Μῆνιν ἄειδε θεὰ


Quando scrivo battaglie fantasy, fantascientifiche, fantastiche in generale mi accorgo che la mia prosa è del tutto inoffensiva rispetto a quella di larga parte della TV, del cinema, del web o la recente comunicazione pubblicitaria. E' una voce di Dürer, Bosch, di allucinati fiamminghi che affabula scontri armati fra i reggimenti di "grilli": non si sente il latrato, poco meno che criminale, dei sergenti arruolatori e i manifesti di regime. Vale lo stesso per i colleghi autori del fantastico che - in altre fobiche sedi - sono accusati spesso e volentieri di compiacersi di narrazioni di genocidi e carneficine: "disimpegnati" dall'evidenza che le vittime, i responsabili e i fatti non pertengono il reale; ma "colpevoli" di allegorie, metafore ed esempi che educherebbero alla violenza, al fascismo e a sentimenti xenofobi.

Io non credo che i racconti di un Dan Abnett, Matthew Farrer, Mike Lee, Graham McNeill, Anthony Reynolds, James Swallow o Gav Thorpe (per citare i soli autori del progetto Horus Heresy) siano l'espressione di fanatici guerrafondai; non mi sembra che G.R.R. Martin infiammi i giovani di Crociate. La grammatica della guerra, di questi tempi, è appannaggio dei media e certa industria del racconto.

Leggo, ascolto, mi impaurisco dopo i tragici recenti fatti che la nostra civiltà è in uno stato di guerra aperta:


Ma a differenza delle due guerre sotto casa o dietro l'angolo, le rovine e i bombardamenti, gli ospedali di mutilati, le evacuazioni e i rastrellamenti che sopportarono i nostri nonni, per accorgersi di questa nuova, inebetita e criptata guerra si deve fare uno sforzo di volontà, di intelletto e di coscienza: se invece si preferisce perseverare nei talent show, gli apericena, nei selfie ed ignorarla il nostro tenore e il nostro stile di vita ci anestetizzano quanto occorre...  per ora.

Ma il progressivo e ineluttabile peggioramento di circostanze, l'accanirsi nella violenza (verbale, fisica e mentale), il decadere nella barbarie e l'abbrutimento, e insomma l'escalation, è intrinseco alla guerra. Prima o poi perciò (fosse pure molto poi) questo comodo, ovattato stato di cose è destinato ad avere fine: il risveglio alla realtà bellica non è dei più piacevoli. Governare una nazione cui la guerra capiti all'improvviso è molto più difficile che gestire cittadini già abituati all'idea. E adottare una lingua bellica può servire a questo scopo.

Il fantastico è un geroglifico, un simbolo, è metafora e allegoria; può diventare un induttore subliminale per persuadere, o educare lo spettatore, a un concetto che altrimenti è terribile da accettare. E che Hollywood per esempio sia un'enorme dream-machine, al servizio di chi governa la civiltà occidentale, è evidente e spudorato già dai cartoon bellici di Paperino e Popeye; e ancora all'epoca di World Invasion di J. Liebesman (2011) che è un esplicito film-spot di arruolamento nei Marine. Carlo Azeglio Ciampi, da Presidente della Repubblica, non nascose di incoraggiare - per non dire commissionare - fiction Rai dedicate alle forze armate: allo scopo dichiarato di suscitare negli italiani un sentimento più benevolo nei confronti delle stesse.

Fate caso a quanti film che si vuole a tutti i costi sbanchino il botteghino propongono un conflict da risolvere combattendo (meglio ancora: mobilitandosi; letteralmente formando eserciti). Ai bei tempi la war sf era appena un sottogenere: la science fiction, casomai, si occupava di esplorazioni, speculazioni su altre forme di vita; questioni d'etica, di morale, sociologiche e paradossi... gli alieni, i viaggi nel tempo, le catastrofi e i robot non implicano la guerra: lo scontro armato è l'extrema ratio. Oggi invece vi accorgerete che queste trame sono forse la maggior parte: una rapida ricerca su MyMovie.it mi ha confermato che sui 40 film di fantascienza programmati e confermati per il solo 2016, 21 sono racconti e/o prospettive di guerra.

Per quanto riguarda la comunicazione pubblicitaria, penso a certi prodotti per l'igiene della casa. Anni or sono si vendeva la suggestione, l'immagine, l'idea di una casa sempre pulita, in ordine e confortevole. Oggi gli spot (come quello della "supermamma" armata e combattente; della coppia che chiude l'uscio in faccia ai parassiti) puntano sul concept di combattere, distruggere i batteri e di uno "sporco" che è "nemico", antropomorfo, senziente e di malevola intelligenza.




