattòli per la poesia.
Poco fa han telefonato…»
… da
quel Comune che non ricordo,
ma un paese dell’Emilia
- forte accento, alla cornetta.
Quattro strade di paese
che ha bandito questo premio:
due milioni allora, in lire,
nelle tasche del giubbotto.
Poiché già scrivevo versi
di colore maledetto
per la noia e le ragazze
(soprattutto le ragazze)
vidi il bando su un giornale
spedii una pagina, me ne scordai.
Quel mattino avevo vinto
- rami spogli d’albicocco.
Io non so com’è successo,
poi, la stessa settimana,
che lo seppe la mia scuola,
la supplente di Italiano
- una ragazza neolaureata
coi capelli corti e neri,
bianca, d’ossa, con gli occhiali
e un terrore per la neve
(confessò alla classe urlante
quell’inverno che fioccava).
Da quel giorno (è la provincia…)
migliorarono i miei voti.
Soprattutto - è stato questo
- due
milioni e un altro premio,
qualche rigo su un giornale,
qualche pubblica lettura,
qualche «bravo» di un D’Elia
ci persuasero - me e loro,
sia mio padre che mia madre
- che di rime anche "da grande"
c’era il modo di campare.
Le due lire di scrittura
che da lì racimolai
ci offuscarono la testa
- la carota e la speranza.
(truffa grande degli ˈOttanta
quel benessere di tutti;
quell’inutile a portata
di provincia e ceto medio.
Nelle sillogi italiane
delle Lettere italiane
c’è una filza di marchesi,
conti, poi i grandi borghesi.
Pensa a questo quando leggi,
pensa a questo quando scrivi.
Ci credettero gli amici
di quegli anni in metro eroico,
quell’età che è tutta urlata,
quell’età Fracassa e Achille
(le ragazze, invece, mai);
ci credette Gianni, il punk:
che insisteva «faˈ una foto
con
la faccia scura e magra,
con
un occhio da omicidio:
che
ti importi la poesia,
solo e basta la poesia.»
(c’è da dire che in quei giorni
di capelli, pizzo e baffi
quella foto era da fare:
finché rise Elisabetta,
la carina in I A,
che sembravo un moschettiere
dal Reader’s Digest della sua nonna).
Che imbecille quando scrissi
nei curriculum spediti
ch’ero autore in prosa e versi,
ne leggevo con gli attori
- a
tutti i festival culturali
di Grazialcazzo sul Monte Minchia.
Che imbecille quando vidi
- tre volte al cinema, cappotto uguale
Dead Poets Society di Peter Weir:
l’ho veduto ed ho sbagliato.
Che imbecille io, sui libri
di Villon o d’Alighieri,
Eliot, Masters, degli Einaudi
molto prima fosse giusto,
- preferirli
a un prato, il sole,
mezzanotte e l’alba in spiaggia.
Oggi sono trentacinque
gli anni in cenere su questo.
Quel Premio Mattoli da tanto tempo
non lo bandiscono nemmeno più.
Di scrittura non si vive in senso economico, ma noi che ne siamo "malati" senza scrittura non vivremmo nel senso filosofico del termine.
RispondiEliminaMeglio "scrittori (o poeti) della domenica" che depressi cronici dell'intera settimana.