La
lettura di Anniversario Fatale di Ward Moore, ormai mesi fa, mi ha
portato a riflettere (ci ritorno ogni tanto) sulle grandi opportunità e
difficoltà di un romanzo di fantascienza scritto in prima persona.
Il
lavoro di Moore mi ha molto colpito: l'America Unionista sconfitta raccontata
nei minimi, sofferti dettagli dal giovane Hodge è tanto più credibile quanto il
protagonista appartiene alla microstoria. Non è la prospettiva di un Lincoln
deposto che detta le sue memorie da una Sant'Elena americana, bensì di un
contadino senza mezzi la cui massima aspirazione è quella di studiare.
Soprattutto mi ha lasciato ammirato l'abilità dell'autore nel definirne la
forma mentis: Hodge non divaga sui “se” e sui “ma” che avrebbero potuto (com'è
successo in realtà ) determinare la sua esistenza di cittadino di un Nord unito,
vittorioso, ricco ed industriale; prende atto della propria condizione e la
vive qual è. La conosce qual è e non altrimenti. Moore non cade nella
trappola suggestiva di immaginare e raccontarci il turning point distopico,
perché è Hodge che sta narrando, sono altri i suoi problemi. L'ipotesi
fantastorica sullo scontro di Gettysburg vinta dai Sudisti, persa dai Nordisti,
viene presa in considerazione secondo opportunità . In questo ho trovato Anniversario
Fatale persino superiore al Fatherland di Harris, dove un tour di
Berlino diventa un infodump; o alla Svastica sul Sole, di Dick, dove un
ricordo di Joe Cinnadella, sulla Guerra alternativa in Africa, scade, a tratti,
un po' troppo nello “spiegone”.
Uno dei problemi del raccontare in prima persona, forse il
più difficile da affrontare, e virtualmente impossibile da risolvere, è la
scelta del narratore. Ovvero: se volessi per esempio un marinaio
protagonista, sarei capace di esprimermi come lui? Non solo in termini di gergo
e competenze (quelle, forse, potrei acquisirle quel minimo che è necessario
consultando un prontuario; studiando un manuale di nautica o leggendo qualche
romanzo di mare), quanto, piuttosto, in termini culturali, sintattici e linguistici:
che incidono più di quanto si creda sulla trama e sull'ordine degli eventi.
La mia prosa, il mio modo di esprimermi come autore in
terza persona, è formato dalle letture e dagli ambiti che frequento (con
“letture”, come sempre, intendo anche i film, il teatro, la musica eccetera): posso
cogliere e riportare un certo gergo, imitarne di altri; restituire
atmosfere, caratteri e linguaggi sulle solide fondamenta del cosiddetto
immaginario condiviso. Non è difficile, per un autore professionista, scrivere
un militare, uno studente universitario, un barista, una prostituta, un
manager, un artista, una qualsiasi “categoria” del presente e passato in
maniera plausibile per un pubblico di massa: soprattutto se osservati
dall'alto, e lontano, e le storie che li coinvolgono procedono per tappe. I
“luoghi comuni” (o chiamateli archetipi) lavorano per noi: anzi il lettore è
spesso contrariato se “di solito non è così, che si esprime e/o si comporta un
...”. Ma se cercassi di riportare quelli di un marinaio, al livello più
profondo, autentico ed esteso che è richiesto da un romanzo raccontato “in
soggettiva”, la parola suonerebbe falsa; non potrebbe sostenerne l'intera
architettura.
Il linguaggio determina anche il modo di pensare, definire,
percepire e rapportarsi alle cose; di conseguenza le azioni di un
personaggio. E le azioni sono i ciottoli sulla cima del monte che rovinano a
valle nella frana del plot. Se il profano fa distinzioni (nella sua mente e
comportamento e vocabolario; nelle scelte presso i bivi della trama) solo fra
“barca”, “nave” e poco più, il marinaio sa bene – e si comporta di conseguenza
– che navigare su una “goletta”, “corvetta” o “fregata”; remare su un
“canotto”, in mare può fare un'enorme differenza. Per un broker il gergo della
Borsa determina il lastrico, oppure la fortuna; un tecnico (in qualsiasi
disciplina) è a tal punto abituato ai termini del mestiere che quelli che
riteniamo sinonimi gli appaiono errati, e riferendo delle proprie esperienze (raccontando
di sé, delle proprie vicende) di certo li eviterebbe. Ascoltate un avvocato
argomentare le proprie tesi, e scoprirete che la sintassi, al contrario della
Legge che egli serve, non è uguale per tutti; accennate ad un biologo
alle “emozioni” degli animali e quello vi guarderà sconcertato, convinto che le
bestie non abbiano che “istinti”.
