Micol
pagò l'obolo al Custode della Soglia, e il vecchio, mite
bibliotecario mise l'astragalo in un cassetto incernierato di ottone
rosso: il tinnio della moneta in un forziere quasi pieno. Prese un
panno e una candela da uno scaffale sulla parete, le coprì il capo,
le accese il cero:
«Devi
toglierti quei sandali», tenne in custodia le sue calighe; «puoi
trattenerti finché la cera sarà sciolta nella ciotola. Sei armata?»
«Cielo,
no!»
Il
vegliardo fece un cenno a una domestica-bambina, troppo goffa e molto
buffa nella tonaca dell'Ordine. Quel sottanone l'era abbondante di
tre-quattro taglie in più: tutto il lino che abbisognava ché ci
crescesse e morisse dentro, le servisse da sudario nel suo sonno
oltretombale. Lei stese le braccia e sopportò che la palpasse,
finché il vecchio fu persuaso che non aveva una lama addosso.
Le
aprì il Portale delle Scritture con le tre chiavi di gemme e
platino.
Rubini
e zaffiri ed ametiste riverberarono di anatemi; pulsa de nura,
maledizioni ed incantesimi terrificanti contro i ladri tanto stupidi
da bramare quei tesori.
La
teca d'ebano delle chiavi, dove il vecchio le ripose, era ornata di
ossa umane e qualche teschio deficiente. Targhe in bronzo ricordavano
tentativi di rubarle: non spiegavano granché. Gli occhi vuoti dei
colpevoli, incastonati a quel legno nero, le raccontarono di
avventure tutte finite piuttosto male.
«...ma
il tesoro grande e autentico», pensò Micol emozionata, «è qui
dentro, oltre la porta.»
Entrò
scalza nella sala: il marmo gelido le diacciò i piedi. Il battente
fu richiuso ed inchiavato alle sue spalle, lei restò sgomenta alla
penombra solenne e sacra della immensa biblioteca dei Fratelli in
Mnemosine.
Le
volte gotiche si innalzavano per almeno mille metri, il sole pallido
dell'autunno penetrava le vetriate: smalti gialli, rossi e d'oro di
geometriche esoteriche, che illuminavano le navate di una gloria
fiammeggiante. Un pulviscolo incantato si posava sopra i tavoli, e
sui libri, gli scaffali e gli studiosi di quel tempio. L'odor di
chiuso, di cartapecora, cuoio, funghi e di sambuco, la infezione
degli inchiostri, delle tarme e i roditori, era sanata da grandi
sfere che rotolavano nei corridoi: quei turiboli argentati che
fumavano di incensi. Nubi grigie si addensavano tra le arcate
formidabili; una lieve, innocua pioggia aspergeva gli incunaboli.
Micol
riuscì a vedere le cose piccole e lattiginose che
svolazzavano e si annidavano tra gli scaffali più irraggiungibili:
quella muta, inafferrabile forma di vita paranormale che nel corso
dei millenni era nata in quelle pietre. Gli antichi affreschi dei
frati morti ne pullulavano, ne traboccavano: forme fantastiche di
demonietti con il volto piatto e vuoto, corrugato dalle lettere di
parole impronunciabili; ali di carta bucherellate e i pennini per
artigli.
Scelse
un tavolo, sedette. Aveva accanto un mercante smilzo dal profilo
intelligente: le sembrò che consultasse un giallo e logoro libro
mastro. Un sergente di birraglia, come soffrisse un immenso sforzo,
confrontava genealogie con certi appunti su un suo taccuino. Teneva
il panno di contrizione sopra un elmo tricornuto. Una giovane
poetessa, con un papiro di Andrade Phaber, si asciugava gli occhi
azzurri e singhiozzava di bellezza, con il cero quasi esausto nel
piattino di porcellana.
Un
Iniziato venne a servirla con la formula rituale:
«Che
cosa cerchi fra le parole?»
«Le
molteplici menzogne», lei rispose com'era regola, «le mentite
verità.»
Sotto
il cappuccio le strizzò l'occhio un fraticello carino e giovane,
quella faccia da teppista che sapeva di sedurre:
«Va'
che figa in biblioteca! È da non credersi. Che vuoi ti porti?»
«Historia
Pathemet Sociorum Eius.»
«Cazzo,
è un libro dell'orrore!»
«L'Actus
Inutilis.»
«È
pseudobiblia.»
«Daemones
Contrarii In Imperii Legislationibus.»
«Sei
eretica! Mi attizzi. Quando stacco ci vediamo?»
«Senti,
frate: ma il tuo voto di castità?»
