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Arthur Hacker; The temptation of sir Percival |
L'ennesima visione di "Excalibur" di John Boorman, questa volta in compagnia di una persona particolarmente cara, di un'anima affine anzi; la telefonata di un'amica attrice che non sentivo da tempo, che mi ha ricordato che sono trascorsi due lustri da che si è lavorato insieme; il compilare curriculum per domande di ammissione in graduatoria all'università , mi ha fatto ricordare che esattamente 10 anni fa ho scritto il poemetto che segue: l'ultima mia prova in versi, poi solo prosa. Ciò non significa nulla ma, non so perché, stasera sento il bisogno di rileggerla e fermarla qui, sulle pagine del Grande Avvilente.
PROLOGO - KALI YUGA (e vicenda di Giuseppe d’Arimatea)
La squilla piange il giorno che si muore,
mugghia l’armento, e tardo erra sul prato
certo. Forse. Però Maria e Mario
hanno una sera ch’è di luce stanca,
l’imbrunire è nel loro salotto;
coperti, accucciati, alle pantofole,
e il jingle che deride la campana.
Ogni showgirl lascia cadere un velo
più sensuale, Mario apprezza; Maria
è tutta per la tavola da stiro.
“Dio, non vedo l’ora sia domenica.”
Quanto, e quanto ancora visse Lazzaro
dopo il Miracolo? Oggi il Cristo ™
è un sì efficace prodotto
da permettervi in tre sole eternitÃ
di cancellare dal vostro corpo ogni
traccia residua di Morte.
Torniamo alla dimora di Lazzaro.
Stupitevi. Lazzaro
poi continuò a vivere forever.
Ogni mattino era per lui un fruscio
di foglie, in cui sua moglie
aveva avvolta una focaccia
(Il cadavere uscì
che mandava odore di quattro giorni,
tuttora avvoltolato in bende e il volto
ricoperto da un sudario.
“Lasciatelo – disse – ed
ora scioglietelo,
quello che ho fatto non raccontatelo.”
Commosso, Joshua si copriva
il volto
con entrambe le mani; i
curiosi
allontanava da sé,
la folla dei Giudei, dei
Farisei,
dissero: “Vedi come lo
amava!”,
ben oltre il settanta per
cento di share.
Cupo consiglio di
amministrazione
a Betanìa, discussero:
“Signori,
quest’uomo compie segni:
che facciamo?”
Decisero di ucciderlo, quel
giorno.
Io so che il Re mio padre
ha i suoi acciacchi,
di ciò la nostra casa si è
ammalata;
sta vecchio, sopra l’Isola
Rotante,
e ha gettato il giavellotto
nell’acqua
e il forte scettro, ancora
la corona eccezionale. Da
allora
la nazione si è abbruttita,
è fatta
vile, la terra, del suo
male. Soffro
delle stesse debolezze.
Tuttavia
ho ben creduto far
carriera, studi;
ed ho un completo per il
matrimonio
e una cravatta per il
colloquio
e una camicia per il
battesimo
e un orologio per il
funerale
quando e se dovrò. E
un’incoscienza
che sta bene su tutto
(Eccolo, nella corte
del Sire Claudicante:
in quella, un paggio
attraversò la sala
e dietro una ragazza, e poi
un’altra).
Amici
e voi da casa Magagnate Genti
osservate: ciascuna
reca seco un’arma bianca in acciaio
un piatto una patena in omaggio
-
chiamate ora
al numero che vedete
in sovrimpressione
affrettatevi riceverete
una Ferita al Costato ™
(Al cavaliere si fece presente
una fanciulla,
ella
recava una lancia).
Il tramonto li ha sorpresi allo specchio,
Maria alle crudeltà del proprio corpo;
Mario, che si mà rtora lo stomaco,
non ha timor di Tempo, si avvilisce:
“Sia mai detto ch’io trascorra una stagione
così fiacco e
così pallido nel volto!”
(la toilette ha un lucernario minuto,
Adone Dio
Narciso,
un terrifico
sorriso, lo spia:
la voce di
reclà me, e la Sua Legge
un pannello di
sei metri luminoso).
