Nicola
aprì gli occhi, cozzò sull'assito, si sedette sul pagliericcio e si
avvolse nel mantello. Non era stata un'impressione del dormiveglia:
il carro era fermo. Si affacciò dal tettuccio, protestò con i
cocchieri:
«Perché
ci fermiamo?»
Il
phylax della scorta gli indicò quella folla che abbandonava
gli insediamenti e le casupole del contado, si accodava lamentosa
alle porte di Myra. Si raccoglievano sotto il muro di pietre e
ostruivano il ponte e i cancelli fortificati, spingevano capre; si
ingobbivano sotto i sacchi di provviste, i fagotti, gli utensili,
stringevano al seno i bambini che strillavano. In fila al barbacane,
per almeno uno stadius, nel rollio delle carriole e nello
strepito dei campanacci, nel barrito dei corni; soffocati dalla
polvere, incalzati dall'imbrunire, che imbiancava già di brina
l'acciottolato e gli sterpi.
«...
vedete che confusione...»
Lui
tornò nel carro, si lavò in un bacile: raccolse in una sacca i
paramenti e gli oggetti sacri, la mitria; si armò del pastorale ed
ottenne un cavallo:
«Farò
prima se vado solo», grugnì, «non voglio trascorrere un'altra
notte all'addiaccio e tardare per l'investitura di un altro giorno di
marcia; non fuori il portone della diocesi, almeno: sarebbe ridicolo.
Raggiungetemi in cattedrale.»
«...
Vescovo», balbettò l'ufficiale, «non credo che sia prudente...»
«Sono
il loro pastore», Nicola spronò.
Galoppò
per la pianura lungo le sponde del fiume Myros: da sinistra si
allungò l'ombra fredda degli scogli, gli strapiombi di roccia grigia
sulle spume del mare. La parete era scolpita di colonne, di trifore,
frontoni e lucernari incastonati nell'arenaria.
Accessi
all'oscurità .
Lui
riconobbe in quelle tetre architetture la necropoli pagana degli
Elleni e Romani: gli piacque vedere, arrampicati sui sassi,
scrupolosi sacerdoti che aspergevano con l'acquasanta, che lavavano
quelle grotte dal veleno dell'eresia. Gli piacque vedere carpentieri
devoti che inchiodavano travi sugli ingressi delle tombe.
Però
non gradì che ci fossero dei magi che intingevano il pennello in una
coppa sacrificale, che grondava di sangue; e dipingessero quelle
travi di sigilli e di pantacli.
E
lo fece rabbrividire che i sacerdoti con gli stregoni intonassero,
insieme, una formula di esorcismo.
«Blasfemi!»,
ringhiò, si azzardò alla scogliera: il cavallo si intestardì di
non scendere, nitrì spaventato sull'orlo del precipizio.
Nicola
stornò dalla necropoli, fendette la folla che si accalcava alle
porte; batté col pastorale chiunque lo ostacolasse e sferzò col
frustino: la marmaglia gli fece largo. I legionari di sentinella ai
cancelli si inchinarono all'anello vescovile: lui passò oltre,
cavalcò all'agorà , si fermò sulle scale del santuario di Artemide.
La
piazza echeggiava degli scalpelli degli artigiani che cancellavano
dalle statue le fattezze dei vecchi dei: redimevano in Santa Vergine
l'oscena Cacciatrice e davano ad Apollo il volto del Pantocrator;
incidevano nelle metrope le croci greche ed il crismon.
Due
donne e bambini, nel cortile del tempio, decoravano gli alberi di
amuleti e di nastri:
«...
le antiche credenze troppo dure a morire. Quell'inetto di Luciano non
si è dato granché da fare...»
Entrò
nella basilica: l'arcidiacono l'annunciò. L'anziano predecessore lo
accolse con un gemito: un alito ammalato, fiacco, sconfitto.
L'abbracciò con fatica.
Nicola
provava compassione e disprezzo per quel vecchio tremebondo che
avvizziva nel talare, e che spazzava ingobbito la polvere con la
fascia e i paramenti sfilacciati e consunti:
«...
perdonami, Signore», inghiottì, «se pecco di alterigia e con
l'anima avvelenata...»
