Roman d'Adolescent (2002)

Arthur Hacker; The temptation of sir Percival
L'ennesima visione di "Excalibur" di John Boorman, questa volta in compagnia di una persona particolarmente cara, di un'anima affine anzi; la telefonata di un'amica attrice che non sentivo da tempo, che mi ha ricordato che sono trascorsi due lustri da che si è lavorato insieme; il compilare curriculum per domande di ammissione in graduatoria all'università, mi ha fatto ricordare che esattamente 10 anni fa ho scritto il poemetto che segue: l'ultima mia prova in versi, poi solo prosa. Ciò non significa nulla ma, non so perché, stasera sento il bisogno di rileggerla e fermarla qui, sulle pagine del Grande Avvilente.

PROLOGO - KALI YUGA (e vicenda di Giuseppe d’Arimatea)

La squilla piange il giorno che si muore,
mugghia l’armento, e tardo erra sul prato
certo. Forse. Però Maria e Mario
hanno una sera ch’è di luce stanca,
l’imbrunire è nel loro salotto;
coperti, accucciati, alle pantofole,
e il jingle che deride la campana.
Ogni showgirl lascia cadere un velo
più sensuale, Mario apprezza; Maria
è tutta per la tavola da stiro.
“Dio, non vedo l’ora sia domenica.”

Quanto, e quanto ancora visse Lazzaro
dopo il Miracolo? Oggi il Cristo ™
è un sì efficace prodotto
da permettervi in tre sole eternità
di cancellare dal vostro corpo ogni
traccia residua di Morte.
Torniamo alla dimora di Lazzaro.
Stupitevi. Lazzaro
poi continuò a vivere forever.
Ogni mattino era per lui un fruscio
di foglie, in cui sua moglie
aveva avvolta una focaccia

(Il cadavere uscì
che mandava odore di quattro giorni,
tuttora avvoltolato in bende e il volto
ricoperto da un sudario.

“Lasciatelo – disse – ed ora scioglietelo,
 quello che ho fatto non raccontatelo.”
Commosso, Joshua si copriva il volto
con entrambe le mani; i curiosi
allontanava da sé,
la folla dei Giudei, dei Farisei,
dissero: “Vedi come lo amava!”,
ben oltre il settanta per cento di share.
Cupo consiglio di amministrazione
a Betanìa, discussero: “Signori,
quest’uomo compie segni: che facciamo?”
Decisero di ucciderlo, quel giorno.

Io so che il Re mio padre ha i suoi acciacchi,
di ciò la nostra casa si è ammalata;
sta vecchio, sopra l’Isola Rotante,
e ha gettato il giavellotto nell’acqua
e il forte scettro, ancora
la corona eccezionale. Da allora
la nazione si è abbruttita, è fatta
vile, la terra, del suo male. Soffro
delle stesse debolezze. Tuttavia
ho ben creduto far carriera, studi;
ed ho un completo per il matrimonio
e una cravatta per il colloquio
e una camicia per il battesimo
e un orologio per il funerale
quando e se dovrò. E un’incoscienza
che sta bene su tutto

(Eccolo, nella corte
del Sire Claudicante:
in quella, un paggio attraversò la sala
e dietro una ragazza, e poi un’altra).

Amici
e voi da casa Magagnate Genti
osservate: ciascuna
reca seco un’arma bianca in acciaio
un piatto una patena in omaggio
-         chiamate ora al numero che vedete
in sovrimpressione
affrettatevi riceverete
una Ferita al Costato ™

(Al cavaliere si fece presente
 una fanciulla, ella
 recava una lancia).

Il tramonto li ha sorpresi allo specchio,
Maria alle crudeltà del proprio corpo;
Mario, che si màrtora lo stomaco,
non ha timor di Tempo, si avvilisce:
“Sia mai detto ch’io trascorra una stagione
 così fiacco e così pallido nel volto!”

(la toilette ha un lucernario minuto,
 Adone Dio Narciso,
 un terrifico sorriso, lo spia:
 la voce di reclàme, e la Sua Legge
 un pannello di sei metri luminoso).