Nel mezzo del cammin della sua vita
- e pure prima
– apparivano a Maria
lampade e ferri: “In hoc signo sedurrai;
- pontefici plastici –
Signore è carne e volto.” Devota
colleziona, nel segreto dell’armadio,
reggiseni di una taglia più grande:
“Appaia o signora il tuo regno,
sia rifatta la nostra identità :
vedrà per suo marito che sorpresa.”
(Al cavaliere si fece presente
una fanciulla,
ella
recava un
calice:
Perceval,
allora, non fece domande).
Il corpo lo affidarono a Giuseppe.
Spezzato dal flagello e
dalla croce
e pochi effetti: una corona,
dei calzari, neppure gli indumenti
- quelli, ai carcerieri per i dadi.
Briciole sul fondo di una ciotola,
un catino per detergersi le mani,
e più di tutto lo atterrì una coppa,
l’orlo era ancora bruno di vino:
“Qui – gli dissero,
recandogli il cadavere di notte
- ha bevuto con noi del proprio sangue
il Maestro.” Buon Dio “Abbine cura.”
Buon Dio. Non fosse stato
per quella donna devastata a tal punto
Giuseppe avrebbe chiamata la gente
di casa e fatto battere loro e
quel fagotto abbandonato ai maiali.
Eppure
Un locale, frequentato nei
week end
da sì lunga tratta di gente
ch’io non averei creduto
che l’ora tanta n’avesse distratta.
Ne scorgono l’insegna tanto
ratta,
entrano a frotte, tormentati
molto
dalla noia degli sguardi
ch’eran ivi.
Mario ha scelto un tavolo,
Maria gli siede accanto;
il barman serve olive e noccioline.
(Mario spezza un cracker, fuma Marlboro,
Maria gli porge un calice e tartine)
“Mangiatene – ringrazia
-
ché questo è il
mio stipendio,
consumatene in
fortuna di me.”
Onorano il pane, ed il vino,
ma in più qualcos’altro – cheeseburgers - fan questo
assopiti. La
pace
è lacerata di trilli,
“Sao? Te portai nillu ventre un bambino:
ho trent’anni,
ne hai trenta anche tu,
quando vuoi?…”
“Lascia perdere. Sai.”
“Sao.” “Non mi va, di discuterne adesso.”
Oltre, allo spegnersi degli
specchi
e al farsi sporca polvere e chiassosa
della presenza, Giuseppe
accudì il corpo in notturno silenzio.
“Padrone, ho il libro mastro,
gli introiti
del pomeriggio.” “Ephraim?…”
“Padrone?” “Vatti a fare un bicchiere.”
“E’ generoso!…” “E chiudi a chiave uscendo.”
“Arrivederci! E grazie!” “Avrò da fare…”
“La veglia mia profumerà di spezie
ed ambra ed
aloe sciolto nell’acqua.”
Componeva l’uomo rotto e trafitto,
ne acconciava i capelli
con la forbice ed un pettine, ed olii,
per renderne il volto
come nel sonno, gentile.
“Di qui non cesserà venire il sangue.”
Buon Dio. “Raccoglilo nella coppa.”
E ne riempì, e cadde fatto questo,
vinto da un prodigioso torpore.
Venne il mattino: “Su, che fine ha fatto?!
Sapete, c’è il carcere
per
l’occultamento di cadavere!”
Scomparso. E la stanza
sconvolta, come da un uragano.
I suoi non vollero
ascoltare ragioni, lo tennero;
ed egli, costretto nelle tenebre
per trentasette anni,
si nutrì per mezzo del calice
e di una colomba. E anziano ormai
prese la via del mare.
Here is the Book of thy Descent.
I - STATO
D’INFANZIA DEL RE PESCATORE
Già dai mesi freddi, i giorni grigi,
morte saison,
Que les loups se vivent
du vent,
Et qu’on se tient en sa
maison,
Pour le frimas, pres du
tyson,
era un sollievo, accanto alle finestre,
guardare fuori le persone immobili,
ferme sul ciglio delle pozzanghere.