Si
sedettero nel presbiterio nella luce dei candelabri. La notte bussava
sui colori delle finestre, e il freddo di dicembre strisciò nelle
navate. Un giovane sacerdote li servì di due stole, accostò due
bracieri; asperse con il turibolo contro i miasmi di muffa, che
salivano dalle cripte morsicate dall'acqua.
Obbedirono
al rito, si scambiarono i documenti: lui consegnò gli incunaboli
sigillati con le cifre dell'Imperatore e di Silvestro Pontefice;
innalzarono alle volte i giuramenti in latino.
«Non
c'è molto da aggiungere, fratelli», tossì Luciano: testimoni i
sacerdoti presenti si scambiarono le consegne e la tutela di Myra, si
baciarono fraternamente, «Nicola è il vostro nuovo pastore.»
«Amen.»
«...
ora, Luciano», lui si incupì, «se potessimo conferire in
privato...»
I
preti e l'arcidiacono se ne andarono, chini; scomparvero in silenzio
nelle tenebre del tempio. L'altro lo ascoltò rannicchiato sullo
scranno, bofonchiò imbarazzato:
«...
gli scribi ti informeranno di tutto ciò che ti occorre...»
«Non
mi interessano le faccende amministrative: confido che i funzionari
si guadagnino i loro solidi.
Ma sospetto di ereditare una diocesi corrotta nell'animo. Persino qui
in cortile...»
«...
è Solstizio... Sol Invictus... Natale: non possiamo eradicare
le tradizioni: piuttosto sostituirle. Inoltre che male c'è,
nell'appendere una ghirlanda?»
«Ho
udito i nostri preti cantare con i magi. Poco fa sugli scogli, in un
rito pagano.»
«La
necropoli degli Elleni», il vecchio rabbrividì, «Ã¨ tutt'altra
faccenda. Va lasciata così com'è. I bambini non possono
valicare i cancelli; gli incantesimi li indeboliscono. E basta che
ogni anno, il venticinque dicembre, tu consenta agli abitanti del
contado di rifugiarsi in città : in questo modo saranno salvi.»
«Di
cosa stai parlando?», lui strabuzzò.
Luciano
gli indicò una bacheca di pergamene, ognuna contrassegnata da una
data anno domini:
«Gli
annali della città dalla nascita di Cristo, compilati o ricostruiti
dai monaci amanuensi. Srotola l'anno Tredici in data odierna, e leggi
dell'efferato infanticidio: ma abbassa la voce, ti prego; non è bene
rievocare certi fatti di notte.»
Nicola
sciolse i lacci al papiro, e scorse il manoscritto fino al giorno di
Natale:
caupo
affertulit necavit pueres, in terrae hospitii obruit dilacerates (1)
«Che
orrore!», si segnò.
«L'orrore
venne dopo: l'oste confessò solo in punto di morte; ricevette
l'estrema unzione e fu salvo. I bambini non ebbero sepoltura
cristiana: l'omicida li ridusse in tale stato che... potremmo dire
che sono sparsi tutt'ora sotto il suolo di Myra. Che Iddio ci
perdoni, li calpestiamo ogni giorno. C'è chi vuole che da allora,
ogni notte di Sol Invictus, chiamino gli infanti dalla necropoli
sugli scogli a vendicare la loro morte sugli adulti del borgo.»
«Ci
credi, Luciano? Sei un vescovo cattolico, e queste sono fole da
villici.»
«Ero
un vescovo: ora tocca a te. Io so solo che da trecento anni nessuno
che resti fuori le mura, stanotte, sopravvive ad orribili, piccoli
antropofagi che non si possono contrastare perché sono giÃ
morti. So che gli
incantesimi servono a rallentarli. E ammetto che le preghiere non
bastano ad arrestarli.»
«Vattene,
vecchio», Nicola avvampò, «abbandona la diocesi: ed io fingerò di
non avere ascoltate codeste tue colpevoli parole.»
L'anziano
batté col pastorale sul pavimento: tornò l'arcidiacono, lo alzò
dallo scranno; l'aiutò ad arrampicarsi su una chiocciola per la
canonica. A metà si fermò, lo guardò con una supplica. Lui gli
rispose con una smorfia di intolleranza.