Riguardo ai videogiochi, lo scriverne è superfluo: gli "sparatutto" (magari in soggettiva), i "total war", i party on line armati vanno senz'altro per la maggiore; educano a una conoscenza iperrealistica delle armi e la estrema e personalistica conduzione della guerra. Potrei dire che sono corsi di addestramento - virtuali - per civili di età adeguata al reclutamento che una "guerra all'improvviso" non troverà impreparati. Personalmente ricordo ancora decenni in cui spopolavano concept differenti, basati su combinazioni di riflessi (o di intuito) e proiezioni matematiche: Pac Man, Bubble Bubble, Tetris, Super Mario... non era bellica, allo stesso modo, la stagione degli Adventure: che premiavano il talento investigativo, l'intuito, l'umorismo e una certa abilità nel risolvere sciarade.

Nello sport, dove prima le partite si proponevano come eventi, ora si comunicano i campionati fra i grandi club con lo slogan "la battaglia è iniziata"; conflitti fra nazioni di carattere hegeliano (cito dallo spot Mediaset per la Champions 2016): rafforzati da soundtrack, inquadrature, fotografia da racconto epico quali imposti alla semiotica, l'immaginario e le narrazioni di guerra eroica da film quali Braveheart; Il Gladiatore; 300 e altri racconti di fatti d'armi.



Tempo fa lessi un volume di G. Oliva dedicato alla guerra in Africa: il capitolo dedicato all' "Impero nella propaganda" proponeva una galleria di cartoline, quaderni, album da disegno, pagine del "Corriere dei Piccoli", tabelloni di Gioco dell'Oca e scatole di cerini che sconfinavano nel grottesco, tanto inculcavano alla popolazione civile (giovani e bambini, soprattutto: lo stesso target degli Avengers...) l'abitudine, l'idea e il linguaggio della guerra.



Ho insomma l'impressione che si persegua lo stesso scopo, oggi, nel confronti del pubblico; nei modi e con gli strumenti che restano immutati.


Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

8 commenti:

  1. A proposito di Call of Duty è inquietante osservare come negli anni passati nei video di "pubblicità" intervistassero mercenari abbruttiti o ex delle forze speciali, per trasmettere l'idea del realismo del "gioco" in questione. Realismo da propaganda, perchè i veri simulatori militari, come Arma, sono noiosissimi: ore e ore appostato, solo per venire ucciso da una pallottola vagante. Almeno sulla scena videoludica però avverto una certa stanchezza del "genere", con riflessioni interessanti nei giochi di ruolo degli ultimi anni, in termini di profondità ad esempio degli npc.

    Nell'ambito della politica, la distanza dai leader dei secoli scorsi è incredibile - mentre il discorso di Roosevelt dopo l'attacco dei giapponesi era un appello alla responsabilità del cittadino americano, nei discorsi di Bush di primi '2000 l'accento era sulla libertà di fare shopping e "visitare Disney World". Nessuna preoccupazione, ce ne stiamo occupando >___<

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    1. Dovessi mai pubblicare questo articolo, lo completerò di questo tuo commento. Tanto prezioso quanto triste ahimè! :-( Grazie per il contributo!

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  2. Interessante e splendidamente scritto, ma non condivido l'assunto centrale (specialmente riguardo i videogame, che conosco meglio dello sport o della pubblicità), perché non esiste un'unica entità centrale che "inguerrisce" di proposito i contenuti dei vari media, come avveniva in passato. Dal mio punto di vista, il fenomeno che descrivi, che pure esiste, è più che altro un esorcismo. Nota di colore: mio padre è cresciuto giocando a "Indiani e cowboys", e sarebbe una forzatura considerarlo un "addestramento al genocidio".

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    1. Neanch'io credo a un' "autorità centrale" (posso fare eccezione, come scritto, per ALCUNE produzioni hollywoodiane e di RaiFiction: le "commissioni" di Ciampi già all'epoca erano cosa nota, ne scrissero anche su "Script"). Idem, tutti da bambini abbiamo giocato a spararci (io lo faccio ancora, come giocatore di Warhammer 40.000 :-D ). Prendo solo nota di un diffuso e viepiù crescente "umore" (chiamalo anche "esorcismo", se vuoi). Questo post mi è venuto in mente quando settimane fa ho rivisto l'incipit di "Bolero" (Les uns et les autres) di Claude Lelouch: la voice over del regista presenta al pubblico il proprio film con un tono, un garbo, un modo proprio di una civiltà autenticamente della pace che oggi non trovo più. Eppure anche quel film racconta circostanze di guerra.

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  3. Per farti due esempi molto meno "alti" di Lelouch: sia Undertale che This War of Mine sono due prodotti straordinariamente popolari che osservano la guerra e/o la violenza da un punto di vista drammatico e, quindi, pacifista. E, secondo me, anche Warhammer 40K affronta l'argomento in maniera "conscia" ed "europea". Secondo me, l'uso velleitario dei toni guerreschi, da parte di politici o artisti, significa soltanto una cosa: hanno dimenticato cos'è la guerra.

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  4. Sono d'accordo col discorso complessivo, ma This war of mine è un gioco indie. Ha avuto successo, ma proprio perché segnala l'eccezione alla regola, perché è "l'unico" di contro a un Call of Duty/Battlefield all'anno.
    Dubito avremo una fila di giochi "ispirati" a This war of mine, anche se ci spero. Inoltre, per il fatto di essere "realistico" a lungo andare risulta ingiocabile, perché l'empatia coi personaggi a fa a pugni con il fato che inevitabilmente li aspetta.