«Biblia
candida sed vita licere: nel nostro ordine si scopa forte.»
«Ho
del lavoro da fare qui.»
Un
contrariato colpo di tosse del gendarme, e del mercante,
rimproverarono a quel novizio che aveva troppo passato il segno. Il
ragazzino tornò a ingobbirsi con le mani nelle maniche, scomparì
fra gli scaffali a soddisfare le sue richieste. Quasi subito tornò
con un carrello di vecchi tomi, con il timbro a inchiostro nero dei
Fratelli in Mnemosine.
Un
quadro magico di cifre e lettere fra le ali aperte di un pellicano.
Lei
aggredì l'incipit dello Daemones Contrarii:
Qui
segue il racconto di come streghe et stregoni et maghi tessano trame
di oscurità contro il lecito governo, et come cantino contro i justi
con le parole più tenebrose. Come ciò sia di diletto per Colei Che
Abbraccia Gli Orfani.
Voltò
pagina: era bianca.
Voltò
ancora: nessuno scritto.
Ogni
foglio era miniato da un'inquietante cornice quadra, che chiudeva al
proprio interno un'altra identica cornice. L'inchiostro nero e la
carta bianca, immacolata, troppo lucida e perfetta, le procurarono la
vertigine che le cornici moltiplicassero all'infinito, si sentiva
soffocare. Voleva chiudere e gettare il libro, lacerarlo: non poté.
«Ehi,
ti senti male?», la soccorse la poetessa.
Lei
ritornò lucida su un paragrafo noioso sulla Inutile Evocazione del
6068: due cretini fuori corso a Spiritismo Comparato compromisero un
rituale di Convivio delle Ceneri, e infestarono di spettri tutti i
locali di un ateneo. Le grida e i pianti di quelle larve echeggiarono
per decenni; e ancor oggi, a cinquant'anni di distanza, si diceva che
qualcuno continuasse ad ascoltarne.
C'è
qualcosa che non quadra in questo libro; lei rabbrividì:
tuttavia, per il compito che le avevano affidato, le sembrò fosse
più utile e di certo più interessante degli altri codici che
consultava.
Dovrei
studiarlo con molta calma.
Portarlo
a casa.
Dovrei
rubarlo.
Il
fraticello tornò a scocciarla:
«Ti
sei mai chiesta», le sussurrò, «come mai tutti 'sti libri - e
guarda bene: ne abbiamo tanti... - hanno un'identica
rilegatura? È pelle umana di chi ha tentato: lascia perdere,
bellezza.»
«Tu...
mi hai letto nella mente!»
«È
il primo grado di apprendistato: qualunque monaco ne è capace.»
«Posso
averlo anche pensato, ma non oso!»
«Come
no.»
«Cerco
solo informazioni.»
«Brami
il libro: vuoi fregarmi?»
«È
un libro strano.»
«Ce
n'è normali?»
«C'è
una pena.»
«C'è
la morte. Tu, però, sei troppo bella: non ti voglio denunciare.»
«Sarai
clemente?», lo supplicò: raggelata dal terrore della forca e la
mannaia, ma schifata dal pensiero del contraccambio per quel favore.
Il
ragazzino guardò il suo cero sciolto appena due-tre pollici, le
sorrise mascalzone con una pena negli occhi bruni. C'era l'ombra di
un abuso tra scaffali di volumi, la lussuria di un maestro che puniva
il suo pupillo. Un dolore che mai più voleva infliggere e ricordare.
«Te
ne vai subito. Non torni più. Ti dimentichi 'sti titoli.»
«Io...
non posso rinunciare! Quella è gente pericolosa!»
«Hai
committenti?»
«Mi
uccideranno!»
«La
nostra regola prevede il cappio.»
«Lui
mi sgozza, di sicuro!»
Micol
si accorse che il loro intimo battibecco attirava le attenzioni del
sergente con il taccuino: li infilzò di un'occhiataccia da
strigliata in gattabuia. Il mercante, esasperato, si spostò ad un
altro tavolo; la poetessa, sospirando, esausto il cero li abbandonò.
«Per
chi lavori?»
«Il
mio patrigno. Per la sua banda di tombaroli.»
«Ah,
bella famiglia!»
Lo
Mnemosino raccolse i libri, le fece cenno che la seguisse: la
condusse al lato opposto del Portale delle Lettere.
Corridoi
piuttosto squallidi.
E
deserti.
Quasi
bui.
Dalle
grate e i lucernai entrava un'eco di carrettieri, biscazzieri,
mendicanti, bottegai e mercenari. L'odor di fritto e sudore e spezie
e di stallatico dei Fondaci, quei quartieri cittadini sempre invasi
dal mercato.