Nel mezzo del cammin della sua vita
 - e pure prima – apparivano a Maria
lampade e ferri: “In hoc signo sedurrai;
- pontefici plastici –
Signore è carne e volto.” Devota
colleziona, nel segreto dell’armadio,
reggiseni di una taglia più grande:
“Appaia o signora il tuo regno,
sia rifatta la nostra identità:
vedrà per suo marito che sorpresa.”

(Al cavaliere si fece presente
 una fanciulla, ella
 recava un calice:
 Perceval, allora, non fece domande).

Il corpo lo affidarono a Giuseppe.
Spezzato dal flagello e dalla croce
e pochi effetti: una corona,
dei calzari, neppure gli indumenti
- quelli, ai carcerieri per i dadi.
Briciole sul fondo di una ciotola,
un catino per detergersi le mani,
e più di tutto lo atterrì una coppa,
l’orlo era ancora bruno di vino:
“Qui – gli dissero,
recandogli il cadavere di notte
- ha bevuto con noi del proprio sangue
il Maestro.” Buon Dio “Abbine cura.”

Buon Dio. Non fosse stato
per quella donna devastata a tal punto
Giuseppe avrebbe chiamata la gente
di casa e fatto battere loro e
quel fagotto abbandonato ai maiali.

Eppure

Un locale, frequentato nei week end
da sì lunga tratta di gente
ch’io non averei creduto
che l’ora tanta n’avesse distratta.
Ne scorgono l’insegna tanto ratta,
entrano a frotte, tormentati molto
dalla noia degli sguardi ch’eran ivi.
Mario ha scelto un tavolo,
Maria gli siede accanto;
il barman serve olive e noccioline.
(Mario spezza un cracker, fuma Marlboro,
 Maria gli porge un calice e tartine)
“Mangiatene – ringrazia
-         ché questo è il mio stipendio,
 consumatene in fortuna di me.”
Onorano il pane, ed il vino,
ma in più qualcos’altro – cheeseburgers - fan questo
assopiti. La pace
è lacerata di trilli,
Sao? Te portai nillu ventre un bambino:
 ho trent’anni, ne hai trenta anche tu,
 quando vuoi?…” “Lascia perdere. Sai.”
Sao.” “Non mi va, di discuterne adesso.”

Oltre, allo spegnersi degli specchi
e al farsi sporca polvere e chiassosa
della presenza, Giuseppe
accudì il corpo in notturno silenzio.
“Padrone, ho il libro mastro,
 gli introiti del pomeriggio.” “Ephraim?…”
“Padrone?” “Vatti a fare un bicchiere.”
“E’ generoso!…” “E chiudi a chiave uscendo.”
“Arrivederci! E grazie!” “Avrò da fare…”

“La veglia mia profumerà di spezie
 ed ambra ed aloe sciolto nell’acqua.”
Componeva l’uomo rotto e trafitto,
ne acconciava i capelli
con la forbice ed un pettine, ed olii,
per renderne il volto
come nel sonno, gentile.
“Di qui non cesserà venire il sangue.”
Buon Dio. “Raccoglilo nella coppa.”
E ne riempì, e cadde fatto questo,
vinto da un prodigioso torpore.
Venne il mattino: “Su, che fine ha fatto?!
 Sapete, c’è il carcere
 per l’occultamento di cadavere!”
Scomparso. E la stanza
sconvolta, come da un uragano.
I suoi non vollero
ascoltare ragioni, lo tennero;
ed egli, costretto nelle tenebre
per trentasette anni,
si nutrì per mezzo del calice
e di una colomba. E anziano ormai
prese la via del mare.

Here is the Book of thy Descent.


I - STATO D’INFANZIA DEL RE PESCATORE

Già dai mesi freddi, i giorni grigi,
                                    morte saison,
Que les loups se vivent du vent,
Et qu’on se tient en sa maison,
Pour le frimas, pres du tyson,
era un sollievo, accanto alle finestre,
guardare fuori le persone immobili,
ferme sul ciglio delle pozzanghere.

E tutti gli esseri che strisciano sulla Terra,
e dentro i quali vi sia un alito di vita.