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  5. Ok, siamo finiti un bel po' Off Topic. Tuttavia: di esempi se ne possono trovare quanti ne vogliamo. Fallout è una serie anti-guerra, ad esempio. Spec Ops – The Line, pure. In X-COM, man mano che combatti il tuo nemico diventi sempre più simile a lui (anche a livello biologico!). In Dragon Age II, passi quasi tutto il gioco a riconciliare fazioni sull'orlo della guerra e prevenire il terrorismo, pur condividendone le ragioni. In Warcraft e Starcraft, combatti un conflitto su tutti i fronti contemporaneamente, macellando i soldati per cui fino a un'ora prima "tifavi", e constatando con mano come la guerra non porti essenzialmente nulla, se non devastazione e morte. In Diablo, la tua crociata è sempre premiata con una pietosa sconfitta e corruzione del protagonista. I videogame riflettono la mentalità dei loro autori, ed è relativamente difficile trovare una serie così compiutamente reazionaria come COD (tra l'altro, gli ultimi COD, perché i primi sono l'esatto opposto). In realtà, secondo me, l'ideologia dominante dei blockbuster americani (sia film che videogame) non è quella neocon assetata di sangue, ma quella liberal (sinistra dei diritti civili + destra economica), per cui la guerra è un'atrocità che, talvolta, si è costretti a compiere "per alti motivi di libertà", ma senza esimersi dal mostrarne il lato problematico. L'atteggiamento non è quindi «Alla guerra!», ma «Scusa se ti sto sparando in faccia». Che tutto questo sia meravigliosamente ipocrita, è un altro discorso.

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  6. Mi riferivo più agli sparatutto che ai videogiochi in generale.
    Sia Call of duty che ad esempio la serie di Rainbow Six, o il recente The Division si avvalgono di collaboratori che provengono dall'ala repubblicana.
    Il collaboratore di Black Ops 2 era Oliver North, luogotenente americano coinvolto nello scandalo Iran-Contra, al momento impegnato a lavorare con il canale Fox News (sic). Difficile essere più neocon di così...

    Perchè non riuniamo entrambe le cose? Attualmente c'è spazio sia per giochi che propongano un intervento militare "perchè dobbiamo" (nel nome dei diritti umani, nel nome del cosmopolitismo kantiano ecc ecc) sia per giochi più "squadrati" sul profilo ideologico, meno raffinati in tal senso. L'ideologia di base però è la stessa. Conosco persone che hanno iniziato a giocare agli sparatutto, sono passati al softair e ora domandano di entrare nei reparti speciali. Il più delle volte ci si ferma lì e sono ovviamente casi isolati, ma il nesso c'è, se non altro nell'idea di una soluzione semplicistica a un problema geopolitico, "bombardiamoli tutti, sono selvaggi" ecc ecc.
    Allo stesso modo, ci sono stati giochi recenti che hanno tentato di umanizzare gli npc a mio parere con un mezzo successo: Shadow of Mordor con il meccanismo dei boss, Watchdogs, con l'hackerare le informazioni sensibili dei diversi npc (dando loro così una personalità e un'intimità che il più delle volte manca negli stessi Fallout o Skyrim, dove sono più pupazzi che assolvono alle diverse quest per poi essere uccisi dal giocatore in un momento di noia). Con la splendida eccezione di Fallout New Vegas, della Obsidian, ovviamente...

    Spec Ops è ancora una volta un'eccezione, non ha venduto e non è stata compreso. L'adoro come gioco, l'ho rigiocato l'altra estate, è davvero "sottile". Tuttavia anche quell'anno era stato Call of duty a conquistare il botteghino. Confesso di non essere andato oltre le prime ore di gioco di Dragon Age 2, il sistema con le faccine per il dialogo era davvero brutto...
    Fallout è anti-guerra nucleare, ma segue lo stesso principio di molti open world: il mondo lì fuori è una sorta di vasta discarica (in senso anche letterale, lol) da depredare fino all'ultima goccia, uccidendo ogni cosa che si muova e assimilando ogni risorsa che si trova. La soddisfazione proviene dal ripulire la mappa salendo di livello. Ancora una volta, nel caso di Fallout New Vegas il lavoro svolto sulle diverse fazioni alleate e contro-alleate e sui dialoghi impedisce questa sensazione che tuttavia sono sicuro è presente anche in fallout 4, dai video che avevo visto, focalizzati sulla quantità di cose da fare, anziché sulla qualità delle quest...

    I videogame non riflettono granché la mentalità dei loro autori, perchè sono prodotti da team ormai molto estesi di dimensioni. Ci sono alcune eccezioni, conosco bene Ken Levine, senza poi citare l'istrionico Kojima, ma sono dubbioso che si possa parlare di opera "personale", almeno nei titoli AAA.

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