Un Terzo delle Acque (racconto completo)


 

 
E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?
(Marco; 8, 37)
 
1.
Finalmente.
Era felice.
- Lo facciamo col profilattico, - lei disse.
- Come vuoi, - sorrise Il Feru, non le poteva negare niente. E non le avrebbe negato niente per il resto della vita.
È romantico.
Fa schifo.
Ma è così che si sentiva.
Saltò in bagno, si sciacquò, si asciugò, si mise il coso. Tornò in camera, e lei non c’era più.
Lei chi, scusa - si grattò Il Feru.
E perché aveva un preservativo infilato al cazzo moscio? Perché era quasi nudo, e perché era così caldo?
Perché era caldo, perlamadonna, e non smetteva né aveva smesso né avrebbe smesso di fare caldo.
Da quand’è che è così caldo?
Schioccò il condom dall’uccello, lo afflosciò sul comodino. Ansimò steso sul letto nella torrida penombra, la luce bianca di un pomeriggio che penetrava le tapparelle. Di un qualunque, pomeriggio, ché d’estate era lo stesso. La tenda azzurra d’organza e polvere era fluttuata da una zanzara, fuori, in strada, i monopattini rotolavano. Era vuoto in un momento di solitudine ed era solo in un momento di tanto vuoto. Perché era solo nel non avere e nel non essere con nessuno e si mentiva che era solo nell’accezione "soltanto per", riguardo a quel momento.
Per un periodo - si grattò Feru - che è un periodo un po' così.
Si passò il palmo sul braccio nudo. Su un ritaglio di parete. E c’era sempre una muta continuità tra quell’intonaco, tra la sua pelle, tra i quattro angoli della stanza e il suo essere la stanza.
Il materasso sembrò deprimersi di ellisse morbide di vaniglia, e le lenzuola calciate via gli sembrarono riempirsi di qualcosa di rotondo, di buono, bello. Forse era il fagotto di camice e biancheria che già domani - da una decina di giorni - porterò in lavanderia.
Non era niente.
Nessun profumo.
Non c’è nessuna rotondità.
Una presenza gualciva il letto.
Ho nello stomaco un ché di amaro. Una amara nostalgia.
Feru sentiva i palpiti di un’emozione - provata quando, o provata per che cosa - che gli lasciava ancora la pelle calda e le tempie tambureggianti. Un’emozione un istante fa, un torciglio di emozioni, di sensazioni del corpo e dentro che stava ancora provando.
Era solo.
In un’assenza.
Non c’era niente che suscitasse quelle emozioni e gli bagnasse la pelle e il collo, non c’erano altre dita, labbra, lingua e gli altri denti.
Sopra il pianeta non c’è nessuno. Forse non c’era nemmeno lui.
Sbadigliò che due coglioni quando poltriva sul materasso. Quanto sudasse, ché si sudava, c’era da sciogliersi novembre tutto. Come ottobre è già colato e settembre è liquefatto.
Che mese siamo?
Scacciò il pensiero.
Guardò un magazine ingiallito sul comodino che aveva un lembo di copertina arricciato sulla data. Il duemilaventiquattro, era il numero di autunno. Quando ancora distinguevano le stagioni e ce n’erano tre o quattro. Mi sa tre, che ricordasse, era trascorso parecchio tempo. Nel duemilaventiquattro aveva avuto trentotto anni, e aveva scelto, deciso, fatto in modo o lasciasse che succedesse che restassero trentotto o che al massimo quaranta.
Non gli restava granché da essere e da dire, superati i quarant’anni.
Le circostanze lo favorirono.
Il mondo dopo non era più un luogo da ricordare e un tempo da trascorrere, e in effetti era un mondo che aveva tutto dimenticato e un tempo tenuto assieme con lo sputo e con lo scotch.
Negli spot e in hit parade, le sfilate, i documenti ufficiali, da che il clima era a puttane era restata soltanto "estate". Da boh? Dieci anni.
È che era estate.
Non era il clima.
È perché è estate, d’estate è caldo.
Sei noioso a lamentarti.
Sudi troppo.
Ch’è un disturbo.
Ma è normale: ci hai ˈn’età.
Hai chiesto a un medico?
Che cosa ha detto?
Tese il braccio a prendere la rivista e usarla per ventaglio. Lo scroccolare di quelle pagine di una carta di immondizia, con le foto scolorite della Aston-Martin e la Chastain che si alternavano alle rovine e bimbi neri di fame e mosche, lo lenì d’aria bollente ma che almeno si muoveva.
E gli parve tanto tanto da duemilaventiquattro lo sventolarsi con un tesoro della sua collezione che aveva pure pagato troppo nei mercatini dell’old-qualunque.
Lo definirono antropocene.
L’ho imparato su YouTube.
In altre ere geologiche, il mondo è esploso di vulcani. Alla fine dell’era antropocene, il mondo è esploso di gente e di cose buttate via.
This is the way the antropocene finisce: non con uno scoppio, con "rimuovi dagli amici". Con un "conviene comprarla nuova ché costa meno che ripararla", benché sia cosa intatta.
Collezionava qualsiasi cosa.
Collezionava riviste vecchie.
E le teneva a marcire lì per leggiucchiarle quel po' la sera.
Che cosa aveva letto, ieri, prima di addormentarsi?
Una copia di Calvino collana Struzzi degli anni Ottanta. Leonia. Le città incellofanate col cartellino del prezzo.
Continuava a sventolarsi.
Un pesciolino d’argento pallido gli cadde in fronte dalla rivista. Gli fuggì in faccia, strisciò sul letto. Gli morì sotto una coscia.
 
