Christian,
ciondoloni sul davanzale, si sporgeva a buttare fumo dalla finestra spalancata
su un piovoso febbraio. Tirava, la sigaretta s’incendiava fin quasi il filtro:
lui si piegava lubrico verso l’interno, le gote gonfie e le narici fumanti, a
spiare la scollatura e le gambe della receptionist. La ragazza guardava a un
anziano in poltroncina che spruzzato dalla pioggia si stringeva nel cardigan,
poi lui, poi ad una coppia di cinquantenni che intirizzita rinfilava i
cappotti. E poi di nuovo lui.
Christian
la fissò fra le volute di Marlboro, ne incrociò gli occhioni verdi, si calò gli
occhiali a specchio sul naso. Sorrise. Lei smise d’un tratto di digitare sulla
consolle:
«Vorrebbe
per cortesia spegnere la sigaretta, e chiudere la finestra?», alzò il mento e
il naso appuntito dritto al cartello vietato fumare, «esca, se
non può farne a meno.»
Christian
incassò l’algido grazie di fine frase, saltò dentro, riaccostò
le imposte; tornò conserto e puzzolente di fumo ad attendere il proprio turno.
Cercò nelle tasche il tagliando con il numero: 16. Lo trovò fra tre scontrini strappati, due filtri sfilacciati e
ingialliti e una graffetta arrugginita appiccicosa di chissacchè. Nascose quel
lerciume nel pugno sudaticcio, adocchiò per un cestino ai quattro angoli della
stanza: non c’era; si rificcò la mano piena in tasca ma l’immondizia gli
restava sul palmo. L’allampanato vicino di poltroncina, un tizio cenerognolo in
abito antracite che accompagnava una bambina silenziosa, composta, nascose di
soppiatto un tetrapak d’Estathè nel terreno molliccio di un vaso di ficus.
Christian,
con una smorfia schifata, si scrollò dalla sporcizia nel piattino della pianta:
«Avranno
un cazzo di donna delle pulizie», pensò, «se ne occupi lei. La pagano.»
I
quindici vecchi, mocciosi, ipocondriaci, malati veri in lista prima di lui, gli
toglievano il respiro, gli mettevano ansia. Attraversavano la porta a vetri lÃ
in fondo con fiale giallognole appannate d’urine, o batuffoli di cotone premuti
sul braccio nudo. Si fermavano dalla un-po'-stronza-ma-figa al banco a ritirare
buste verdi con i referti. Pagavano. O spiegavano con lamentosi monologhi
perché, pur avvalendosi di una clinica privata, avevano diritto a non sborsare
un centesimo.
Quindici:
Christian li ricontò. In quell’aula troppo stretta per dieci, dove ormai si
soffocava a finestre chiuse, lui ne trovava ventuno. «Certa gente non sa
muoversi sola», guardò torvo uno a uno negli occhi, «neppure per un esame del
piscio»; indovinava quali fossero i pazienti e quali li accompagnavano.
Il
primo cui grugnì il suo disprezzo, dietro il velo dei Ray-Ban, fu proprio quel
papà dai toni grigi sulla sinistra.
«Solo
un esame», Christian si ripeteva, «un controllo colesterolo»; s’imponeva
di omettere che era un esame del sangue, e che ciò implicava farsi trafiggere
da un ago. I muscoli s’irrigidirono, riprese a sudare freddo. Recitava come
mantra che era un’assurda fobia, che ne era consapevole, che bastava stornare
il capo per qui pochi secondi… Doveva cavarsela; «più nessuno sa sbrigarsela da
sé: ecco perché va tutto a rotoli. Non si può cagarsi addosso per un prelievo.»
Prese
un magazine dal cumulo sul tavolino, si concentrò su un’intervista a Laura
Chiatti, sull’oroscopo, sul sedere di Flavia Vento, sugli aneddoti di terza
media di un compagno del Trota.
La
mano gli corse d’istinto al pacchetto di sigarette.
Christian
lasciò cadere il giornale, lo schiacciò sotto i camperos sul pavimento, tornò
alla finestra con la Marlboro fra le labbra. Spenta, ma già rassicurante.
Sul
doppiovetro scuro di temporale, e del cemento degli edifici di fronte, vide
riflessa la glaciale receptionist che lo guardava con pupille assassine.
Il
display che pencolava dal soffitto invitò il numero tre ad accomodarsi in
ambulatorio. Lui sottrasse: «sedici meno tre», il risultato era comunque
un’eternità ; nascose la sigaretta fra due dita dietro la schiena e chiese con nonchalance alla
bellezza alla scrivania:
«Si
può fumare in toilette?»