E tutti gli esseri che strisciano sulla Terra,
e dentro i quali vi sia un alito di vita.
Purtuttavia, se respirava accanto
agli infissi, sui vetri trasparenti,
verso gli Altri, la sua PossibilitÃ
si arrestava in una nube umida;
e se tentava di significarla
non c’era, fra quelli che conosceva,
un segno valido ad attraversarla.
Lo allontanavano dalle finestre
rammentandogli la Malattia,
e tornava al grembo delle coperte
sottoposto all’immagine del mondo.
(Forse, lo colpirono all’inguine
per un eccesso
di affetto,
e lasciarono la
lama confitta
erroneamente, e
sempre per premura)
(Nel Giardino della Rosa i germogli
crescevano
sorretti da un’asticella:
la stessa terra
natia non ambiva
forse che a una
mediocre messe)
Le facili euforie di Primavera
fasciavano la Piaga:
guardavano il nido delle rondini
sotto la grondaia,
s’impossessavano di una palla
e apparivano sani.
Frammenti: racconto di una bravata
commessa più o meno alla stessa età :
rubarono un sacchetto di dolciumi
e lo sotterrarono.
Lui non ne avrebbe avuto il coraggio.
“E poi che fine ha fatto?”
“Giurammo. Come su un’ascia di guerra,
in una notte estiva,
con le guance morbide
vigorose dei glifi
dell’aquila e dell’orso:
di disseppellire il sacchetto mozzo,
stringerlo per i capelli,
mostrarne gli occhi di zucchero, orrendi,
alla tribù rivale.
E seguano i tamburi!”
Altri raggiungono
ora i rifugi
cavati dai rami
altri si apprestano
adesso a forgiare
armi aguzze di legno.
E sibila il sasso
scagliato da fionda
e irrompe sui prati
veloce il biroccio.
“E nessuno, dimmi, vi rimproverò?”
Si il pasticciere
dà voce s’infuria
esce si accinge
alla pugna con noi.
Ora il più grande
si avanza fra gli altri
indomito sfida.
Oh tu dai baffoni
sul labbro c’hai cuore?!
“Parla, racconta, pronuncia parole!”
Lui non ne avrebbe avuto il coraggio.
Ello se poggia a un trono circolare
circondato dall’acqua dello oceano:
appare ai piligrini
come fussi attraverso uno cristallo.
II - Giuseppe sotto la Vampa del Sole
Nineteen-eighty,
gli obesi Sette Anni,
inestetismi
della cellulite,
fottìo
di locali, Empire West Road,
twentyfourhours
che la gente balla.
Sul
lungomare pienofiga. Abbaglia.
L’auriga
pompa, peana canta in palla,
sfetuccia
il ‘Pe sul carro da battaglia.
Pentefres,
governatore di Heliopolis,
impiegato
di settimo livello
promosso
in seguito alla dirigenza.
Servitore della cifra, paziente e
devoto.
Del Tal dei Tali rivestì
l’incarico
di portaborse, quindi
ne
divenne Segretario, quindi Quadro.
Abitò
questo Statale Sepolcro.
Cercasi
bimbe. Confezionabili.
“Mi
chiamo Aseneth. Diciassettenne.”
“GiÃ
lavorato?” “Televisione, si.”
“Sogni
condurre?” “Una trasmissione.”
“Mi
chiamo Aseneth. Di Porta Accanto.
Acqua & Sapone. Di Anoressia.”
Che
tutte quante le porti via.
“Ma
quanto tira, canta l’armi Musa?”
“I
centottanta e ciuccia brutto.” “Ciuccia.”
“Maddà i,
va’ tranx, c’ha un bel lavoro il Gius,
sta lì dov’è perché è il figlio del Faraone.”
“Uè
calma calma!” “Serve a una madonna…
Solito valzer dei raccomandati.”
“L’è
laureato il Beppe.” “Anch’io.”
“Ma
scavati.” “Pure se fosse
fregaunasega scusa?”
Di
qui scorgi un Egitto qualunque.
Pentefres
da lungo tempo vive
una
casa che ha fortificata;
ampio
patìo, pavimentato
in
ere successive di ossequio.