Purtuttavia, se respirava accanto
agli infissi, sui vetri trasparenti,
verso gli Altri, la sua Possibilità
si arrestava in una nube umida;
e se tentava di significarla
non c’era, fra quelli che conosceva,
un segno valido ad attraversarla.

Lo allontanavano dalle finestre
rammentandogli la Malattia,
e tornava al grembo delle coperte
sottoposto all’immagine del mondo.

(Forse, lo colpirono all’inguine
 per un eccesso di affetto,
 e lasciarono la lama confitta
 erroneamente, e sempre per premura)

(Nel Giardino della Rosa i germogli
 crescevano sorretti da un’asticella:
 la stessa terra natia non ambiva
 forse che a una mediocre messe)

Le facili euforie di Primavera
fasciavano la Piaga:
guardavano il nido delle rondini
sotto la grondaia,
s’impossessavano di una palla
e apparivano sani.
Frammenti: racconto di una bravata
commessa più o meno alla stessa età:
rubarono un sacchetto di dolciumi
e lo sotterrarono.
Lui non ne avrebbe avuto il coraggio.
“E poi che fine ha fatto?”
“Giurammo. Come su un’ascia di guerra,
in una notte estiva,
con le guance morbide
vigorose dei glifi
dell’aquila e dell’orso:
di disseppellire il sacchetto mozzo,
stringerlo per i capelli,
mostrarne gli occhi di zucchero, orrendi,
alla tribù rivale.
E seguano i tamburi!”

Altri raggiungono
ora i rifugi
cavati dai rami
altri si apprestano
adesso a forgiare
armi aguzze di legno.
E sibila il sasso
scagliato da fionda
e irrompe sui prati
veloce il biroccio.

“E nessuno, dimmi, vi rimproverò?”

Si il pasticciere
dà voce s’infuria
esce si accinge
alla pugna con noi.
Ora il più grande
si avanza fra gli altri
indomito sfida.
Oh tu dai baffoni
sul labbro c’hai cuore?!

“Parla, racconta, pronuncia parole!”

Lui non ne avrebbe avuto il coraggio.
Ello se poggia a un trono circolare
circondato dall’acqua dello oceano:
appare ai piligrini
come fussi attraverso uno cristallo.


II - Giuseppe sotto la Vampa del Sole

Nineteen-eighty, gli obesi Sette Anni,                           
inestetismi della cellulite,
fottìo di locali, Empire West Road,
twentyfourhours che la gente balla.
Sul lungomare pienofiga. Abbaglia.
L’auriga pompa, peana canta in palla,
sfetuccia il ‘Pe sul carro da battaglia.

Pentefres, governatore di Heliopolis,                                        
impiegato di settimo livello
promosso in seguito alla dirigenza.        
Servitore della cifra, paziente e
devoto. Del Tal dei Tali rivestì
l’incarico di portaborse, quindi
ne divenne Segretario, quindi Quadro.
Abitò questo Statale Sepolcro.

Cercasi bimbe. Confezionabili.                                      
“Mi chiamo Aseneth. Diciassettenne.”
“Già lavorato?” “Televisione, si.”
“Sogni condurre?” “Una trasmissione.”
“Mi chiamo Aseneth. Di Porta Accanto.
 Acqua & Sapone. Di Anoressia.”
Che tutte quante le porti via.

“Ma quanto tira, canta l’armi Musa?”                           
“I centottanta e ciuccia brutto.” “Ciuccia.”
“Maddài, va’ tranx, c’ha un bel lavoro il Gius,
 sta lì dov’è perché è il figlio del Faraone.”
“Uè calma calma!” “Serve a una madonna…
 Solito valzer dei raccomandati.”
“L’è laureato il Beppe.” “Anch’io.”
“Ma scavati.” “Pure se fosse
 fregaunasega scusa?”

Di qui scorgi un Egitto qualunque.
Pentefres da lungo tempo vive
una casa che ha fortificata;
ampio patìo, pavimentato
in ere successive di ossequio.
Mantenne il proprio voto segreto.
In onesta maggioranza fu numero.