«A
volte purtroppo gli inservienti ci fumano»; purtroppo, inservienti le
uscirono come conati.
Christian
uscì.
Tre
volte percorse gli intricati corridoi.
Coloro
che incontrava cui chiedeva della toilette ripetevano «qui, dietro l’angolo», e
però lo confondevano con acronimi di reparti, numeri e colori di ascensori e di
scale. La quarta si ritrovò all’esterno dell’istituto, in un angolo cieco e
squallido di cemento e di cassonetti. Un indio decrepito con il volto di
prugna, i capelli bisunti, nivei, legati; con il collo tutt’intrecciato di
canapa, di amuleti, e il camice e la palandrana e i guanti azzurri dei lavapiatti,
lo invitò a fumare fuori con lui.
«Bel
modo», Christian pensò, «di scroccare una sigaretta.»
«Ma
dai bagni poi fa molto prima a tornare, se non vuole perdersi il posto nella
fila alle analisi».
Christian
si figurò l’inesorabile contapersone che scandiva già 14, 15; e un’orda di usurpatori bastardi, scorretti, che sapevano
che era al cesso, ma che lo stesso lo scavalcavano.
«La
gente», era convinto, «fa sempre così.»
Inoltre
le pattumiere di quell’angusto quadrato ostentavano etichette che
gridavano pericolo: altamente infiammabile.
«Non
sono mica scemo», Christian sputò.
L’indio
lo portò per un dedalo di scalette, sgabuzzini, intercapedini che finivano in
scorciatoia fino al bagno degli uomini. Christian salì con il vecchio per due
chiocciole di gradini cigolanti e bui, si chinò in un sottoscala maleodorante,
schiacciò scarafaggi su un lastricato crepato. Su un uscio di zinco con
maniglia antipanico, cui filtrava al di là gradevolezza di detersivo, porse
all’indio qualche spicciolo dal portafogli.
Il
vecchio strinse gli occhi, grugnì, agguantò le patacche che gli pendevano sullo
zinale; paonazzo gliele sbatté sotto il naso, gridava di «timore! rispetto!»,
nel biascico incomprensibile della sua chissà che lingua madre.
«Ehi,
la madonna!», Christian lo allontanò, «Ci sputi sopra? chi credi di essere? che
cosa ti ho fatto per offenderti così?»
Da
una tasca del grembiule macchiato l’anziano spiritato, che schiumava di rabbia,
gli puntò contro quell’oggetto schifoso, tutt’inciso di segni, bruciato
all’estremità .
Christian
disgustato riconobbe un osso umano.
Lasciò
quel vecchio pazzo nel sordido disimpegno; «Cristo», espettorava, «che
gente c'è in giro» E, appoggiato ai lavandini puliti, si godeva la sigaretta a
boccata a boccata.
Scopriva
anche lì nelle cabine, in una clinica privata e costosa, scritte a pennarello
sulle porte e le pareti, l’orina sulle tazze, la carta igienica e gli
escrementi che intasavano i water-closet:
«gli
stessi che si lamentano dei servizi schifosi», scommetteva a mezza voce, sarcastico,
«in casa tengono il bagno tutto lustro e profumato; fuori non centrano la tazza.
La gente è merdosa»; salivava nel lavandino, si grattò i genitali.
Attraverso
il lucernario sullo stipite d’ingresso, dove usciva un po' di fumo di sigaretta,
vide il cartello che indicava l’ambulatorio e costatò che era davvero a pochi
metri dalle toilette.
«Che
coglione che sono», Christian si morse un'unghia.
Un
altro display, montato lì fuori, chiamava alle analisi il paziente quattordici.
Lui pipò
veloce, risollevò la tavoletta di un water, tirò la cicca che gli cadde sul
pavimento. Si chinò per raccoglierla dall’acquiccia e la cenere, e in quel
momento il display brillò di un 15. Veniva
un infermiere con una scala ed un cacciavite, «pazienza, s'incastra», si
arrampicava sul contatore, ci armeggiava con l'utensile.
«Vaffanculo,
chissenefrega», Christian ruggì; la strizza dell’ago gli infilzò le budella.
Pestò il mozzicone, con il tacco degli stivali, sullo smalto del pavimento
lucidato di ciclamino.
Uscì
nel corridoio.
Una
macchina ciclopica di acciaio arroventato, di tubature e di comignoli tortili
che s’intrecciavano l’uno all’altro, dadi, bulloni, che trattenevano una
rabbiosa pressione; gli scarichi di vapore, d’acqua, d’olio nero, che
ribolliva, che friggeva a rigagnoli su un lastricato di pietra nera, s’innalzava
in una tenebra di spurghi in una volta vertiginosa romanica.
