Gli scrittori regalano racconti. Non può perciò mancare, a dicembre, l'ormai tradizionale novelluccia di Natale... Lamenterete che è troppo breve, e ammetto che è così: ma è stato un autunno-inverno molto fitto di impegni, trasferte, e poco tempo per scrivere; queste poche cartelline le ho pagate qualche ora sottratta al sonno. Poiché è stato l'anno di "Clara Hörbiger", ho deciso per l'ambientazione steampunk nel Reale Opificio di Pietrarsa. Buon Natale, buoni libri carissimi lettori!
Gioachino tolse i
fogli dall'astuccio di ottone e daino, srotolati li fissò al tavolo
- con puntine da disegno - e studiò quell'astrusa cosa con
una lente d'ingrandimento:
«A che vi serve
quest'accidente?!»
L'Ufficiale di
Guardia Svizzera gallonato, scarlatto, rigido sull'attenti in uno
schiocco di tacchi lucidi, tintinnò di medaglie e sproni all'unisono
con gli orologi, gli ingranaggi, i bilancieri e le macchine che
echeggiavano inesauste fra le volte dell'officina.
«Sua Maestà ne
commissiona duecentomila unità: consegna improrogabile il
ventiquattro dicembre.»
«Scherzate!», lui
trasecolò, «Poco meno di venti giorni per produrne in così gran
quantità! Se non capisco neppure di che si tratti; se voi non vi
spiegate...»
Spostò
l'elicolampada sulle tavole quadrettate: alla luce del lume a gas,
che tossiva sospeso in aria, lesse l'intestazione del progetto di
quegli ordigni. Sfregò le dita macchiate ed unte su un'E
maiuscola - un'incipit - che restò nera e illeggibile di inchiostro
e di carbone.
«Segreto militare.
Nell'ambito del programma Forche Feste & Farina. Questa vostra
officina, all'avanguardia nel continente, certamente saprà
rispondere alle istanze dell'Esercito.»
«Al servizio come
il solito del nostro Re Ferdinando, l'Opificio di Pietrarsa farà
quello che è in mio potere.»
«Farà quello che
v'è ordinato», lo ammonì l'Ufficiale; se ne andò a passò
dell'oca senza ammanco salutare.
Gioachino lo guardò
scendere fino l'atrio, percorrerlo a disagio, curioso e spaventato
dai marchingegni stipati là; degli enormi locomotori in costruzione
negli hangar, i gigautomi da processione con le fattezze di San
Gennaro, i lanciarazzi per Capodanno e i siluri MAR-AD I.
Due roboti-camerieri
lo attendevano all'ingresso, gli portarono per le briglie il suo
cavallo recalcitrante: gli aprirono le inferriate e consentirono il
galoppo. Lo Svizzero filò via fra i fichi d'india, le ortiche, e
scomparve all'orizzonte sulla strada per Napoli.
Lui ritornò torvo
all'almanacco pneumeccanico incastonato nel legno nero del suo tavolo
da lavoro: le cifre 01.12.1855 lo lasciarono impensierito e
arrabbiato per quell'urgenza; l'ora - le 19.00 - lo invitava a
tornare a cena; al suo sigaro e l'Aversa e le coccole con Rosa... Ma
temette che quella sera, e per le prossime settimane, non avrebbe più
lasciato l'aule immense della fabbrica.
«Mi servono i
migliori: faranno gli straordinari.»
Il crepuscolo di
Pietrarsa fu rintronato di allarmi, le sirene dell'Opificio ulularono
l'adunata. Dalla cupola telescopica e teleterica dell'officina, irta
di periscopi, di antenne e parafulmine - un istrice di ottone fra i
cespugli di ginestre - Gioachino guardò alla strada che serpeggiava
fin i cancelli annuvolarsi di cenerognolo e scrosciare di ghiaino;
quegli spurghi di vapormobile che correvano incolonnate. Più vicine
riconobbe, nelle lenti dei cannocchiali, le insegne araldiche di
Cavaliere di Macchina degli illustri suoi colleghi: fu lieto di
constatare che gli avevano risposto.