Suonarono
le campane e bussarono ai portali.
«Ãˆ
il vespro, fratelli. La sentinella ha riferito che gli abitanti del
borgo sono tutti al sicuro entro il cinto di mura», un prete
annunciò, e accolse alla postierla una squadra di legionari.
Gli
uomini entrarono senza smettere le armi, né i mantelli sfilacciatati
né gli zaini dalle spalle; attraversarono la navata e si fermarono
sotto l'abside, salutarono col braccio teso:
«Eccoci,
Vescovo.»
«Costoro
sono gli uomini che mi scortano», Nicola li presentò, «lasciatemi
con loro, e apparecchiate la Santa Messa.»
Luciano
ed i prelati se ne andarono con gli occhi bassi, pispigliarono
inquieti: lui gli ignorò. Schioccò al decurione che scattò
sull'attenti:
«Ordini,
Vescovo.»
«Abbiamo
un carpentiere?»
L'ufficiale
chiamò due soldati tarchiati, dai bicipiti impressionanti, con i
calli alle mani; un intuito di cose pratiche che brillava negli
occhi:
«Adiatorige
e Stentore.»
«Non
ho intenzione di sopportare che nel Natale del Cristo, la mia prima
notte come Vescovo di Myra, i demoni degli Inferi minaccino il mio
gregge: scenderò nei recessi di quell'empia necropoli.»
Gli
uomini sbiancarono con le mani sull'else:
«Da
solo?! Ma, vescovo!...»
«...
però mi serve un mezzo per affrontare le rocce, ché i cavalli non
ne vogliono sapere. Mettetevi al lavoro, adattate il mio carro: ché
entro la mezzanotte voglio essere sugli scogli.»
La
macchina era ferma presso i cancelli fortificati, Stentore e
Adiatorige sollevarono il telo. Nicola si sbigottì, epperò
soddisfatto: non capiva granché di quell'ordigno bizzarro, che
appariva robusto, minaccioso ed efficiente; lo convinse soprattutto
quel barilotto di fuoco greco:
«L'abitacolo
superstite del carro», Adiatorige l'istruì, «Ã¨ dove vi siederete
per guidare la macchina. Quella è la leva del lanciafiamme sul
tetto; con i pedali e con i tiranti muoverete le zampe.»
La
parte anteriore dello strano marchingegno, Nicola osservò, era
infatti costituita da una trave di un pedes
munita di otto zampe, di pulegge e di corde. Il giogo era scolpito a
testa d'asino o bove: lui non approfondì, per non offendere i
carpentieri; ma i sistemi di tiranti e di antenne, incastonati
all'altezza delle orecchie, la facevano assomigliare piuttosto ai
cervidi tarandri (2) del settentrione d'Europa.
«...
e abbiamo sostituito le ruote con un pattino di acciaio», Stentore
gli mostrò, «scalerete le rocce e fenderete il terreno: provatela,
Vescovo.»
Nicola
si sedette a cassetta dell'ordigno, spinse sui pedali e armeggiò con
le corde: dopo un paio di tentativi la macchina gli obbedì.
Nel
frinire regolare delle gomene e dei tiranti, nell'esatto ticchettio
degli ingranaggi, s'insinuò all'improvviso un vagito, un
sospiro.
L'eco
del pianto di decine di bimbi.
«Kyrie,
cos'è stato?!», impallidirono i legionari.
«Aprite
le porte», Nicola ordinò; mise in moto l'ordigno e si armò del
bordone, si tuffò nelle tenebre poco oltre le mura.
Le
casupole di calce con il tetto di paglia galleggiavano nella pece di
un orizzonte gelato, e il fango e la gramigna scricchiolavano
spezzate sotto il trotto inarrestabile delle zampe meccaniche.
L'inverno azzittiva gli animali notturni, e l'unica e nera voce era
quella del vento. Le ombre spaventose delle nubi e dei rami d'albero
strisciavano sulle pareti illividite dal freddo.