Mantenne
il proprio voto segreto.
In
onesta maggioranza fu numero.
Sia
tutto in ordine qui
nella
dimora. Acceda
l’ospite
dall’atrio la domenica;
tu
la tavola consacrerai
ai
tuoi parenti: “Gesù,
com’è cresciuto il bimbo!
Come si è fatto di famiglia e grande!…”,
rasserenata
famiglia. Conducili
all’apparecchio
televisivo.
“…
E gli ho detti che a me
i piedi in testa non gli ha mai messi
nessuno!…”
Onora
le funzioni della sera:
Ave,
Signora dell’Aspirapolvere,
stira
di Grazia, Ammorbidente è con te;
ora,
e nell’ora del Tiggì, partita,
chiudi
la bocca che non sento niente.
Amen.
“Aseneth dov’è,
il bellissimo Giuseppe?”
Sta
in camera.
Sta fuori.
Non
torna.
E’ con gli amici.
Fine
mese
ho da incassare il grano.
Nineteen-ninety,
gli obesi Sette Anni,
casino
assurdo, vita fuori in appa;
all’Uni
esami, sconvolts, gran viaggi,
di
storiaseria con la tipa chiappa.
Faraone
lo vestì di giacca
e
una cartella, cravatta. Innanzi a lui
esclamavano
Lei.
Sfetuccia
il ‘Pe sul carro da battaglia.
Giuseppe
è nella Casa di Pentefres.
Mezzogiorno
scoccò così improvviso
e
grande è la vampa del sole. Ed io
mi
rinfrescherò sotto il tuo tetto,
ed
io verrò a sedere sul tuo sofÃ
ed
insieme attiveremo il decoder;
ed
io dividerò il telecomando,
e
questa sera, naa-aaa,
ché
non ho voglia di uscire. Servici
piuttosto
un tramezzino e una bibita:
“Aseneeeth?!
Crissstooo!…”
Ma
un
uomo, se tu potessi comperarmi,
mammina.
La sua torre
s’alza
al centro della casa; d’ebano
le
porte e le imposte, e le pareti
tempestate
di gemme. Era d’oro
il
soffitto di questa stanza, attorno
disposte
statue degli dèi egiziani,
che
teme, ed offre loro
sacrifici.
Ma un uomo,
se
tu potessi comperarmi, mammina.
Nella
Casa si levava una Torre.
Questa
tua camera, bambina mia,
l’ho
edificata come allegoria:
sta
perciò su un vasto piano di stanze,
dieci
finestre, ventidue corridoi;
sei
nata sotto la Prima Finestra.
Sii
maestosa, sii bella, sii fiorente.
Perciò,
quel giorno, appesi una corona.
E
se l’anima tu avessi
di
attraversare la casa vedresti
i
Ritratti di Tuo Padre e di Tua Madre.
Dimmi
ora se per te
ha
più un qualunque significato.
Aseneth
stai attenta a non ingrassare.
La
quarta chiude i Beni della Terra
-
da bimba la
evitavi,
e questo è giusto; istantanee dei
tuoi nonni combattenti.
Sei una donna, non dovresti attraversarla?
Dimmi ora se per te
ha più un qualunque significato.
Aseneth, non uscire in disordine.
C’è
una terrazza
che
si affaccia su tre sereni orizzonti
-
le nostre mani
sulla tavola e
il nostro respiro; e tu dicevi
ch’erano grandi. Ci si
chiudevano gli occhi
-
e i cartoni, le
lamiere, gli stracci
ammassati; la moltitudine che
vi abita rispetto a te.
Ed essere certa che
quel loro viso non
metterà in discussione il tuo osservare.
Dimmi ora se per te
ha più un qualunque significato.
Aseneth, non frequentare gli sfigati.
Twenty – oo, gli ingrati Sette Anni,
a Gennaio Pentefres rendicontò.
Carte. Preoccupate.
Sul fondo di un cassetto.
“Cazzo in diciott’anni
cos’è costata
la sua mansardina, e
Aseneth non è
un cedro del Libano.”