I roboti,
all'ingresso, spalancarono i cancelli; cigolarono in un inchino a
quei dodici ingegneri. Lui scese le scale, dalla cupola al salone, ad
accogliere i suoi pari a quell'urgente consultazione. Dietro lenti,
monocoli, favoriti e mustacchi; sotto fronti corrugate e i
sopraccigli cisposi, indovinò l'indisposizione e il fastidio alla
chiamata: che li negava alle pennichelle e i maccheroni e le
prostitute; all'ippodromo, ai cani; il biliardo e le scommesse e i
soci dei loro club. Cionondimeno lo
salutarono con il dovuto rispetto: allacciarono i guanti, gli
occhiali, gli zinali di cuoio, sui panciotti damascati e sull'amido
dei frac.
«Di che cosa si
tratta, Eccellenza Direttore?»
Gioachino mostrò
loro quei ridicoli progetti: già infittiti e incomprensibili di sue
note, di impronte sporche, di macchie di tabacco e di aloni di caffè:
«Sua Maestà ne
pretende duecentomila.»
Gli ingegneri
perplessi, niente affatto persuasi, si passarono di mano in mano le
proiezioni e le schede tecniche:
«Non sembra quel
che vuol essere.»
«Capirai!»,
disprezzarono, «È un'idea dei militari!... peggio ancora:
quell'imbecille di Ferdinando!»
«Se l'arma ha da
funzionare, e sorprendere il nemico, suggerisco innanzitutto un
intervento mimetico. Fabbrichiamola ad immagine del nome che
le hanno dato.»
«... non ho letto
granché bene...»
«... sembrerebbe
un'A maiuscola...»
«Queste gambe,
queste braccia che dir si voglia, andrebbero sostituite con i rami e
le radici. Le granate le agganceremo alle fronde.»
«Il busto e la
testa vanno fusi in un unicum; l'elica andrà in cima: la vedrei bene
con cinque pale come fosse un'asteroidea.»
«Il boiler, la
caldaia, alla base in un vaso.»
«La struttura va
attorcigliata di fil spinato, dovremmo colorarlo; gli involucri
esplosivi disposti tutt'attorno.»
S'ingegnarono,
consultarono, elaborarono l'intera notte; incontrarono all'alba
maestranze ed operai. Ricopiarono al pantelegrafo i progetti
modificati, li affidarono alle squadre ed avviarono i lavori. Nei turni di sei ore
che si seguirono ininterrotti, alternando notte e giorno il
personale, gli automi, Pietrarsa fu sempre accesa di altoforni,
galvaniche; vomitò liquami tossici e appuzzò le miglia attorno,
borbottò di caldaie in opera e sibilò d'arroventamenti. Gli
esemplari della macchina finiti e funzionanti, imballati a centinaia,
a migliaia nei container, viaggiarono sui binari da Teramo a Palermo,
ingombrarono Catanzaro e infestarono Gallipoli. Sulle casse c'era il
simbolo del Reale Opificio, il
sigillo dell'Esercito e ammonimenti in vernice rossa:
massima priorità. Caporali di dogana, imbarazzati checché
obbedienti, autorizzarono treni e navi fra i distretti e le
provincie.
Gioachino fuse
l'oro, il platino e l'argento per fabbricare di propria mano
l'esemplare per Sua Maestà; il consesso dei Cavalieri, con il bulino
e l'inchiostro d'acido, firmò con i propri nomi quel bijoux di
distruzione.
Le sale, gli
androni, i focolare di tutto il Regno; piazze e luoghi pubblici
addobbati per Natale, allocarono quegli ordigni recapitati da Re
Borbone.
Gioachino e gli
ingegneri in collare e finanziere, con i baffi impomatati, i ricci
candidi imbrillantinati, trascinarono innanzi il trono il carrello
con l'involucro: lo fermarono antistante al presepe di rare
Capodimonte del XVIII secolo. La Regina si coprì il viso con il
ventaglio, le dame le accarezzarono le braccia pingui, inguantate, a
soccorrerla dall'emozione di contemplare chissàccheccosa.
Ferdinando tirò col
sigaro, lo smorzò nel bracciolo d'oro: grattò il ventre
pantagruelico di pastasciutte e insistette iamme,
iamme!; che strappassero le corde! I Ministri e i Colonnelli del medesimo eccitati.
Sciolsero le
incerate e mostrarono la macchina.
«Ca' cazzo avit
fattò?!», Sua Maestà si sbigottì.