Nicola
era cieco:
«Così
non va bene», spruzzò con il lanciafiamme sulla paglia di una casa,
e l'incendio di fuoco greco schiarì l'insediamento.
Lui
si segnò: l'assalivano da ogni lato.
Corpi
putrefatti di bambini e di adolescenti, scheletri, mummie, cadaveri
infantili, arrancavano per i chiassuoli del borgo grattando alle
porte e insistendo alle finestre, sfondavano, entravano, vagavano
muti; cercavano affamati nelle aie deserte. Il pianto spettrale che
echeggiava da Myra li attirava alla città come un canto di
perdizione, non stornavano gli occhi marci dalle mura agognate. Le
fiamme tradivano nelle guance incavate, nei crani devastati, nei
conati di umore, un'impossibile sofferenza più profonda della morte.
Il
sentiero di ciottoli che scendeva alle tombe era tutto gremito di
quegli orridi pargoli.
Ne
venivano ancora.
«...
Sorgi, oh Signore, e spargi i tuoi nemici!...»
Nicola
si buttò con l'ordigno nel mezzo della calca puzzolente e mostruosa,
colpì col pastorale e calpestò i corpicini. Ruotò su sé stesso;
manovrò la testa cervide con i tiranti ché scornasse e spezzasse in
quell'orda di abomini. Calciò i bambini morti contro il muro di una
stalla, li usò come rampa per salire sul tetto. Scrosciò fuoco
greco: lo zolfo e la nafta divamparono nel villaggio.
Lui
si sciolse lo scapolare paonazzo e lo avvolse alla bocca contro i
fumi della strage: i mostri esplodevano per i liquidi della morte che
bollivano e s'incendiavano nei loro visceri gonfi.
Crepitavano
secchi. Senza emettere un grido.
L'acciottolato
per la necropoli fu cosparso di cenere, e la macchina galoppò su
quella coltre fumante giù per le scogliere e nell'abisso della
notte.
Nicola
appiccò alle ginestre ed i pini: gli sterpi incendiati schiarirono
il cammino, ma le fiamme non penetrarono gli ingressi alle tombe.
Manine e piedini marcescenti e scheletriti, occhietti sfavillanti di
mefitici fuochi fatui, si azzardarono dal profondo sugli scogli
illuminati, graffiarono gli architravi; attesero cupidi che
s'estinguessero i fuochi, tornarono a centinaia a aggredire il
pendio.
Lui
rabbrividì dell'appetito e la dannazione che animavano quei
cadaveri, impietrì del loro numero: le porte dei loculi continuavano
a vomitarne; un'orribile, putrescente e barcollante teoria. Il
rantolo dei mostri, il vagito dei bimbi, azzittivano il mare molti
metri più sotto.
Nicola
diede fondo al barilotto di fuoco greco: i getti incenerirono i primi
ranghi dell'orda, rovesciarono i non-morti in tizzoni nell'abisso.
Dai sepolcri tuttavia ne strisciarono il doppio: e ormai solo l'odore
della nafta e dello zolfo esalavano dall'arma sul tettuccio del
carro, e gocciole di pece liquefatta e fumante. Gli zoccoli della
macchina calpestarono tutt'attorno, il pattino d'acciaio fendette i
carcami: presto s'impantanò dentro un cumulo disgustoso di viscere e
cartapecora che scricchiolava di pezzi d'ossa. Lui spazzò gli
assalitori col pastorale, affondò con il bastone nei toraci, nei
crani: intrappolato fino le cosce e la vita nei corpi fatti a pezzi
dei bambini infernali.
Stremato.
Recitò
le sue preghiere, menò un altro fendente, crollò: strinse i denti
per sopportare da martire le grinfie feroci di quell'orda schifosa, e
i morsi avvelenati nella gola e le carni:
«...
Kyrie, eleison!...»
I
cadaveri lo abbrancarono, soffocarono, calpestarono; lo avvinghiarono
e graffiarono e sommersero la macchina.
Passarono
oltre.
Lui si
rialzò sbigottito e malconcio, raccolse i lembi laceri del talare e
mantello e montò sulla cassetta per vedere e raccapezzare.