Siringhe
e condutture e cannule, minuscole e gigantesche, o gelide o roventi,
moltiplicavano dal marchingegno e s’infilavano sotto gli archi: proiettate in
insondabili gallerie s'infilavano nei pilastri, ne rompevano l’architettura:
così restauri gotici, barocchi, roccocò, iniezioni di cemento, travature razionaliste,
spezzavano il medioevo delle interrotte navate.
Christian
trasalì. Si schiacciava a un’impossibile parete con consunti bassorilievi
anneriti d’idrocarburi. La vista gli si offuscava, gli tremavano le gambe;
sentì il petto e le tempie incendiarglisi dal terrore.
Arrampicato
su una scala d’ossa umane e rametti, che spandevano sotto il lezzo di metallo e
bruciato un altro fetore di putredine e d’inchiostro, un operaio con le appendici
da piccione e locusta, che sporgevano dalle Nike consumate, sfondate, da una
tuta da lavoro blu sbiadita, si ostinava a cozzare, con il grugno di bue, su un
amperometro fra le centinaia fissati all’ordigno. L’acciaio rosso fuoco gli
ustionava le carni.
Christian
pianse «mamma!», sentì il senno sfilacciarsi, con il buio nel cervello si piegò
sulle ginocchia. Vomitò.
«Coincidenze
planari del cazzo», masticò l’operaio fra gli enormi molari, scoperti con mezzo
teschio sotto la carne che sfrigolava, «Boss, ragazzi: ce n’è uno di quelli
dall’altra parte.»
Il
mostro gli stava addosso, lo stringeva in un angolo. Christian, strozzato dalla
paura, si trascinava sul sedere e sui gomiti nella pozzanghera dei conati verso
un trochilo affumicato.
Dall’ombra
soffocante e rossastra, fra le viscere della macchina gigantesca, un’orda allucinante
barcollava a circondarlo.
Sotto
i caschi di plastica arancione, dentro le salopette, gli scarponi isolanti, con
i borselli e i moschettoni e le cinture di sicurezza, le brugole e le tenaglie
e le chiavi, c’erano grovigli di animali ed umani.
Christian
impietrì su una colonna color del fumo. Gridò. La creatura più grottesca del
gruppo, con una testa da anguilla spellata su un corpo obeso e sudato dai seni
flaccidi, con le grinfie di scimpanzé, che zoppicava su una sola zampetta
d’anatra, allontanò gli altri mostri da lui e mite gli porse quella mano di
orangutan:
«Calmo,
è tutto okay, come dicono nei vostri film», sibilava la lingua rosa del
capitone mentre le squadre degli altri incubi ritornavano al marchingegno, «io
voglio aiutarla. Voglio solo aiutarla. Da quale dimensione viene, lei?»
«Io...»,
Christian balbettò, «devo fare le analisi del sangue. Sono il numero sedici.»
«Forse
ho capito: Terra, direste 2012, 9.28 di giovedì 31 maggio», l’anguilla gli
soffiava amichevole e cordiale; Christian, aiutato dalla creatura, si rialzava
e si rassettava: le mani grosse dell’orangutan lo spazzolarono dalla cenere,
«Mi ero accorto che la Macchina aveva fatto i capricci, non pensavo a un vero e
proprio guasto, ma… va beh, roba da nulla, la rimando subito indietro. Come mai
così shockato? Non è la prima volta che le capita, credo.»
«Dov’è
che mi rimanda?! Che mi capita cosa?!», Christian esplose; gli tornava la
nausea, il cervello gli bolliva nel cranio.
«Toh,
mi pareva, al contrario…», l’anguilla ammiccò, gli batté sulle spalle, lo prese
sottobraccio, lo tirava con sé, «mi scuso se l’ho offesa; andiamo: nel percorso
avrei piacere di offrirle un caffè.»
Christian
la seguì per il portone di zinco con l’icona scolorita maschi: si
ritrovò dalla toilette nel gabinetto di analisi.
Il
display contapersone procedeva all’indietro.
Tubi
rossi dell’ordigno mostruoso passavano dal lucernario alle sale dell’istituto,
sfondavano le piastrelle, le pareti imbiancate, radicavano orrende nei mattoni
dell’ospedale. I medici, gli infermieri, i pazienti in attesa sfocavano negli
sbuffi dell’orribile macchina.
Christian
passava, inerme e inebetito, sotto il contatore già tornato a 9: «almeno di 'sti stronzi non mi scalza
nessuno». Quel pensiero piccolino tutto a un tratto lo salvò. Sentì un’ancora
di buonsenso e lucidità che si agganciava a un fondale sano, dopo l’abisso di
allucinazione dove affondava da un quarto d’ora.