L'ordigno luccicava
di un centinaio di palle - insospettabili shrapnel - innescate ad un festone di fil in ferro che arrampicava le fronde d'aghi
fino a un'elica falcata, caudata di fiamme ossidriche e puzzolente
d'umori chimici. Quel cono di ottone, arrotolato a una canna di
scappamento, appoggiava su una caldaia avvoltolata nell'alluminio,
circondata da un rullo mobile di ingranaggi, di ruote e di caucciù,
che spargeva il pavimento di panetti di esplosivo, al tic-tac d'un
orologio e un lunario dell'Avvento.
Era un albero di
Natale di granate e baionette.
Maria Teresa crollò
esanime nell'abbraccio delle ancelle: invocarono i chirurghi, «portatele i sali!»;
Maria Vergine e il Santissimo Salvatore. I veterani di cuore impavido abbrutiti
dalle guerre, onorati di cicatrici e di protesi di acciaio, si
morsicarono impalliditi i labbri e attorniarono Ferdinando; strinsero
le sciabole e s'imperlarono di fifa.
«... è quello che
avete chiesto», Gioachino balbettò, «un abete meccanico...»
«Sui progetti che
ho firmato si parlava di un ebete! Duecentomila pupazzi idioti
da confondere fra le folle: per diffondere illazioni, chiacchiere e
consenso! Specie mo' ca' è Natale e nun impòrt nu' cazzo a
nisciuno. E comm funziòn chistu vostro ferrovecchio?!»
Lui si ricordò
della iniziale scarabocchiata, sporca, sui fogli originali recapitati
dall'ufficiale: oh, diamine!; guardò il Re fumare d'ira e
tremò di conseguenze.
Le finestre della
reggia che si aprivano su Napoli si creparono di esplosioni e si
incendiarono di fuochi rossi: al pianterreno, negli alloggi del
personale, echeggiarono boati, grida, gemiti e
terrore; nubi grigie e attossicanti si gonfiarono negli atrii:
«Ma
chi cazzu c'è chjavàtu?!»
«L'ordigno
si è messo in moto: è Vigilia, Maestà... duecentomila
esemplari...»
«A
Napoli ce né ovunque?!»
Gioachino
guardò i colleghi altrettanto pallidi, madidi:
«...
in tutte le Due Sicilie, come avete ordinato...»
Poco
dopo, scamiciati, singhiozzavano su un patibolo.
Il
boia strinse loro il cappio al collo; Gioachino sentì la canapa
segargli la carotide; diniegò il cappuccio sozzo di stoffa nera,
sdrucito, già bagnato delle lacrime e gli umori dei colleghi: li
risparmiava dall'ignominia e gli anatemi dei cittadini. Un pomodoro
lo colpì in faccia, gli inzaccherò la barba candida pettinata e
lui, lo stesso, restò saldo e in dignitoso silenzio, a rimettersi a
Dio Padre e fissare Ferdinando. Sopportò uova marce e sterco ed un
cavolo puzzolente.
Il
Re si sedette comodo innanzi il palco degli impiccati, Maria Teresa
gli si abbracciò, gli pispigliò in un orecchio, e accennò ad una
fantesca fra le donne del suo seguito. La domestica accompagnò il
principino Francesco sulle obese ginocchia del monarca intenerito:
«...
quella macchina gli è tanto, tanto piaciuta, mein
mann»,
la Regina sbatté le ciglia, «Vorrebbe che il Regno ne esplodesse
ogni Natale...»
«Vabbuono:
liberatelo. V'è andata bene Gioachi'»
Il
carnefice lo slegò tutt'avvilito, lo spinse giù dal palco quale un
ospite sgradito.
Circondato
da una folla di senzatetto e di gente in lutto, ustionati ed
invalidi per l'equivoco dell'abete, temette lo linciassero e quasi
quasi rimpianse il cappio; non c'erano soldati che potessero
proteggerlo... Si strinse all'impalcatura e lo zoccolo delle forche,
balbettò un'Ave Maria e stornò il viso da quella gente.
Lo
stordirono di applausi, lo baciarono e l'acclamarono:
«Evviva
o' principìn! Evviva l'ingegnèr! Iamme a fa' tutti l'alberi ca'
piace o' signorìn!»
Avrebbe
implementato le prestazioni dell'abete; sperò che Sua Maestà si sarebbe accontentato:
«.. il
mondo», pensò, «non è pronto per l'ebete; sarebbe un'apocalisse...»
(©
Alessandro Forlani 2015)
Divertente, natalizio, steampunk e adorabilmente napoletano. Complimenti.
RispondiEliminaE buon Natale!
Felice e prospero 2016 Oreste :-)
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