Ai roghi
delle piante e dei tetti di paglia osservò la processione vomitare
dai loculi, salire per l'erta e sciamare nel borgo. Non riuscì di
distinguere fino il cinto fortificato: epperò gli sembrò che quegli
infanti spettrali si accanissero ai portali come i villici
all'imbrunire.
Li vide
attraversare in un recinto di vacche. Non morsero o graffiarono per
una fame blasfema: le bestie mugghiarono, li infilzarono coi corni;
loro si difesero come è proprio dei bimbi.
Ascoltò il
loro pianto: attento a non confondere con il fischio delle cripte e
il sibilo dell'inverno e i barriti degli scogli.
Non
era una cantilena di vendetta e malignità : imploravano aiuto.
Battevano ai portali guardati
dai legionari, bianchi dal terrore e l'ottusità , sugli spalti. Gli
uomini rispondevano con i pilum, le
frecce; grandinavano sui non-morti con le balliste e le catapulte.
«... che
Iddio ci perdoni!», Nicola si segnò, lacrime di pena gli stillarono
sulla barba, «Non escono dalle tombe per punirci di un crimine:
fuggono da qualcosa che è sepolto con loro!...»
Fissò
l'oscurità nei portali di pietra, e tremò all'inconcepibile orrore
che si celava in quell'infetta profondità : non riusciva ad
immaginare cosa spingesse un'animula a destarsi, nel peccato,
dall'eterno riposo, a vagare nelle tenebre e morire due volte. I
tormenti dei dannati non erano così crudeli:
«...
non sopporto quest'empietà !...»
Smontò
dalla macchina, l'ordigno si inclinò, e un involto di stracci rotolò
dall'abitacolo.
Sui panni
era attaccato un cartiglio con il goffo latino di Adiatorige e
Stentore:
rem
vobis, episcope, persuasi prodetur (3)
Nicola
sollevò quel fagotto, pesava, lo sciolse e sbigottì: l'arma era una
piccola ballista, portatile, rapida a caricare e munita di dardi; con
un triplice canale, martinetto e cremagliera. La provò contro un
albero: una raffica di verrettoni sbriciolò la corteccia, e scavò
dentro il tronco tre ferite profonde.
Riarmò
soddisfatto, ghignò. Intinse il pastorale nei residui del barilotto,
lo accese ad un rovo in fiamme e lo usò come torcia. Imbracciò la
balestra:
«...
chi è costui che viene, nel nome del Signore?...»
Salì per i
sentieri che accedevano alle cripte.
I cunicoli
scendevano molti metri nel tufo, la roccia era cava di edicole e di
nicchie. Dove non giacevano i cadaveri di adulti si trovavano i segni
di un grattare dal basso, smottamenti di argilla; le impronte di
falangi che tornavano dal di sotto. Gli architrave d'arenaria
all'ingresso dei corridoi, e i gradini insidiosi che affondavano nel
buio, erano tutti contrassegnati da una lapide, una targa, una
piastra di metallo con un numero inciso:
«Identici
agli annali nel presbiterio di cattedrale», Nicola intuì: scese
qualche rampa e strisciò in un passaggio, e le cifre decrescenti gli
confermarono quel sospetto, «che cosa cercare?»
Si calò
nelle tombe per quinquenni, decenni; affondò nei pozzi neri dei tre
secoli precedenti.
Sulla
soglia di un corridoio con il Pesce e con il crismon,
che spartiva la necropoli fra pagana e cristiana, vide accendersi una
cripta di un'insana luminescenza.
Qualcuno
ansimava nella foia di un coito, e la cifra sullo stipite era XIII
A.D.
Nicola
appoggiò il pastorale in un loculo, ché gli schiarisse una via di
fuga, e avanzò verso il chiarore con il dito sul grilletto.
Entrò
nella cripta.
Lo spettro
verde-fradicio di un antico locandiere galleggiava nella stanza con
il membro fra le mani; si attardava alle nicchie con i cadaveri dei
bambini, si strusciava sui loro resti e li insozzava di sperma:
quella immonda sostanza resuscitava i cadaveri. I fanciulli si
contorcevano nella sporcizia dei loculi e strisciavano lontano dagli
appetiti dell'ombra: che spaccava i loro crani con una roncola d'aria
nera.