Anche
se adesso sedeva al bar della clinica a dividere un caffè con un’anguilla
scuoiata, monopode, bradipo, in tuta da operaio. E attorno nessuno ci faceva
caso.
«…e
lei che fa, nella vita, su questo piano?», il mostro strappava tre bustine di
zucchero, lo mischiava all'espresso.
«Lei
cos’è?», Christian lo aggredì.
«Arpia»,
l’essere si strinse nelle viscide spalle; la carne bianca, scarificata, arrossì,
«ma spero di andare in pensione con il grado di Malabranca.»
«E
quella… fornace?»
«Davvero
non lo sa? Eppure, a vederla, lei mi sembra uno che passa spesso da quelle
parti; glielo avranno pur spiegato, deve crederci, e invece… È comprensibile lo
spavento: anch’io, la prima volta che venni su questo piano…»
Christian
portò al labbro la tazzina e indugiò su quell’aroma di realtà . Ricordò del
prelievo, degli esami a digiuno. L’ago.
Sentì
di preferire persino l’idea dell’ago al fischio del capitone e a cosa stava per
dirgli. Non bevve.
«ScoprirÃ
che non è una cosa facile da sopportare, e che perciò tenderà a dimenticare. Ma
insomma: se sapesse che ogni singola azione, il più piccolo insignificante
gesto compiuto in vita sua, da lei come da tutti gli umani, è volto alla
rovina, al male? Cercherebbe di uscirne? E se sapesse che le volte che ci ha
provato, a uscirne, e magari inconsapevole ce l'ha fatta, un mio collega l’ha
corretta, l'ha riportata alla malastrada? L’occhiataccia di un adulto che da
bambini ci ha spaventato, birichinate da adolescenti, sesso facile da ragazzi…
finché, in età adulta, non c’è quasi più bisogno di intervenire. Fate male e
nient’altro. Non sono gli altri: siete tutti; non è per colpa sua: sei tu; non
nei grandi eventi: sempre; negli “a cazzo di cane”, nel mentire e sgarrare. Ci
han provato, certi santi ed eroi del pensiero, ma… il martirio, l’astinenza, il
suicidio, l’etica e la morale, la chiarezza d’idee... non sono scappatoie:
producono tanto male; oh se lei sapesse quanto!»
«Ãˆ
impossibile, è pazzia.»
«Non
lo dica a noialtri. La Macchina Yang si sviluppa per molti milioni dei vostri
chilometri attraverso le dimensioni, e lo stesso non ha abbastanza potenza da
convogliare tutto il male che producete, ritorcervelo contro, distruggere
l’universo. È un segreto professionale, ma… lei davvero non immagina quanti
sprechi, quanto male va perso. Sarà sempre un maledetto ferrovecchio: nella
linea dello spaziotempo, o fuori, non esiste, esisterà , è esistita, la metta
come le pare, tecnologia adeguata allo scopo. Così si verificano certi guasti,
come oggi con lei che ci è cascato nel reattore D; e noi a sgobbare come negri
là sotto.»
«Questa
cosa ha a che fare con il Diavolo e con Dio, vero?», chiese Christian con la
voce spezzata; si strinse la catenina con il ciondolo di Maria.
«Con
chi?», soffiò l’anguilla «Chi sarebbero, scusi?», e specchiò negli occhi vuoti
l’orologio da parete, fermo; «ora è bene che torni al mio lavoro. Se per caso
ricapitasse nel mio settore… è impossibile, ma va là : una sola possibilità su
miliardi di sale macchina.»
Christian
strinse quella mano pelosa, l’essere saltellò fuori dal bar. Il display che
chiamava al laboratorio invitava il paziente sedici ad entrare per il prelievo.
Il bar e la realtà gli si piegarono davanti agli occhi come un mantice di
fisarmonica, con un fracasso di cocci.
Christian
turbato si trovò, daccapo, seduto in poltroncina, nella sala d’aspetto, accanto
al babbo in grigio e la bambina beneducata. Nel ticchettio della receptionist e
le chiacchiere mormorate. Immobile, strabiliato, non si alzava. Taceva. Con
l’infanzia di Bobo Vieri raccontata da “Visto” e la febbre di fumare e
l’angoscia dell’ago.
Un’anziana
si levò dalla poltrona, si rivolse agli altri in lista con un filo di fiato:
«Se
il sedici non c’è passo io, vi dispiace?»
«Eh
no, brutta stronza!», Christian saltò su.