Sia tutto in ordine qui
nella dimora. Acceda
l’ospite dall’atrio la domenica;
tu la tavola consacrerai
ai tuoi parenti: “Gesù,
 com’è cresciuto il bimbo!
 Come si è fatto di famiglia e grande!…”,
rasserenata famiglia. Conducili
all’apparecchio televisivo.
“… E gli ho detti che a me
 i piedi in testa non gli ha mai messi nessuno!…”
Onora le funzioni della sera:
Ave, Signora dell’Aspirapolvere,
stira di Grazia, Ammorbidente è con te;
ora, e nell’ora del Tiggì, partita,
chiudi la bocca che non sento niente.
Amen. “Aseneth dov’è,
 il bellissimo Giuseppe?”
Sta in camera.
Sta fuori.
Non torna.
E’ con gli amici.
Fine mese
ho da incassare il grano.

Nineteen-ninety, gli obesi Sette Anni,                           
casino assurdo, vita fuori in appa;
all’Uni esami, sconvolts, gran viaggi,
di storiaseria con la tipa chiappa.
Faraone lo vestì di giacca
e una cartella, cravatta. Innanzi a lui
esclamavano Lei.
Sfetuccia il ‘Pe sul carro da battaglia.

Giuseppe è nella Casa di Pentefres.                   

Mezzogiorno scoccò così improvviso
e grande è la vampa del sole. Ed io
mi rinfrescherò sotto il tuo tetto,
ed io verrò a sedere sul tuo sofà
ed insieme attiveremo il decoder;
ed io dividerò il telecomando,
e questa sera, naa-aaa,
ché non ho voglia di uscire. Servici
piuttosto un tramezzino e una bibita:
“Aseneeeth?! Crissstooo!…”

Ma
un uomo, se tu potessi comperarmi,
mammina. La sua torre
s’alza al centro della casa; d’ebano
le porte e le imposte, e le pareti
tempestate di gemme. Era d’oro
il soffitto di questa stanza, attorno
disposte statue degli dèi egiziani,
che teme, ed offre loro
sacrifici. Ma un uomo,
se tu potessi comperarmi, mammina.

Nella Casa si levava una Torre.                          

Questa tua camera, bambina mia,
l’ho edificata come allegoria:
sta perciò su un vasto piano di stanze,
dieci finestre, ventidue corridoi;
sei nata sotto la Prima Finestra.
Sii maestosa, sii bella, sii fiorente.
Perciò, quel giorno, appesi una corona.

E se l’anima tu avessi
di attraversare la casa vedresti
i Ritratti di Tuo Padre e di Tua Madre.
Dimmi ora se per te
ha più un qualunque significato.

Aseneth stai attenta a non ingrassare.

La quarta chiude i Beni della Terra
-         da bimba la evitavi,
e questo è giusto; istantanee dei
tuoi nonni combattenti.
Sei una donna, non dovresti attraversarla?
Dimmi ora se per te
ha più un qualunque significato.

Aseneth, non uscire in disordine.

C’è una terrazza
che si affaccia su tre sereni orizzonti
-         le nostre mani sulla tavola e
il nostro respiro; e tu dicevi
ch’erano grandi. Ci si
chiudevano gli occhi
-         e i cartoni, le lamiere, gli stracci
ammassati; la moltitudine che
vi abita rispetto a te.
Ed essere certa che
quel loro viso non
metterà in discussione il tuo osservare.
Dimmi ora se per te
ha più un qualunque significato.

Aseneth, non frequentare gli sfigati.

Twenty – oo, gli ingrati Sette Anni,                   
a Gennaio Pentefres rendicontò.
Carte. Preoccupate.
Sul fondo di un cassetto.
“Cazzo in diciott’anni
 cos’è costata la sua mansardina, e
 Aseneth non è un cedro del Libano.”
Rossetto, rimmel, sigarettina
fina spipacchiata con papà e mammà
in cucina. “Pare a me
 o non ti si piglia nessuno?” Sarah
non è, non è Rebecca, Rachele.
“Questo Giuseppe, che vi
 vedete ogni tanto.”

Sono venuto nel mio giardino
amica: i tuoi capelli
sono tinti adeguatamente. E
per il trucco non conosco il tuo volto.
Griffata sei tu, elegantemente,
e i tuoi centimetri disposti con senno.
Ho misurata la tua gonna e i tacchi.

