L'Abete Meccanico (Racconto di Natale 2015)



Gli scrittori regalano racconti. Non può perciò mancare, a dicembre, l'ormai tradizionale novelluccia di Natale... Lamenterete che è troppo breve, e ammetto che è così: ma è stato un autunno-inverno molto fitto di impegni, trasferte, e poco tempo per scrivere; queste poche cartelline le ho pagate qualche ora sottratta al sonno. Poiché è stato l'anno di "Clara Hörbiger", ho deciso per l'ambientazione steampunk nel Reale Opificio di Pietrarsa. Buon Natale, buoni libri carissimi lettori!


Gioachino tolse i fogli dall'astuccio di ottone e daino, srotolati li fissò al tavolo - con puntine da disegno - e studiò quell'astrusa cosa con una lente d'ingrandimento:
«A che vi serve quest'accidente?!»
L'Ufficiale di Guardia Svizzera gallonato, scarlatto, rigido sull'attenti in uno schiocco di tacchi lucidi, tintinnò di medaglie e sproni all'unisono con gli orologi, gli ingranaggi, i bilancieri e le macchine che echeggiavano inesauste fra le volte dell'officina.
«Sua Maestà ne commissiona duecentomila unità: consegna improrogabile il ventiquattro dicembre.»
«Scherzate!», lui trasecolò, «Poco meno di venti giorni per produrne in così gran quantità! Se non capisco neppure di che si tratti; se voi non vi spiegate...»
Spostò l'elicolampada sulle tavole quadrettate: alla luce del lume a gas, che tossiva sospeso in aria, lesse l'intestazione del progetto di quegli ordigni. Sfregò le dita macchiate ed unte su un'E maiuscola - un'incipit - che restò nera e illeggibile di inchiostro e di carbone.
«Segreto militare. Nell'ambito del programma Forche Feste & Farina. Questa vostra officina, all'avanguardia nel continente, certamente saprà rispondere alle istanze dell'Esercito.»
«Al servizio come il solito del nostro Re Ferdinando, l'Opificio di Pietrarsa farà quello che è in mio potere.»
«Farà quello che v'è ordinato», lo ammonì l'Ufficiale; se ne andò a passò dell'oca senza ammanco salutare.
Gioachino lo guardò scendere fino l'atrio, percorrerlo a disagio, curioso e spaventato dai marchingegni stipati là; degli enormi locomotori in costruzione negli hangar, i gigautomi da processione con le fattezze di San Gennaro, i lanciarazzi per Capodanno e i siluri MAR-AD I.
Due roboti-camerieri lo attendevano all'ingresso, gli portarono per le briglie il suo cavallo recalcitrante: gli aprirono le inferriate e consentirono il galoppo. Lo Svizzero filò via fra i fichi d'india, le ortiche, e scomparve all'orizzonte sulla strada per Napoli.
Lui ritornò torvo all'almanacco pneumeccanico incastonato nel legno nero del suo tavolo da lavoro: le cifre 01.12.1855 lo lasciarono impensierito e arrabbiato per quell'urgenza; l'ora - le 19.00 - lo invitava a tornare a cena; al suo sigaro e l'Aversa e le coccole con Rosa... Ma temette che quella sera, e per le prossime settimane, non avrebbe più lasciato l'aule immense della fabbrica.
«Mi servono i migliori: faranno gli straordinari.»