Rossetto, rimmel, sigarettina
fina spipacchiata con papà e mammÃ
in cucina. “Pare a me
o non ti si
piglia nessuno?” Sarah
non è, non è Rebecca, Rachele.
“Questo Giuseppe, che vi
vedete ogni
tanto.”
Sono venuto nel mio giardino
amica: i tuoi capelli
sono tinti adeguatamente. E
per il trucco non conosco il tuo volto.
Griffata sei tu, elegantemente,
e i tuoi centimetri disposti con senno.
Ho misurata la tua gonna e i tacchi.
E la porta venne aperta, ed entrò il Gius,
venne seduto sul carro del Faraone.
Nella mano reggeva un portafogli,
piuttosto uno scettro,
e vide Aseneth e
nella mano reggeva
un ramo di ulivo
e vide Aseneth e
ch’era carico di frutti.
“Viene Giuseppe nella nostra casa,
il Campione di
Dio.
A lui, ch’è del
tuo stesso reddito,
e meglio, io ti
darò.
Mostrati.
Decentemente conciata,
e taci.” Ed
ella scese.
Dov’è andato il tuo amico,
o zitellaccia fra le coetanee?
Egli sta là , il fortunato investimento:
vigorosa è la stoffa dell’abito,
di eccellente qualità è la sigaretta
che fuma e l’automobile non è
la stessa che guidava il mese scorso.
“Lontana questa ragazza Pentefres,
generazione
della Madre e del Padre;
ché il carro
caracolla
innanzi il tuo
cancello, e la tua casa
resta su solide
fondamenta. Io,
piuttosto…”
trasalì, il Genitore.
“Non peccherò di fronte alla Playstation,
né di fronte ad automobile nuova,
calcetto del sabato,
programma abbonamento in palestra,
occasione insignificante di
frequentare. Di fronte
a corpo, confezione, involucro.
Non peccherò di fronte ad easy e collo
polso, manica, stirata da mammà ;
letto rifatto, piatto
favorito, batteria
di soprabiti fiammanti. Ognun per sé,
chi di sua bocca dice spropositi
altisonanti, fatto & rifatto
ad immagine di nostro inserto;
levi jingles in lode
di ciò che spendere gli è dato con
scialacquo. E con ciò
non ho intenzione di sposarmi.”
“Graaandeee!…”
“Aseneth…”
“Papà ,
‘sto stronzo non lo voglio.”
Twenty
– oo, gli ingrati Sette Anni,
di
Altrove Tour, frinire di cicale.
Foia
di scampo. Ardua attraversata.
Corso
rovente e il cuocere del sole. But,
forever,
resterà un gran bel ragazzo.
L’auriga
pompa, peana canta in palla,
sfetuccia
il ‘Pe sul carro da battaglia.
III – LA
CHANSON DE L’EPEE
Questo
accadde quando il Re morì :
“Ora,
buon Bedivere, torna al Lago.
Torna ad uno specchio immoto e limpido,
l’acqua, a una vagina della terra,
l’acqua, sponda fertile;
e tieni per la lama Excalibur e
prendi fiato e forte inarca il busto e
scagliala.” “Gettarla via!…”
“Obbedisci
al tuo sovrano Artù.”
Perdi
la lama nel profondo verde e
ascolta,
cavaliere Bedivere,
come
l’alga le crescerà attorno
senza
rumore poiché
c’è
spavento nel profondo del Lago;
e
comprendi che viene il Tempo del Maturare.
Volgeva
il giorno oltre il Colle di Barham,
vero
imbrunire
per
il dolore di chi vi giaceva.
Ma
tu questo coraggio non l’avesti.
Il
Re ti domandò: “Che cosa hai visto?”
“Nulla”
– gli hai risposto,
pretendi
di mentire
-
“Nulla.” Affronti
l’ira del sovrano.
“Ebbene, è chiaro che non l’hai gettata.”
(di fatto, nascondesti
la lama in una
sacca
appesa alla
sella
e gonfia
appariva di
colpevolezza;
come una rapina
adolescente di
ciliegie)
“Perché, mio Bedivere,
ha fallito la
tua mano?”