E la porta venne aperta, ed entrò il Gius,                     
venne seduto sul carro del Faraone.
Nella mano reggeva un portafogli,
piuttosto uno scettro,
e vide Aseneth e
nella mano reggeva
un ramo di ulivo
e vide Aseneth e
ch’era carico di frutti.
“Viene Giuseppe nella nostra casa,
 il Campione di Dio.
 A lui, ch’è del tuo stesso reddito,
 e meglio, io ti darò.
 Mostrati. Decentemente conciata,
 e taci.” Ed ella scese.

Dov’è andato il tuo amico,
o zitellaccia fra le coetanee?
Egli sta là, il fortunato investimento:
vigorosa è la stoffa dell’abito,
di eccellente qualità è la sigaretta
che fuma e l’automobile non è
la stessa che guidava il mese scorso.

“Lontana questa ragazza Pentefres,                                                      
 generazione della Madre e del Padre;
 ché il carro caracolla
 innanzi il tuo cancello, e la tua casa
 resta su solide fondamenta. Io,
 piuttosto…”
                        trasalì, il Genitore.

 “Non peccherò di fronte alla Playstation,
 né di fronte ad automobile nuova,
 calcetto del sabato,
 programma abbonamento in palestra,
 occasione insignificante di
 frequentare. Di fronte
 a corpo, confezione, involucro.
 Non peccherò di fronte ad easy e collo
 polso, manica, stirata da mammà;
 letto rifatto, piatto
 favorito, batteria
 di soprabiti fiammanti. Ognun per sé,
 chi di sua bocca dice spropositi
 altisonanti, fatto & rifatto
 ad immagine di nostro inserto;
 levi jingles in lode
 di ciò che spendere gli è dato con
 scialacquo. E con ciò
 non ho intenzione di sposarmi.”
                                                           “Graaandeee!…”
“Aseneth…”
                        “Papà,
 ‘sto stronzo non lo voglio.”

Twenty – oo, gli ingrati Sette Anni,
di Altrove Tour, frinire di cicale.
Foia di scampo. Ardua attraversata.
Corso rovente e il cuocere del sole. But,
forever, resterà un gran bel ragazzo.
L’auriga pompa, peana canta in palla,
sfetuccia il ‘Pe sul carro da battaglia.


III – LA CHANSON DE L’EPEE

Questo accadde quando il Re morì :
“Ora, buon Bedivere, torna al Lago.
 Torna ad uno specchio immoto e limpido,
 l’acqua, a una vagina della terra,
 l’acqua, sponda fertile;
 e tieni per la lama Excalibur e
 prendi fiato e forte inarca il busto e
 scagliala.” “Gettarla via!…”
“Obbedisci al tuo sovrano Artù.”
Perdi la lama nel profondo verde e
ascolta, cavaliere Bedivere,
come l’alga le crescerà attorno
senza rumore poiché
c’è spavento nel profondo del Lago;
e comprendi che viene il Tempo del Maturare.
Volgeva il giorno oltre il Colle di Barham,
vero imbrunire
per il dolore di chi vi giaceva.

Ma tu questo coraggio non l’avesti.
Il Re ti domandò: “Che cosa hai visto?”
“Nulla” – gli hai risposto,
pretendi di mentire
-         “Nulla.” Affronti l’ira del sovrano.
“Ebbene, è chiaro che non l’hai gettata.”
(di fatto, nascondesti
 la lama in una sacca
 appesa alla sella
 e gonfia appariva di
 colpevolezza; come una rapina
 adolescente di ciliegie)
“Perché, mio Bedivere,
 ha fallito la tua mano?”
Camminasti un Oscuro Sentiero,
duro per i feriti condotti via.
Per quelle frottole il Re
Trattenne l’impulso di ucciderti.

Fatta di ferro, inorridita di sangue:
così quell’idea, sbarazzarsene,
“Ma mio sovrano!…” – non era affatto uno scherzo.
Bedivere volge attorno lo sguardo,
muta colline, l’affresco della guerra;
il Re, da una finestra appannata
lo vede ancora inutilmente agitarsi.
“Stupido! Stupido! Stupido! Stupido!”
Batte sull’elmo. E’ come un sonaglino.