Lui tirò
tre verrettoni contro il mostro: i dardi lo trapassarono,
s'infilzarono nel tufo; l'immondo taverniere gli sorrise, sereno:
«Embeh?
Sto scopando.»
Nicola
bruciò d'ira, scagliò la ballista: l'arma gorgogliò
nell'ectoplasma dell'essere e cadde impiastricciata sulle lastre del
pavimento.
«Perché
t'arrabbi tanto? Che vuoi? Sono in pace. Sono morto da cristiano con
i debiti sacramenti; ho lavate le mie colpe e me la spasso con i
mocciosi. Voi vivi non vi riguarda.»
«Hai
dannato i bambini che uccidesti da vivo e tormenti i fanciulli che
giacevano sepolti; e attossichi di angoscia i Natali dei cittadini!»
Il fantasma
smorfiò di insopportabile indifferenza, si grattò i genitali e si
strinse nelle spalle:
«... ma
voialtri mi garantite che sarò salvo lo stesso, è così?...»
Nicola si
sedette su una colonna crollata, ispirò profondamente e domandò con
voce mite:
«Figliolo,
quale è il tuo nome di battesimo?»
«Timoteo
di Aristotile e di Porzia Lucilla: convertito e battezzato nell'anno
Dodici, da adulto, nella basilica e cattedrale di Myra.»
«Dunque
appartenesti a quel gregge e quella diocesi?»
«Vi
appartengo tutt'ora.»
Lui si alzò
di colpo dal trochilo spezzato, e impose l'anello sulle labbra allo
spettro:
«Riconosci
il tuo Vescovo!», il mostro si sottomise, «Ti revoco l'estrema
unzione!»
L'ombra
affiochì, ritornò corpo fisico: l'empietà di trecento anni la
corruppe di piaghe, la impastò con la polvere e sozzura del
sepolcro. Nicola la spintonò, ruzzolò alla balestra, caricò tre
quadrella e puntò alla creatura: l'oste era ridotto ad un flaccido
cadavere dalla pelle purulenta, giallognola e crepata, un amalgama
ammalato di fanghiglia e di carne.
Vulnerabile
ai colpi.
Quell'empio
peccatore l'assalì con un ruggito. Lui lo inchiodò coi verrettoni
alle parete, tornò nel corridoio e riprese il pastorale. E affondò
l'estremità fiammeggiante nei visceri gonfi di umori e di gas:
«... nel
nome del Padre, del Figlio e lo Spirito!», l'abominio scoppiò.
Nicola
attraversava la processione di spettri che esalava dai cadaveri dagli
scogli alle mura. I corpi si afflosciavano svuotati all'improvviso,
svanivano in cenere; gli spiriti dei bimbi si addensavano sull'erba.
Un
alito raggelato di migliaia di volti, una coltre di anime con gli
occhi limpidi e luccicanti. Piangevano di redenzione e d'innocenza
restituita, guardavano al cielo.
Le
campane della città rintoccarono la mezzanotte, gli spiriti
intonarono l'Adeste Fideles: la laude investì gli ingressi
neri delle cripte e ruggì in profondità come un'onda che lavi. I
bambini svanirono nella notte di Natale col venite adoremus che
vibrava sulle labbra.
Lui
ritrovò la macchina camminatrice rovesciata fra i fili d'erba in uno
strato di polvere: sembrava che il vento si affrettasse a spazzarla,
e lo tirasse per il talare ché riprendesse le redini. Drizzò
l'ordigno in piedi, imbracciò la balestra, obbedì a quell'impulso e
guidò verso Myra.
Grida di
pipistrelli ed ululati di lupi, sibili di bisce e bubboli d'upupe, lo
insultarono rancorosi dalle tenebre circostanti: il vocio
dell'Inferno che ammetteva la sua sconfitta, pretendeva rivalsa.
Nicola
impennò col marchingegno contro il buio, incoccò tre quadrella e
brandì il pastorale:
«Stanotte
è Natale, progenie di Satana: vi porto i miei doni...»
(3) Un
aggeggio per voi, Vescovo, che siamo convinti vi sarà utile