Camminasti un Oscuro Sentiero,
duro per i feriti condotti via.
Per quelle frottole il Re
Trattenne l’impulso di ucciderti.
Fatta di ferro, inorridita di sangue:
così quell’idea, sbarazzarsene,
“Ma mio sovrano!…” – non era affatto uno scherzo.
Bedivere volge attorno lo sguardo,
muta colline, l’affresco della guerra;
il Re, da una finestra appannata
lo vede ancora inutilmente agitarsi.
“Stupido! Stupido! Stupido! Stupido!”
Batte sull’elmo. E’ come un sonaglino.
IV – PERCEVAL
Il ferro così spesso,
lo zoccolo chiodato; e il calpestio
degli stalloni sulla terra. Questo.
Ormai da quando, ormai da quando, ormai
da quando? Che già ventuno semine
ho contato, ventuno mietiture.
Sto sul cuojo d’un terribile tamburo.
Io so che il settentrione è dove il muschio
s’aggrappa alla corteccia; e che se a monte
una carogna inquina un corso d’acqua
gli animali cadranno avvelenati
se ne bevono. Preghiere. L’alfabeto.
E so che il mondo è un cerchio, e che mia madre
soffrendo ha concepito. Ora non vuole
la stessa sofferenza mi ferisca.
E so che il mondo è un cerchio, e corro in cerchio.
Na karmanam anarambhan
naiskarmyam puruso ‘snute
na ca sannyasanad eva
siddhim samadhigacchati.[1]
Che scalda il sole, e che il mangiare nutre,
so che l’ozio corrompe la coscienza.
So che il clima palesa le stagioni,
a Ottobre cavallette
e rondini in Aprile.
E so che la corrente fa ruotare
la macina in eterno del mulino.
Ma quest’asta, signore, a che vi serve?
E so che il mondo è un cerchio, e corro in cerchio.
Na hi kascit ksanam api
jatu tisthatyakarma krt
karyate hy avasah karma
sarvah prakrti jair gunaih.[2]
E questo scudo signore, questo scudo?
E il limite dei campi, che nasconde?
La rocciosa recinzione. Il tronco curvo.
Il sentiero percorso
con lo stomaco stretto.
La foresta ha divorato mia madre,
coperto d’erba il volto di mio padre.
In silenzio poi attraversai l’Inverno
e temperando la punta del mio spiedo.
E molte volte l’ho indurita al fuoco,
presso la Fiamma Che Voi Non Conforta.
A Primavera possedevo un’Arma,
e seminavo strage di caprioli.
“Andrò coi cavalieri - questo dissi
- a visitare la
Gloriosa Corte.”
E Voi ne aveste il cuore lacerato,
e sopraffatto dalla Campana del Tempo.
“Andrò coi cavalieri”, questo dissi.
Niyatam kuru karma tvam
karma jyayo hy akarmanah
sarira yatrapi ca te
na prasiddhyed akarmanah.[3]
E questo chiaro ferro, questa lama?
“Uccidi. Per vincere le insegne.
E spacca il
petto al Cavaliere Muto:
la cui celata è
così luccicante
che ti
sorprenderai
nello scrutare
la Tua Profonda Pupilla.”
Ed ora il tuono è così forte. Avverto
il loro incedere,
il martello dei giorni.
“Di tutte le Figure Dio è il più splendido,
strabilianti sono gli Angeli con Lui”.
E Voi, che non mi avete proiettato
che sfocate terrecotte alla parete.
Signore, e quale nome ha questa veste?
Na karmanam anarambhan
naiskarmyam puruso ‘snute
na ca sannyasanad eva
siddhim samadhigacchati.
Così mi affrontò nell’Arena,
ed io scagliai nell’aria un ramo sfrondato
cui la sua forza non oppose usbergo.
Cadde con un fragore che interruppe
qualcosa nel
corso del mio respiro.
“Ha sconfitto il Cavaliere degli Specchi,
il Cavaliere
della Luna Bianca,
il Cavaliere
della Triste Figura;
il Cavaliere
che correva la foresta
ottenebrato per
cifre
incise sulla
corteccia.