Il crepuscolo di Pietrarsa fu rintronato di allarmi, le sirene dell'Opificio ulularono l'adunata. Dalla cupola telescopica e teleterica dell'officina, irta di periscopi, di antenne e parafulmine - un istrice di ottone fra i cespugli di ginestre - Gioachino guardò alla strada che serpeggiava fin i cancelli annuvolarsi di cenerognolo e scrosciare di ghiaino; quegli spurghi di vapormobile che correvano incolonnate. Più vicine riconobbe, nelle lenti dei cannocchiali, le insegne araldiche di Cavaliere di Macchina degli illustri suoi colleghi: fu lieto di constatare che gli avevano risposto.
I roboti, all'ingresso, spalancarono i cancelli; cigolarono in un inchino a quei dodici ingegneri. Lui scese le scale, dalla cupola al salone, ad accogliere i suoi pari a quell'urgente consultazione. Dietro lenti, monocoli, favoriti e mustacchi; sotto fronti corrugate e i sopraccigli cisposi, indovinò l'indisposizione e il fastidio alla chiamata: che li negava alle pennichelle e i maccheroni e le prostitute; all'ippodromo, ai cani; il biliardo e le scommesse e i soci dei loro club. Cionondimeno lo salutarono con il dovuto rispetto: allacciarono i guanti, gli occhiali, gli zinali di cuoio, sui panciotti damascati e sull'amido dei frac.
«Di che cosa si tratta, Eccellenza Direttore?»
Gioachino mostrò loro quei ridicoli progetti: già infittiti e incomprensibili di sue note, di impronte sporche, di macchie di tabacco e di aloni di caffè:
«Sua Maestà ne pretende duecentomila.»
Gli ingegneri perplessi, niente affatto persuasi, si passarono di mano in mano le proiezioni e le schede tecniche:
«Non sembra quel che vuol essere.»
«Capirai!», disprezzarono, «È un'idea dei militari!... peggio ancora: quell'imbecille di Ferdinando!»
«Se l'arma ha da funzionare, e sorprendere il nemico, suggerisco innanzitutto un intervento mimetico. Fabbrichiamola ad immagine del nome che le hanno dato.»
«... non ho letto granché bene...»
«... sembrerebbe un'A maiuscola...»
«Queste gambe, queste braccia che dir si voglia, andrebbero sostituite con i rami e le radici. Le granate le agganceremo alle fronde.»
«Il busto e la testa vanno fusi in un unicum; l'elica andrà in cima: la vedrei bene con cinque pale come fosse un'asteroidea.»
«Il boiler, la caldaia, alla base in un vaso.»
«La struttura va attorcigliata di fil spinato, dovremmo colorarlo; gli involucri esplosivi disposti tutt'attorno.»
S'ingegnarono, consultarono, elaborarono l'intera notte; incontrarono all'alba maestranze ed operai. Ricopiarono al pantelegrafo i progetti modificati, li affidarono alle squadre ed avviarono i lavori. Nei turni di sei ore che si seguirono ininterrotti, alternando notte e giorno il personale, gli automi, Pietrarsa fu sempre accesa di altoforni, galvaniche; vomitò liquami tossici e appuzzò le miglia attorno, borbottò di caldaie in opera e sibilò d'arroventamenti. Gli esemplari della macchina finiti e funzionanti, imballati a centinaia, a migliaia nei container, viaggiarono sui binari da Teramo a Palermo, ingombrarono Catanzaro e infestarono Gallipoli. Sulle casse c'era il simbolo del Reale Opificio, il sigillo dell'Esercito e ammonimenti in vernice rossa: massima priorità. Caporali di dogana, imbarazzati checché obbedienti, autorizzarono treni e navi fra i distretti e le provincie.
Gioachino fuse l'oro, il platino e l'argento per fabbricare di propria mano l'esemplare per Sua Maestà; il consesso dei Cavalieri, con il bulino e l'inchiostro d'acido, firmò con i propri nomi quel bijoux di distruzione.
Le sale, gli androni, i focolare di tutto il Regno; piazze e luoghi pubblici addobbati per Natale, allocarono quegli ordigni recapitati da Re Borbone.


