Cambi d'Abito (racconto completo)

Partecipo con questo racconto alla goliardica antologia "50 Sfumature di SF", di prossima uscita presso La Mela Avvelenata Book Press. Cambia la società, cambiano i costumi, cambiano i mostri calati dall'Oltrespazio. In un anonimo stabilimento balneare, sulla costa adriatica dell'Italia fascista, il lavapiatti e le cameriere di un ristorante aprono per sbaglio un varco su un altro mondo: e scoprono che la fantascienza è negli occhi di chi guarda.


a Davide Mana

La Signora si spruzzò di Chanel, si chiuse la grossa spilla alla cravatta e abbottonò la bella giacca di un’altra epoca:
«Ebbene me ne vado», annunciò con un sospiro, «siate brave, figliole»; e prima che Giulio riuscisse a levare gli occhi dai piatti da sgrassare e le posate da insaponare, lei era corsa per i gradini di legno e aveva chiuso lo spogliatoio scomparsa in un istante.
Una gatta di settant’anni che in spiaggia leggeva Salgari.
Giulio accostò la saracinesca del tabarin, si armò di scopone, di secchio, di cencio e passò sulla veranda la prima mano di candeggina. Bianca e Silvana si spogliarono dei grembiuli, delle cuffie, le collarine e piegarono sulle seggiole le gonne e le camice, scoprirono sotto gli abiti i costumi da bagno. Il puzzo di sudore e di raion, il profumo salmastro dell’Adriatico, si mischiarono con i granuli di sabbia che l’ostro del tramonto soffiava nel locale.
Com’era stato per tutto il giorno quel sabato, la radio celebrava «la vittoria dell’Italia contro la Lega delle Nazioni: che in data 4 luglio del XV revoca le sanzioni deliberate a novembre. Viva l’Italia, il Re e Mussolini!»
Giulio smorzò: a quell’ora dopo il turno di lavoro gli garbavano il cicaleccio delle ragazze, la loro corsa a piedi nudi sull’assito, il tuffo dal molo, gli strilli nell’acqua fredda, lo strappo del cerino per accendersi la Macedonia e il fruscio delle pagine del giornalino L’Avventuroso: specie gli ultimi numeri con le storie di Flash Gordon.
La ferita di scimitarra di una luna calante si aprì nella sera allucciolata di stelle, una raffica di lampioni scintillò sul lungomare. Le lampadine col filo nudo che pencolavano ai chiodi schiarirono quel che bastava per dar la cera sul pavimento.
Giulio lucidò le mattonelle. Bianca e Silvana rimontarono la scaletta e attraversarono l’atrio bagnandolo d'impronte. Lui le colpì con il cencio appallottolato, le ragazze gli scoccarono un bacio. Raccolsero gli abiti, le scarpe dalle seggiole e scesero dal tabarin alle cabine per i bagnanti. Silvana con un calcio sgombrò due salvagente, due racchette da volano, si chiuse nella sette; Bianca prese al gancio allo stipite la chiave di ottone della cabina numero nove:   
«Non vedi, cretina?», Giulio le tenne il polso, «quello è lo spogliatoio della Signora.»
«La Signora non c’è, se n’è andata alla chetichella. Un giorno verremo a sapere che è scappata con un inglese.»
«Tu non entri, ce l’ha vietato. Sceglitene un altro.»
«Sono pieni di carabattole. Non ho mica le malattie: mi ci devo vestire.»
«Se le sposti una virgola, se domani se ne accorge...»
Lei lo allontanò con una smorfia di sufficienza, prese la chiave e la girò nella toppa. Saltò nella cabina, il chiavistello gemette. Giulio prese a pugni la porta.
L’urlo di Bianca eruppe attraverso il legno. Un rantolo, un tonfo.
Lui raggelò.
Silvana, arruffata, vestita a metà, uscì dallo spogliatoio con le gambe che le tremavano:
«Che cosa succede?»
Giulio inghiottì. Lasciò lo scopone, afferrò dal portaombrelli il bastone con il pomolo di ferro. Prese il passepartout dalla panoplia di chiavi:
«Vai a prendere la cassetta pronto-soccorso. Oppure no: chiama i carabinieri.»
Poi aprì la porta lentamente, e uno spiffero gelido, una ghiaia cenerognola, gli lambirono gli alluci scoperti dai sandali:
«Bianca!», chiamò.
Montò sul predellino, entrò nella cabina: lo avvolse l’oscurità. Il pianto di Silvana che lo chiamava per nome scemò dietro di lui in una coltre di nebbia. Udì il cigolio di un’anta che si chiudeva.
I vapori e l’oscurità si diradarono in un istante.
Giulio chiamò la mamma, si pisciò nelle braghe.
Strabuzzò su un orizzonte notturno di aridi crateri di smorta antracite, striati da vene di un intenso smeraldo. Il cielo nero, freddo di quel mondo era gravido di grappoli di lune color ocra, che rotolavano su un orizzonte inquinato di minareti, di antenne e di ciminiere.
Una coppia di insettoidi su una specie di sidecar inchiodò sospesa in aria a pochi metri da lui.
Quelle cose erano quanto di più mostruoso Giulio avesse visto, immaginato o fosse capace di immaginare; il trasporto era un ordigno di distruzione.
Perché tanto ribrezzo? sentì ch’era giusto.
All’improvviso rinvigorito, certo di prevalere, cercò a tentoni la canna da passeggio con la quale era entrato nella cabina: le dita gli si strinsero salde attorno all’impugnatura di un’arma. Il peso e la foggia, la canna, il grilletto, lo confortarono di una pistola contro i mostri disarmati.
«Fermo!», gli insettoidi si arresero, sollevarono le chele sulle antenne irrequiete, «non è nostra intenzione farle male. Né a lei…»
«Consegnatemi la ragazza!», Giulio minacciò, intimamente sorpreso dalla propria baldanza. Si vide riflesso sul metallo del sidecar: al posto del ragazzetto con le braghe al ginocchio, la giacchetta d’orbace, la fronte e la nuca appiccicose di brillantina, vide un atleta dal torace possente dai capelli di grano e vestito da aviatore.
Si guardò le cosce enormi, i bicipiti, le spalle: non era un abbaglio, era vero! Tornò feroce con la pistola al bersaglio.
«…né alla donna», l’alieno proseguì, «che è entrata poco fa dallo strappo numero 9.»
«Ogni volta è la stessa storia», masticò l’altro mostro, «venite dalla Terra degli anni '20 - '30, giusto?»
«Quindicesimo anno dell’Italia Fascista.»
«Quando la smetterete d’immaginarci come blatte? Sapesse che ribrezzo ridisporre le nostre molecole in questa forma disgustosa e ridicola! E ridurre le nostre città a quegli altari sacrificali!»
L’alieno si prostrò sulla moto con un singhiozzo disperato, un vagito infantile.
Le strilla di Bianca echeggiarono tutt’attorno.
Giulio, con il fuoco nel petto, ficcò la pistola fra le mandibole degli insetti:
«O la donna o la morte! E se per caso le avete torto un capello!...»
L’alieno gorgogliò nella radio del sidecar: apparve all’orizzonte una forma trapezoidale scolpita nell’antracite e lo smeraldo del suolo; incisa di lettere, accesa di lampadine, ribollente di becher di abominevoli liquidi.
L’oggetto spaventoso fu lì in un istante. Bianca, maggiorata, in veli da odalisca, era appesa con i polsi legati a una lampada Tesla sulla cima del monolito.
Giulio le lesse negli occhi sbarrati: se non l’avesse slegata subito, riportata fra le braccia di là, la ragazza sarebbe uscita di senno.
Balzò sulla pietra, si afferrò alle sporgenze, ruppe a calci gli alambicchi velenosi e spense a revolverate le lampade che sfrigolavano. Sciolse i lacci attorno ai polsi di Bianca.
«Neppure una scazzottata?», balbettarono gli alieni.
Lui arrossì. Stese lei priva di sensi sul suolo e accennò, in imbarazzo, qualche tiro di boxe. Gli insetti declinarono:
«No, se non vuole non occorre. Giù, nel vostro mondo, si è fatto tardi», una porta di legno verniciata di azzurro, dai cardini arrugginiti, contrassegnata dal 9, apparve nel vuoto alle spalle di Giulio. L’alieno la aprì, lo invitò nell’oscurità.
Lui riprese Bianca fra le braccia, si fermò sulla soglia:
«Che cosa significa?»
«Lo strappo è obsoleto: questo vecchio modello influenza chi l’attraversa. La percezione del pianeta di qua è determinata dagli archetipi, l’immaginario e la cultura d’origine: la nostra è una specie psicomimetica, i nostri atomi si modificano secondo interlocutore. Di questi tempi, giù da voi, al cinema e nei fumetti, pullulano i mostri con gli occhi da insetto, che rapiscono belle ragazze soccorse da fustacci: eccoci, perciò; non siamo ancora Sting o David Bowie. Se potesse percepirci nella nostra vera forma, sarebbe lei a nascondersi sotto un sasso per la vergogna dell’umana condizione.»
«Un’ultima domanda.»
«Vuole andarsene, per favore? Sto per vomitare dal disgusto di me medesimo.»
«Una donna di una certa età attraversa il varco ogni sera, mi sbaglio?»
Lo spinsero nel buio.
Giulio, con la coda dell’occhio, vide in una crepa fra lo stipite e il nulla lo scorcio di una spiaggia e un oceano dell’Equatore; e un giovane magnifico, dall'incarnato olivastro, che rapiva su una giunca una ragazza di un altro secolo. 
Lui la riconobbe  anche sotto l’ombrellino e stretta nel corsetto e l’abito vittoriano; anche con quella pelle ringiovanita di cinquant’anni:
«Signora!», sorrise fra sé.

