La luce tiepida
dell’autunno penetrava le finestre, illuminava il Liceo Scientifico finalmente
riaperto. Nel rispetto delle norme e in totale sicurezza. CE N’È COVIDDI E
PARECCHIO PURE a spray rosso nel cortile, su una parete a mattoni in vista
infestata dalle ortiche.
La Federici giaceva
a terra svenuta con la giacca arrotolata sotto il capo, la Panici le applicava
sulla fronte fogli bagnati di carta igienica e fazzoletti di carta:
«Ha una costola
spezzata, santo cielo! Un’ambulanza! Chiamate un’ambulanza!»
Brandolini
bestemmiava con il polso fratturato.
«… e se lui che è
così grosso non è riuscito a fermarlo», ripetevano Spanò, Baldelli e Cominazzini,
«provarci è inutile: ci si fa male.»
«Ma in qualche
modo si deve fare!»
I tre bidelli non
si azzardarono. La vicepreside piangeva quasi. Gli studenti, spalle al muro, ai
quattro lati dell’aula, che guardavano storditi a Camilla che girava.
Che girava, che girava.
Sul suo banco con
le ruote.
Girava da sei
minuti e cinquantotto secondi.
«Cinquantanove!», cronometrava
Matteo Pagnetti.
«Ma ti fa ridere? Mavaffanculo!»
E insomma erano
sette. Sette e mezzo. Otto minuti.
Lo stupore e le
risate soffocarono in spavento.
Lo strillo «aiuto!»
della ragazza s’acuì in un ululato, in un rantolo: Camilla perse i sensi,
crollò testa in avanti sul piano reclinabile. La sciarpa iridescente e una
tempesta di ricci biondi. Il cigolare dei cuscinetti che scivolavano sul pavimento.
E il suo banco
continuava a roteare e roteare. Non si fermava.
Non ci riuscivano.
Più veloce; ormai pericoloso.
La prof di
lettere, scagliata contro il muro, tornò cosciente, tentò di alzarsi e strillò
per il dolore.
Ercolessi, il prof
di fisica, entrò in aula trafelato:
«Che succede? Chi
è che urla?»
Scansò di un pelo
l’assurda trottola che girava nella stanza.
«L’ho solo spinta…
ma per scherzare», balbettò Luca Sanchini.
Il banco a ruote
infilò la porta, rotolò nel corridoio. Echeggiarono le urla, le risate,
imprecazioni; i fruscii dei fogli, i libri, dei registri; e il fracasso delle
cattedre e le sedie ribaltate.
«L’ho solo spinta,
ma non si ferma.»
«Non è possibile»,
disse lui.
«Mi ha buttata
contro il muro!», la Federici gemette.
«Mi ha rotto il
polso, perlamadonna!»
«Non si ferma! Non
si ferma!»
«Dì, Sanchini: come
cavolo hai fatto?»
«Non lo so: le ho
dato un giro; l’ho spinta piano, le giuro, prof! Si fa per ridere…»
Ercolessi si
illuminò di un’impossibile intuizione. Chiese a Martina che per favore si
alzasse e spingesse il banco a ruote nel centro della stanza:
«DÃ i, rifallo.»
«Cosa, prof?»
«Spingi questo.
Come prima.»
Lo studente gli obbedì,
il banco a ruote si mosse. Due-tre giri. Si fermò.
«Sanchio, no»,
disse Moretti, «Non ci hai dato così, prima.»
«’cazzo sai?»
«Ti ho visto bene.
Più di polso, più… così.»
«Prova tu», disse
Ercolessi.
«Così, più o meno:
per dare il ritmo.»
Il banco a ruote
girò di nuovo. Girò ancora. Poi ancora. Un minuto, quasi. Due minuti. Urtò la
cattedra. Si rovesciò.
Ercolessi, «…
santo Dio!...», non volle crederci. Non poté crederci. Ma quelle linee,
ma quelle curve, quegli intervalli, quelle variabili… Gli ricordarono certe
letture: manuali, riviste, speculazioni scientifiche. Chiese ad Arianna
quaderno e penna: sommò, sottrasse, moltiplicò. Equazioni frenetiche, le
incognite e i "se". Si impallidì, col foglio in mano, per
l’impossibile risultato.
Si fermò, schiena
allo stipite, sulla porta dell’aula. Guardò Camilla girare ancora, ancora e per
sempre nel caos del corridoio tra armadietti ribaltati, sedie a pezzi, teche
infrante, bacheche e quadri spezzati sul pavimento e la folla del personale e
gli studenti terrorizzati.
Non si sarebbe
fermata più. Non si poteva fermare mai.
Lui, basito, tirò
a Sanchini il quaderno in testa:
«Una spinta! Per
scherzare! Come cazzo t’è riuscito?»
«Prof, è matto? Che
cosa ho fatto?»
«Il moto
perpetuo, Sanchini: sai cos’è?...»
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