La Virtù che
echeggiava
dal fondo
dell’acciaio,
presso
l’assedio sonnolento di Parigi.”
Oppure ancora il viso
che Voi vorrete dargli. Il nome è vostro.
Mentre per me, non avete mostrate
che sagome oltre il ciglio di un muro.
“Io ti risponderò volentieri.”
Na hi kascit ksanam api
jatu tisthatyakarma krt
karyate hy avasah karma
sarvah prakrti jair gunaih.
“Questa è una lancia, e mena grandi colpi,
e questo scudo
di buona fattura
spesso mi risparmia
dai fendenti
dei nemici.
E ne ho cura, e
lo ritengo prezioso.
Mentre alla
cintola allaccio la spada,
ch’è l’anima
mia fatta solido ferro.
E ho chiuso il
capo in un elmo splendente,
e mi copro e di
maglia e di seta.
E per il Cielo
non chiamarmi Dio,
non ritenere i
miei compagni gli Angeli:
in effetti, non
siamo che peccatori.
Freres humains qui aprés
nous vivez,
n’ayez les cueurs contre nous endurcis.”
E con le mani invecchiate dalla battaglia
frugai nell’armatura, dopo,
per tutto il corso della lunga notte,
diviso fra il Sonno e l’Epifania.
Nella veglia giacqui accanto all’armi,
nelle tenebre mi disfacevo.
“Sappi: ora è per te
il lungo gemito
della polvere,
la soglia che
sussurra,
il gradino
attraversato; ora è per te
il raggio del
giorno opaco.”
Ed io, se non avessi fissata
la pietra, nell’oscurità ,
sarei come lo strillo di un cembalo
o il bronzo toccato dall’aurora.
“Ma avverti il respiro affannoso
dell’Avversario, la schiuma del cavallo,
e lo stridere,
la scheggia dell’asta infranta,
l’aria che
torna al petto,
il cadere
sull’erba e quel dolore
che ti ha
salvato.” Vattene Satana.
Lode alla ferita della terra,
lode alla zolla capovolta
dal vomere, lode alla ferita
dell’età . Perch’io giammai ritornerò
alla carne intatta.
“Ora è per te il perdere il computo,
la risposta
sbagliata, la malattia;
e il generare e
l’essere avversati,
ora è per te
l’ora del pomeriggio
fredda e il
fondo amaro
delle panciute
caraffe.” Vattene.
Perch’io giammai ritornerò alla selva
umida. Mai più.
Niyatam kuru karma tvam
karma jyayo hy akarmanah
sarira yatrapi ca te
na prasiddhyed akarmanah.
E ho scelto di seguirli oltre il burrone,
di muovermi a Occidente, calpestare,
di lordarmi della cenere del mondo.
“Figlio tu mi hai devastato il seno,
reso carminio
il candore del mio latte.
E la mia mano
ti è protesa dal buio
e tu prosegui
con tanta indifferenza.
Figlio tu hai
dato d’accetta al mio bastone,
e m’hai
sottratta la Trave della Casa.
E la mia voce
va spegnendosi nell’ombra
e non le porgi
che un orecchio distratto.”
Eppure un Tempo per noi viene egualmente,
e chiude gli occhi di coloro che ci han visti.
“All’assalto domani, non si scappa:
la prima sporca
ondata, siamo fritti!”
Così sino a che l’alba mi sorprese.
Sino a che l’alba mi sorprese a radermi.
[1] “Non è soltanto
astenendosi dall’agire che ci si può liberare dalle conseguenze dell’azione, né
la rinuncia di per sé è sufficiente a raggiungere la perfezione.” Bhagavad -
gita, vv. 4
[2] “Tutti gli
uomini sono inevitabilmente costretti ad agire secondo le tendenze acquisite
sulla base dell’influenza della natura materiale; perciò nessuno può astenersi
dall’agire, nemmeno per un istante.” Bhagavad - gita, vv.5
[3] “Compi il tuo
dovere prescritto perché l’azione è migliore dell’inazione. Senza agire non è
possibile nemmeno mantenere il proprio corpo.” Bhagavad - gita,
vv. 8