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

6 commenti:

  1. Ventennio e fantascienza vanno proprio d'accordo. C'è il retrò, la possibilità di introdurre una vena di leggerezza ed ironia, c'è anche a fare da controcanto, la brutalità del culto fascista e l'ipocrisia borghese e in più il fascino della fantascienza d'epoca. L'idea mi piace molto.

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  2. Non avevo dubbi che Le sarebbe piaciuto, Signora.
    Ha ragione: ventennio & fantascienza sono davvero una bella coppia. Purtroppo noto che pur-troppi autori malcelano con la penna certa nera nostalgia. Mi è capitato di leggere titoli e racconti che sospirano ad ogni paragrafo "...quando c'era lui!..."
    Per me, non conosco altri LUI che un polipo antropomorfo ed alato di 80 metri che dorme da milioni di anni nel profondo dell'oceano. Confronto al quale siamo tutti macchiette, dall'Età della Pietra al Secolo Breve.

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  3. Ma incantevole! Oh gli alieni psicomimetici - perplessi per la mancanza di scazzottata e sick to death di fare gli insettoidi! E la Signora!
    Signor Forlani, fo la riverenza in tutta ammirazione - come al solito, d'altra parte.

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  4. Grazie. Ogni tanto come vedi ti penso, smetto le viscere l'arti nere e gli spaventi e ti scrivo di altrimondi senza stolzi e efferatezze. :-)

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    1. Grazie, Monsieur. Apprezzo davvero - e m'immagino porticine azzurre da attraversare per raggiungere ponti di navi, teatri elisabettiani e campi di battaglia, se gli Psicomimetici collaborano.

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