IV – PERCEVAL

Il ferro così spesso,
lo zoccolo chiodato; e il calpestio
degli stalloni sulla terra. Questo.
Ormai da quando, ormai da quando, ormai
da quando? Che già ventuno semine
ho contato, ventuno mietiture.

Sto sul cuojo d’un terribile tamburo.

Io so che il settentrione è dove il muschio
s’aggrappa alla corteccia; e che se a monte
una carogna inquina un corso d’acqua
gli animali cadranno avvelenati
se ne bevono. Preghiere. L’alfabeto.

E so che il mondo è un cerchio, e che mia madre
soffrendo ha concepito. Ora non vuole
la stessa sofferenza mi ferisca.
E so che il mondo è un cerchio, e corro in cerchio.

Na karmanam anarambhan
naiskarmyam puruso ‘snute
na ca sannyasanad eva
siddhim samadhigacchati.[1]

Che scalda il sole, e che il mangiare nutre,
so che l’ozio corrompe la coscienza.
So che il clima palesa le stagioni,
a Ottobre cavallette
e rondini in Aprile.
E so che la corrente fa ruotare
la macina in eterno del mulino.
Ma quest’asta, signore, a che vi serve?

E so che il mondo è un cerchio, e corro in cerchio.

Na hi kascit ksanam api
jatu tisthatyakarma krt
karyate hy avasah karma
sarvah prakrti jair gunaih.[2]

E questo scudo signore, questo scudo?
E il limite dei campi, che nasconde?
La rocciosa recinzione. Il tronco curvo.
Il sentiero percorso
con lo stomaco stretto.

La foresta ha divorato mia madre,
coperto d’erba il volto di mio padre.
In silenzio poi attraversai l’Inverno
e temperando la punta del mio spiedo.
E molte volte l’ho indurita al fuoco,
presso la Fiamma Che Voi Non Conforta.

A Primavera possedevo un’Arma,
e seminavo strage di caprioli.
“Andrò coi cavalieri - questo dissi
 - a visitare la Gloriosa Corte.”
E Voi ne aveste il cuore lacerato,
e sopraffatto dalla Campana del Tempo.
“Andrò coi cavalieri”, questo dissi.

Niyatam kuru karma tvam
karma jyayo hy akarmanah
sarira yatrapi ca te
na prasiddhyed akarmanah.[3]

E questo chiaro ferro, questa lama?

“Uccidi. Per vincere le insegne.
 E spacca il petto al Cavaliere Muto:
 la cui celata è così luccicante
 che ti sorprenderai
 nello scrutare la Tua Profonda Pupilla.”

Ed ora il tuono è così forte. Avverto
il loro incedere,
il martello dei giorni.
“Di tutte le Figure Dio è il più splendido,
strabilianti sono gli Angeli con Lui”.
E Voi, che non mi avete proiettato
che sfocate terrecotte alla parete.

Signore, e quale nome ha questa veste?


Na karmanam anarambhan
naiskarmyam puruso ‘snute
na ca sannyasanad eva
siddhim samadhigacchati.

Così mi affrontò nell’Arena,
ed io scagliai nell’aria un ramo sfrondato
cui la sua forza non oppose usbergo.
Cadde con un fragore che interruppe
qualcosa nel corso del mio respiro.

“Ha sconfitto il Cavaliere degli Specchi,
 il Cavaliere della Luna Bianca,
 il Cavaliere della Triste Figura;
 il Cavaliere che correva la foresta
 ottenebrato per cifre
 incise sulla corteccia.
 La Virtù che echeggiava
 dal fondo dell’acciaio,
 presso l’assedio sonnolento di Parigi.”

Oppure ancora il viso
che Voi vorrete dargli. Il nome è vostro.
Mentre per me, non avete mostrate
che sagome oltre il ciglio di un muro.

“Io ti risponderò volentieri.”

Na hi kascit ksanam api
jatu tisthatyakarma krt
karyate hy avasah karma
sarvah prakrti jair gunaih.