Gioachino e gli ingegneri in collare e finanziere, con i baffi impomatati, i ricci candidi imbrillantinati, trascinarono innanzi il trono il carrello con l'involucro: lo fermarono antistante al presepe di rare Capodimonte del XVIII secolo. La Regina si coprì il viso con il ventaglio, le dame le accarezzarono le braccia pingui, inguantate, a soccorrerla dall'emozione di contemplare chissàccheccosa.
Ferdinando tirò col sigaro, lo smorzò nel bracciolo d'oro: grattò il ventre pantagruelico di pastasciutte e insistette iamme, iamme!; che strappassero le corde! I Ministri e i Colonnelli del medesimo eccitati.
Sciolsero le incerate e mostrarono la macchina.
«Ca' cazzo avit fattò?!», Sua Maestà si sbigottì.
L'ordigno luccicava di un centinaio di palle - insospettabili shrapnel - innescate ad un festone di fil in ferro che arrampicava le fronde d'aghi fino a un'elica falcata, caudata di fiamme ossidriche e puzzolente d'umori chimici. Quel cono di ottone, arrotolato a una canna di scappamento, appoggiava su una caldaia avvoltolata nell'alluminio, circondata da un rullo mobile di ingranaggi, di ruote e di caucciù, che spargeva il pavimento di panetti di esplosivo, al tic-tac d'un orologio e un lunario dell'Avvento.
Era un albero di Natale di granate e baionette.
Maria Teresa crollò esanime nell'abbraccio delle ancelle: invocarono i chirurghi, «portatele i sali!»; Maria Vergine e il Santissimo Salvatore. I veterani di cuore impavido abbrutiti dalle guerre, onorati di cicatrici e di protesi di acciaio, si morsicarono impalliditi i labbri e attorniarono Ferdinando; strinsero le sciabole e s'imperlarono di fifa.
«... è quello che avete chiesto», Gioachino balbettò, «un abete meccanico...»
«Sui progetti che ho firmato si parlava di un ebete! Duecentomila pupazzi idioti da confondere fra le folle: per diffondere illazioni, chiacchiere e consenso! Specie mo' ca' è Natale e nun impòrt nu' cazzo a nisciuno. E comm funziòn chistu vostro ferrovecchio?!»
Lui si ricordò della iniziale scarabocchiata, sporca, sui fogli originali recapitati dall'ufficiale: oh, diamine!; guardò il Re fumare d'ira e tremò di conseguenze.
Le finestre della reggia che si aprivano su Napoli si creparono di esplosioni e si incendiarono di fuochi rossi: al pianterreno, negli alloggi del personale, echeggiarono boati, grida, gemiti e terrore; nubi grigie e attossicanti si gonfiarono negli atrii:
«Ma chi cazzu c'è chjavàtu?!»
«L'ordigno si è messo in moto: è Vigilia, Maestà... duecentomila esemplari...»
«A Napoli ce né ovunque?!»
Gioachino guardò i colleghi altrettanto pallidi, madidi:
«... in tutte le Due Sicilie, come avete ordinato...»


Poco dopo, scamiciati, singhiozzavano su un patibolo.
Il boia strinse loro il cappio al collo; Gioachino sentì la canapa segargli la carotide; diniegò il cappuccio sozzo di stoffa nera, sdrucito, già bagnato delle lacrime e gli umori dei colleghi: li risparmiava dall'ignominia e gli anatemi dei cittadini. Un pomodoro lo colpì in faccia, gli inzaccherò la barba candida pettinata e lui, lo stesso, restò saldo e in dignitoso silenzio, a rimettersi a Dio Padre e fissare Ferdinando. Sopportò uova marce e sterco ed un cavolo puzzolente.
Il Re si sedette comodo innanzi il palco degli impiccati, Maria Teresa gli si abbracciò, gli pispigliò in un orecchio, e accennò ad una fantesca fra le donne del suo seguito. La domestica accompagnò il principino Francesco sulle obese ginocchia del monarca intenerito:
«... quella macchina gli è tanto, tanto piaciuta, mein mann», la Regina sbatté le ciglia, «Vorrebbe che il Regno ne esplodesse ogni Natale...»
«Vabbuono: liberatelo. V'è andata bene Gioachi'»
Il carnefice lo slegò tutt'avvilito, lo spinse giù dal palco quale un ospite sgradito.
Circondato da una folla di senzatetto e di gente in lutto, ustionati ed invalidi per l'equivoco dell'abete, temette lo linciassero e quasi quasi rimpianse il cappio; non c'erano soldati che potessero proteggerlo... Si strinse all'impalcatura e lo zoccolo delle forche, balbettò un'Ave Maria e stornò il viso da quella gente.
Lo stordirono di applausi, lo baciarono e l'acclamarono:
«Evviva o' principìn! Evviva l'ingegnèr! Iamme a fa' tutti l'alberi ca' piace o' signorìn!»
Avrebbe implementato le prestazioni dell'abete; sperò che Sua Maestà si sarebbe accontentato:
«.. il mondo», pensò, «non è pronto per l'ebete; sarebbe un'apocalisse...»

(© Alessandro Forlani 2015)

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

2 commenti:

  1. Divertente, natalizio, steampunk e adorabilmente napoletano. Complimenti.
    E buon Natale!

    RispondiElimina

Edited by K.D.. Powered by Blogger.