«Che
cos'hai in mente?», lo apostrofò.
«Non
puoi passare per il Guardiano: ti ho letto l'anima, ti brucerebbe.
Credi di uscire dal nostro tempio con l'intenzione di un furto
dentro?»
«Io
non voglio: ho detto solo...»
«Vedi?
Insisti, cerchi un alibi.»
Le
aprì l'uscio di un cortile di pollame e qualche capra. Altri monaci
novizi, qualche servo ritardato, si stravaccavano al sole dolce a
farsi un tiro di necrotina, si scolavano un amaro; si massaggiavano i
piedi gonfi nei secchi d'acqua e tritura d'ossa: il sollievo a lunghi
turni di scarpinate fra gli scaffali. Quando li videro uscire
insieme, che si tenevano per la mano, salutarono il Fratello con un
coro di sconcezze:
«Ehi,
si scopa! Ti porti ai greppi la gallinella?!»
«Ai
greppi un cavolo!», lei si stizzì, «mi avevi detto...»
«Statti
zitta, se vuoi vivere. Tu, Gosmario: dammi il cambio.»
«Con
piacere, mandrillone!»
Un
altro monaco lasciò il cortile, tornò ai suoi compiti in
biblioteca. Il furbacchione trascinò Micol in una stalla di miti
mucche, ma soprattutto di coppie allegre che copulavano sui covoni.
Era uno scandalo vedere sparse le vesti grigie di Mnemosini coi
bustini, le sottane e i mutandoni di grandi dame; sentire urlare di
orgasmi illeciti le voci note di nobildonne.
«...
le quattro figlie del borgomastro!»
«Viene
spesso anche la madre.»
«Ma
sono solo quattordicenni!»
«Molto
colte, a dire il vero. Lettrici forti, le soddisfiamo.»
Fuori
il bordello trovò la strada.
«Qui
nessuno vorrà punirti perché bramavi quel vecchio libro. Casomai ti
insulterebbero se sapessero che leggi.»
«Dalla
padella delle tue regole andrò alla brace di quei banditi», disse
Micol.
«Forse
no.»
«Non
ho più i sandali!»
«Ma
fammi ridere.»
Il
fraticello le rubò un bacio, la palpò con intenzione, fino ad avere
la faccia tosta di frugarle nella tunica. Tornò alla stalla, sprangò
la porta.
«Sei
schifoso come tutti!», Micol furiosa gli gridò dietro. Si sentì un
peso nella camicia, si ricompose, si sbalordì: la copia
logora del Daemones le cadde a terra fra i piedi scalzi.
Franco
Ziffer la costrinse alla parete del loro covo, le altre tredici
canaglie la attorniarono curiosi:
«Dicci,
dicci, mia bella figlia!», le alitò viscido e minaccioso, «cos'hai
scoperto di interessante?»
Le
stomacarono il fetor di trippa e quei suoi denti anneriti e d'oro, la
faccia frolla di scazzottate e i ricci neri con i pidocchi. L'era
sgradevole quel suo difetto: la ridicola pronuncia. Non si sarebbe
spiegata mai perché sua madre se l'era preso: la serva onesta di
case ricche e quel balordo da cimiteri. E che una banda di
tagliagole, di assassini e psicopatici obbedisse ad un ometto con
l'erre moscia e la schiena gobba... bah!; gli smorfiò Micol:
questa gente è proprio guasta.
«Quelle
storie sono vere: in città ci sono Logge, benché il Culto della
Vedova sia proibito sia qui che a Tjaratur.»
«Le
prederemo!», ruggì il patrigno. Gli scagnozzi lo acclamarono; «alla
faccia di quei fessi che ravanano le tombe! Noi saremo ricchi senza
uscire da Handelbab! Non rischieremo le nostre vite contro Ghoul e
Ritornanti!»
«...
ma c'è un pericolo.»
«Qual
è, bambina?»
«Ci
si nascondono i demonologi.»
«Ce
n'è di vivi? Sono mesi che in città bruciano i roghi di
negromanti.»
«Hanno
arrostito gli illusionisti che si esibivano in Piazza Magna», uno
degli uomini si immusonì, «gli speziali, i matematici... ogni volta
è sempre peggio.»
«C'è
il terrore che La Mamma sia in procinto di svegliarsi: più delirano
i cultisti, più fanatiche le chiese.»
«Ed
è per questo, se Logge esistono, che non sono incustodite.»
«Credi
tema uno stregone?!»