“Questa è una lancia, e mena grandi colpi,
 e questo scudo di buona fattura
 spesso mi risparmia
 dai fendenti dei nemici.
 E ne ho cura, e lo ritengo prezioso.
 Mentre alla cintola allaccio la spada,
 ch’è l’anima mia fatta solido ferro.
 E ho chiuso il capo in un elmo splendente,
 e mi copro e di maglia e di seta.
 E per il Cielo non chiamarmi Dio,
 non ritenere i miei compagni gli Angeli:
 in effetti, non siamo che peccatori.
 Freres humains qui aprés nous vivez,
 n’ayez les cueurs contre nous endurcis.”

E con le mani invecchiate dalla battaglia
frugai nell’armatura, dopo,
per tutto il corso della lunga notte,
diviso fra il Sonno e l’Epifania.
Nella veglia giacqui accanto all’armi,
nelle tenebre mi disfacevo.

“Sappi: ora è per te
 il lungo gemito della polvere,
 la soglia che sussurra,
 il gradino attraversato; ora è per te
 il raggio del giorno opaco.”

Ed io, se non avessi fissata
la pietra, nell’oscurità,
sarei come lo strillo di un cembalo
o il bronzo toccato dall’aurora.

“Ma avverti il respiro affannoso
 dell’Avversario, la schiuma del cavallo,
 e lo stridere, la scheggia dell’asta infranta,
 l’aria che torna al petto,
 il cadere sull’erba e quel dolore
 che ti ha salvato.” Vattene Satana.

Lode alla ferita della terra,
lode alla zolla capovolta
dal vomere, lode alla ferita
dell’età. Perch’io giammai ritornerò
alla carne intatta.
“Ora è per te il perdere il computo,
 la risposta sbagliata, la malattia;
 e il generare e l’essere avversati,
 ora è per te l’ora del pomeriggio
 fredda e il fondo amaro
 delle panciute caraffe.” Vattene.
Perch’io giammai ritornerò alla selva
umida. Mai più.

Niyatam kuru karma tvam
karma jyayo hy akarmanah
sarira yatrapi ca te
na prasiddhyed akarmanah.

E ho scelto di seguirli oltre il burrone,
di muovermi a Occidente, calpestare,
di lordarmi della cenere del mondo.

“Figlio tu mi hai devastato il seno,
 reso carminio il candore del mio latte.
 E la mia mano ti è protesa dal buio
 e tu prosegui con tanta indifferenza.
 Figlio tu hai dato d’accetta al mio bastone,
 e m’hai sottratta la Trave della Casa.
 E la mia voce va spegnendosi nell’ombra
 e non le porgi che un orecchio distratto.”

Eppure un Tempo per noi viene egualmente,
e chiude gli occhi di coloro che ci han visti.
“All’assalto domani, non si scappa:
 la prima sporca ondata, siamo fritti!”

Così sino a che l’alba mi sorprese.
Sino a che l’alba mi sorprese a radermi.



[1] “Non è soltanto astenendosi dall’agire che ci si può liberare dalle conseguenze dell’azione, né la rinuncia di per sé è sufficiente a raggiungere la perfezione.” Bhagavad - gita, vv. 4
[2] “Tutti gli uomini sono inevitabilmente costretti ad agire secondo le tendenze acquisite sulla base dell’influenza della natura materiale; perciò nessuno può astenersi dall’agire, nemmeno per un istante.” Bhagavad - gita, vv.5
[3] “Compi il tuo dovere prescritto perché l’azione è migliore dell’inazione. Senza agire non è possibile nemmeno mantenere il proprio corpo.” Bhagavad - gita, vv. 8

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

3 commenti:

  1. Cioè, lei fu così pazzo da mettersi a scrivere il proprio Wasteland personale.
    Mi tolgo il cappello (non ho uno Stetson, solo una coppola da nonno terrone, spero vada bene lo stesso).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Lo Stetson (come quello di Keaton) in effetti sarebbe adatto: perché, più che pazzo, fui buffone presuntuoso. ;-)

      Grazie, comunque.

      Elimina
  2. Massì, che senza buffoneria uno non si diverte e senza presunzione uno manco ci prova.

    Ad averne.

    RispondiElimina

Edited by K.D.. Powered by Blogger.