Applicato a un universo fantascientifico o fantasy, che
abbia la pretesa di riuscire credibile, la prima persona è ancora più
difficile. Ai problemi cui sopra si aggiunge, infatti, il collocare il
narratore-protagonista in un mondo (o tempo, o realtà alternativa) che seppure
poco discosto dal nostro di fatto non esiste; cui occorre definire i
dettagli preoccupandosi degli effetti sul carattere del personaggio. E quanto
più sarà intima e vicina la voce narrante al contesto narrato, tanto più questi
dettagli incideranno profondamente.
A un autore di storie di fantascienza potrebbe persino
sembrare paradossale: ma curare questo aspetto di un romanzo “in soggettiva”
significa, a volte, rinunciare a quelle pagine fascinose che si crede erroneamente
che ne siano la forza. La narrativa lo ha scoperto con il trascorrere dei
decenni, ed è un errore che i dilettanti commettono di frequente. Le
descrizioni immaginifiche di Marte dell'ufficiale John Carter di Burroughs, per
esempio, sono meno potenti degli scorci di caverne percepite dai ciechi di Universo
senza luce; perché Galouye ha saputo mostrarci, e farci soprattutto percepire
da talpe, non più in là dei pochi metri dove scorgono le sue talpe.
L'abitudine ad una forma di governo, o convenzione sociale,
presenza o tecnologia sulle azioni ed i pensieri di un personaggio raccontato
in terza persona riescono efficaci in quanto, dall'esterno, l'autore e
il lettore riflettono ad ogni passo sullo stato o condizione del personaggio
medesimo: così ci spaventiamo dell'Inghilterra di Orwell o dei roghi di libri
di Fahrenheit di Bradbury. Nel racconto in prima persona, al contrario,
racconto non solo ciò che conosco (più o meno indirettamente), ma anche
e soprattutto ciò che sono; non vedo, non conosco “da fuori”. E' ciò che
rende Un'arancia a orologeria, di Burgess, l'autentico capolavoro di
fantascienza e di linguaggio che è.
Nel racconto di fantascienza o fantastico, come in parte
nel romanzo storico, e ambientato in contesti cui l'autore non appartiene (è impossibile
che vi appartenga) esiste un impedimento di ordine epistemologico alla piena
condivisione del vissuto dei personaggi; quindi in teoria non è possibile un Io
Narrante. L'eccezionale Brigadiere Gerard di Arthur Conan Doyle è ben
riuscito perché è “sopra le righe”; Doyle - che pure fu soldato nel secolo XIX
- non poteva condividere ed esprimere fino in fondo il sentire e l'esperienza
di un ussaro napoleonico. Posso fingermi la Sentinella di Brown (che non
è in prima persona, ma molto ravvicinata!), ma mi accorgo che quel racconto
ci impressiona da sempre perché il mostro si consuma di un angoscia tutta
umana; non ha quell' “l'intelletto vasto, freddo e ostile” che Wells
attribuisce agli alieni da altri mondi.
L'ideale sarebbe un Io Narrante il più possibile a nostra
immagine e somiglianza: ma non tutti siamo Hassel e McNab, non abbiamo
quell'avvincente bagaglio. Se siamo solamente autoruncoli, forse, è meglio
lasciare perdere... Avete presente quei romanzi sugli scrittori, quei film sul
cinema di moda anni fa? Quell'antipatica sensazione di assistere dal parcheggio
ad un party in terrazza cui non siamo invitati... Se non volete, come
Baudelaire, che il lettore vi sia nemico, suggerisco di non tentare di
raccontarvi su Marte. Soprattutto: quanto è plausibile che potremo
assomigliarci nel 3313 in un'altra galassia?
Affinando questo genere di riflessioni, si dovrebbe
rinunciare a un romanzo di fantascienza scritto interamente in prima persona:
il che sarebbe una sciocchezza accademica, un ottuso dettato da barbogi
dell'ateneo.
Post molto opportuno che rafforza ulteriormente la mia decisione di fare un uso "parco" della prima persona. Oltre al problema di dover raccontare solo quello che si vive personalmente, c'è anche quello del linguaggio dove è più facile cadere nella trappola del "brillante sopra le righe" dove se non si è Lansdale o un altro pari calibro, si fa una magra figura. Una discreta alternativa è quando la voce narrante racconta un personaggio che poi è il vero protagonista (Watson-Holmes).
RispondiEliminaVero.
EliminaEppure qualche tentativo vorrei farlo; almeno una novelluccia... così, senza pretese.
Al momento ho materiale per un prossimo romanzo per cui la prima persona sarebbe DAVVERO adatta (sia per la forza di coinvolgimento sia per questioni di PdV e materia narrata), ma mi rendo conto che non sarei in grado di gestirla per l'intero racconto