«No!»,
esultarono i compari. Lei si accorse che, però, quei gorilla si
grattarono e toccarono le palle; si aggrapparono ai santini, gli
amuleti e i loro ciondoli.
«Come
credete: gli déi vi aiutino. Qui c'è il libro», disse Micol: gli
mostrò l'antico tomo, «che descrive in quali luoghi si nascondano
gli accessi. Ho rischiato una condanna per averlo solo letto. Me ne
vado, Ziffer.»
«Ehi!»
Le
afferrò il braccio.
Le
fece male.
«Io
non so trovare i posti, non conosco le parole: solo "hostaria"
e "lupanare"; ci saranno scritte strane...»
«I
tuoi ragazzi non sanno leggere?»
Musi
lunghi e tutti muti.
«Se
ho mantenuto te e tua madre per tanti anni, vi ho salvate dalla
strada, mi aspetto un utile. Riconoscenza. Ha insistito che
studiassi e impiegarti come scriba.»
«Il
mio compenso ha pagato spesso i tuoi debiti di gioco: questo basta.»
«Basta
a te. Sono un uomo generoso, potrei anche accontentarmi. Ma
questa gente? La lascio al verde?»
La
masnada di schifosi le scoccò sguardi omicidi. Ridacchiarono
maligni.
«Che
cosa vuoi che faccia?»
Il
suo patrigno spalancò l'uscio di quella fetida catapecchia. La notte
nera del borgo, fuori, e le campane di mezzanotte. Aprì il libro
capovolto e glielo mise fra le mani:
«Dove
andiamo, piccolina?»
Non
pensava che La Rete fosse un tale orrendo posto.
Micol
non si stupì che gli stregoni fuorilegge stabilissero una Loggia in
quel quartiere miserabile: qui, lontano dai luminari e gli splendori
dei palazzi, dalle ville dei mercanti che si attardavano in feste
splendide, c'era solo la sporcizia e l'infezione dei tuguri; c'era
fame, pianto, rabbia e inconsolabile disperazione.
La
sua stanzetta di pochi metri al pianterreno di Casa Gattolo, dove
serviva da computista a un mercantuncolo di sidro e mele, tornò a
sembrarle un gran ben d'Iddio cui non volle rinunciare: pregò che
pane, la minestra e il soldo le durassero per sempre.
Pestò
gente che dormiva stesa nuda nella mota... se dormiva ed era viva; e
udì gemere puttane che esercitavano benché lebbrose. Vide carcami
inchiodati a porte come monito di sgarbi; vide fuochi di spiedini di
arti umani, gatti e topi. In una piazza sboccò la cena per il
cadavere crocefisso di una guardia cittadina che aveva osato passare
là: era legata a quegli assi in croce con le sue proprie pulsanti
viscere, la strangolarono con gli intestini manco forse un'ora prima.
«È
un segnale», disse Ziffer.
Lei,
ripreso fiato, dovette imporsi di stare calma. Non morirne né
impazzire. Quel bastardo e i suoi compari le sembrarono seccati:
la scocciatura di quando mangi e c'è una mosca nel minestrone.
«È
un territorio di Scannatori», le spiegò Judit La Strappagioie:
l'unica donna - ma da vicino... - della combriccola del suo patrigno;
«una gang nomade dei sobborghi. Lo scorso autunno occupava Seta,
hanno un poco esagerato, e la Gilda dei Tessitori li ha scacciati a
balestrate.»
«È
un bel problema», grugnì Fred Roncola.
«Problema
loro», decise Ziffer.
E
fece un cenno che proseguissero dove Micol li guidava.
L'eco
di passi e di voci e risa le sembrò crescere tutt'attorno, rumori
piccoli infidi e insoliti anche in quel pozzo di nefandezze. O un
silenzio spaventoso sotto i trespoli dei corvi, nascondigli di
randagi e nelle pozze delle nutrie.
«C'è
qualcuno.»
«No,
nessuno. Dài marmaglia, andiamo avanti.»
Nonostante
la baldanza e sicumera del loro capo si insinuò nei loro stomaci la
fifa nera che li osservassero.
Strinsero
in pugno le accette e spade fino a sudarne le impugnature, e il nervo
d'arco di Klaus T'Infilzo vibrò nervoso ad un nero niente. Le due
lune scintillarono sulle lame ansiose e svelte: troppe cose,
attorno a loro, scricchiolavano e ghignavano.
«Dovremmo
andarcene. Tornare in molti.»
«È
quasi fatta. Saremo ricchi.»
«Dicesti
"è facile"...»
«Lo
sarà.»
