Sushi (un'avventura di Delfina Balti)

Delfina scaricò il moschetto a razzi in fronte alla creatura sul portellone dell'helio-shuttle, agguantò per il colletto il soldato, aggrappato alla scala che si staccava dall'astronave. L’altro si afferrò alla paratia, strabuzzò dei resti umani che sporcavano lo scafo:
«Non indossava il respiratore! Com'è possibile che...»
«Era morto, o non era vivo: non ne aveva bisogno. Vuoi aprire questo cazzo di porta?!»
Lo shuttle iniettò nei motori. Il cyber-passepartout nel data-reader del portellone brillò di luce verde con una nota di sol.
Delfina entrò per prima, sfoderò la pistola, mise in mano il fucile al soldato interdetto:
«Non farti alcuno scrupolo, spara a tutto ciò che si muove.»
«È una nave privata, sono nobili: non abbiamo il permesso…»
Sullo stipite dorato della camera decompressione scintillarono gli zero gradi del termometro di bordo; gorgogliarono settenari di benvenuto dai microfoni d’oro dalla forma di cornucopia. Il timer sull'uscio ticchettò del countdown; Delfina stette in guardia sulla soglia. Vide il giovane impallidire nel casco e puntare sconcertato l’arma a razzi contro la porta:
«Convinciti, recluta: è una casata che ha tradito la scienza, l’umanità.»
«Non esistono certe cose!», l’altro piagnucolò. La visiera gli si appannò di paura.
«Ho viaggiato con gli Antropologi Comparati», Delfina lo incoraggiò, «ho visto cose, su certi mondi… Non chiamarla stregoneria, se ti pare: sta di fatto che uccide. Ti ricordi i cadaveri dei nostri? Ti ricordi i pentacoli, le braci, gli animali sgozzati? Pensi che un robot abbia potuto far questo?»
Il soldato gonfiò le guance, trattenne un conato, gualcì lo scafandro all’altezza dello stomaco:
«Le Tre Leggi: no, non è possibile.»
«E chi è l’unico uomo su questo fondaco, a parte noialtri?»
«Il Conte!...»
Sibili gelati proruppero dagli stipiti, il timer segnò quattro zeri:
«Ho inseguito quel pervertito attraverso le sette Pleiadi», Delfina ruggì, «stavolta non mi scappa! Fuoco, ragazzo!»
Un’orda di cose ibride, cadaveri, pesci, avvolte di cavi elettrici sfrigolanti, strisciò dalla cabina dei passeggeri protendendo mani morte e tentacoli. Loro crivellarono la massa schizzando di icori neri le maioliche dell’abitacolo.
Finché l’intero shuttle fu sparso di carcami.
Delfina fermò la mano al ragazzo che si accaniva sugli abomini sul pavimento:
«Perché uomini-pesce?!», ripeteva sconvolto.
Lei lo scosse con una pacca sul dorso:
«Ha usato i corpi dei piloti dell’astronave e credo il sushi conservato in cambusa», buttò la pistola scarica e accese la termosciabola, «lo stregone dev'essere agli sgoccioli.»
Sfondarono nel cockpit: deserto. L’anemometro, l’altimetro, l'orizzonte artificiale dell'astronave ardevano di luce blu sotto uno strato di brina. Delfina indovinò che l’helio-shuttle scivolava alla deriva nel vuoto. Si sedette agli strumenti: le bruciarono i guanti.
Il soldato gridò. Lo vide impietrito agli oblò dell’astronave:
«Là fuori!», il ragazzo rantolò.
Al posto dello spazio e delle stelle, della sfera del fondaco, della curva dell’orizzonte, Delfina vide il volto del Conte che, con paterna pietà, la guardava come se lei fosse un pesce in un’ampolla.
E il cielo sembrava d’acqua e di vetro.

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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