Micol,
col libro aperto e una lanterna per poter leggere, seguì le cronache
del Daemones su malefatte dei negromanti. Trovò sui muri
toponomastiche riportate nei verbali; gli acta dei giudici, gli
inquisitori e prigionieri torturati.
Fino
ad un paragrafo davvero incomprensibile:
Poiché
il loco ove costoro si seppelliscono restando vivi, acciò che vivano
seppelliti del loro loco, et nient'altro cale loro, è appunto quivi
che leggi il libro. Quivi è il loco.
Ma
si trovarono al cieco termine di uno stretto e oscuro vicolo.
«Ehi,
figliola», i tombaroli si innervosirono, «ma sei sicura di questo
posto? Non sembra proprio ci siano porte...»
«...
grate, botole o serrature da scassinare.»
«Non
c'è una lastra da sollevare: ce ne intendiamo, di certe cose.»
«Io...
non so», Micol tremò, «non ci sono indicazioni.»
Voltò
la pagina.
Successe
ancora.
Quella
cornice ed il foglio bianco.
«Qui,
guardate», disse Friedrick Serramanico, «ci sono lettere, è
vernice fresca.»
«Leggi,
allora!», Ziffer le strinse il collo. Le schiarì con la lanterna
quei caratteri scarlatti:
CASA
NOSTRA VOI MORITE
«Capo,
è sangue!»
«Macchiccazzo?!...»
Da
in fondo al vicolo un tinnio di vetri, raschio e stridere di lame:
«Guerrieriii?!...
Giochiamo al macellaiooo?!...»
Una
ventina di Scannatori corse all'assalto ululando folli.
«Il
passaggio, Micol! Trovalo!»
Grida
rauche di massacro, strozzi orrendi di caduti, gorgoglio di icori e
carni trapassate dai coltelli. Lo schiocco orribile e disgustoso di
cartilagini lacerate, ferro e ferro che incrociarono e ragliarono
rabbiosi. I torsi nudi sudati e rossi di quella muta di allucinati,
ami e ganci da macello nelle orecchie e le narici, collane e ciondoli
di ossicini budella umane mummificate. Mulinavano mannaie,
morsicavano, mangiavano.
Lei,
terrorizzata, restò incapace col libro in mano.
Roth
Il Baro e Werner Scasso le crollarono davanti: con la faccia, il
gozzo e il petto lacerati ad unghie e morsi. Hugo Mancino cadde
amputato sotto i colpi di machete, Hans e Judit già poltiglia,
calpestati dai nemici. Serramanico e Loew Golem - svelti, grossi,
lama e maglio - pareggiarono la conta schiacciando a terra avversari
morti; Manuel Hermano ne trafiggeva con la striscia e con la daga.
Gli
Scannatori non si stancavano, ne venivano di più; le sembrava
che godessero il dolore e la mattanza.
«Siamo
morti, sono troppi!»
«Ti
ho detto muoviti, ragazzina!», Ziffer la schiaffeggio: la calciò al
muro, le cadde il libro, si aprì alla pagina delle cornici; urla e
sangue della lotta ne impregnarono la carta.
Al
chiarore della lampada appoggiata alla parete, l'olio sparso che
bruciava dai lumi rotti in combattimento, le sembrò che i bordi neri
si allargassero fuori il foglio: il volume fu una fossa che
affondava nelle tenebre.
«Ziffer!»
«Cosa?!»
«L'ho...
trovato!»
Il
suo patrigno stornò a guardare: la distrazione gli fu fatale. Due
nemici lo assalirono e infilzarono alle spalle, glielo sbatterono
morto ai piedi trapassato da una lancia.
Hakim
Due Sciabole e Sabir Fortuna furono gli ultimi a cadere a terra,
sotto le mazze e catene e fauci di belve tossiche ed antopofaghe.
«Guarda,
guarda! Una bistecca!», le ghignarono quei mostri.
Si
leccarono le labbra.
Il
più schifoso si avvicinò.
Denti
marci, neri, aguzzi.
Limati
apposta a sbranare meglio.
Lo
atterrì la cosa orribile che affiorò dal buco nero.
Nel
rettangolo del libro, quella soglia di irrealtà, si affacciò la
faccia bianca e inespressiva di un neonato, il collo viscido di un
orbettino e gli arti lunghi da cavalletta. Sorse dal buio su un corpo
anziano e anoressico e ricurvo, con una veste di pelle umana ed uno
scettro sacerdotale.
Le
tese il braccio a seguirla dentro.
Le
sembrò un ordine, non è un invito...
Lo
Scannatore strillò impazzito, sbavò affamato, le balzò contro.
Micol
si lasciò chiudere nell'impossibile sepolcro.
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