- Feru, ciao!, - l’amico lo salutò: all’anagrafe era Orfeo, naturalmente, ma Orfeo si spaccammerda la prima sbornia coi bro, lo cristi a calcio, te lo arrotondano le ragazzine sui diari azzurri di prima media e te diventi Il Feru:
- …ˈsto Orfeo sarebbe?
- Ma Il Feru!
- Lui, sì.
Gli sembrava fosse Il Michi
Si sedettero nell’ombra, ai tavolini all’aperto, e versarono le birre.
- Sto uscendo con una tipa, - disse Il Feru a Michele Il Michi.
- La tipa è figa?, - Michele chiese.
- La tipa è figa, secondo me. Mi piace, insomma. Mi piace tanto.
- Ci hai già scopato?
- No, dài. Sul serio. Sono serio.
- Scusa.
- Niente.
- Quindi è serio.
- Spero sì.
- Per te, per lei o ci credi solo tu?
- Mi sembra. Sì. Che è lo stesso per entrambi.
- Sono contento. Davvero. Dài. Non succede tanto spesso quando non siamo più…, - inghiotti giovani, soffiò ragazzi - Ci si prende una sbandata. Ma non sei il tipo da una sbandata, tu.
- Spero no.
- Mi fa piacere.
- Davvero. Grazie. Ma tu e Stefania?
Non conosceva ˈsta sua Stefania.
- Sempre bene.
- Bene.
- Bene.
- Dài, va bene.
- È un periodo che va bene.
Come c’era arrivato, ai tavolini all’aperto?
Quindi Il Feru stava uscendo con una tipa.
Poteva esserci stata quella tipa, allora, un quarto d’ora fa, che gli sembrava di ricordare ci fosse stato qualcuno, sul letto insieme a lui. Ci sarà. Tra un quarto d’ora, tra una cascata di settimane. E chi è questa ragazza, ché se n’era innamorato? Lo aveva, un nome? Com’era fatta?
Poteva essere sarà domani, se a Michele diceva di non averci scopato. Perché è quel genere di risposta che, purtroppo, ancora non ci hai scopato. Posi a quello che "è importante". Posi a quello che ci tiene.
E Il Feru ricordò che domani o forse ieri si era tolto o toglierà un profilattico dal pene. E che lo aveva lasciato in giro. Che certo è in casa, che sarà in casa, a putrefare da qualche parte. E che forse è ancora lì.
Qual è il suo nome.
Questo Michele: chi cazzo era?
E si sedettero a un tavolino all’aperto, nell’ombra, e versarono le birre.
Gli piaceva, bere solo.
Lo scroscio giallo di schiuma e malto gorgogliava nel bicchiere. Ai tavolini non c’era un’anima, solo le briciole e i pettirossi.
Feru guardò il quadrante dell’orologio di acciaio nero che luccicava nel sole esploso sugli abeti natalizi, sui poké di panettone, sulle lenticchie con il sushimi, sulle vetrine di quei negozi che esponevano bikini, creme, sandali e torroni sui manichini di renne ed elfi e gli obesi Santa Claus. L’orizzonte era marrone di immensi sciami di cavallette.
Era lì immobile a dire "bene", e versare la sua birra, dalle otto e quarantasei di una decina o vent’anni prima, e accettava un’ipotesi da youtuber ascoltata pochi giorni dopo essersi accorto dall’accaduto. Non ci aveva messo poco, ad accorgersi dell’accaduto: sai quanta gente, che ancora non lo sapeva. Non lo avrebbe mai capito, non poteva interessarla. Lui s’arrese - si grattò - che non aveva nozioni tali da formulare la sua teoria. Che non ne aveva nessun’idea. Né che avevano teorie le persone con cui parlava del meno e il meno.
Non restava un "più" di cui parlare.
Non restavano persone.
Quello, come tutti gli youtuber da YouTube di un certo tipo, indossava una camicia su uno sfondo di biblioteca. La palette di blu d’esperto su una luce da talkshow. Come tutti gli youtuber la barba bruna short boxed beard; con quel tono un po' alle strette tra conoscenti tipo "ammettiamolo, ma tra te e me".
 - L’industria del cinema e delle serie televisive ha prodotto davvero troppe storie su asteroidi che colpiscono la Terra: perché è improbabile che questo accada! Ai dinosauri però è successo, ed è successo a Tunguska.
Sullo schermo corse un insert T-REX LOOSER, e UNA SFIGA SIBERIANA su una foto di Lilin.
 - Però è successo, perché è statistica. Ci sarà sempre quel milionesimo, quel miliardesimo, quel trilionesimo di probabilità, - scandì l’esperto col dito indice da padroncina kawaii hentai - che qualcosa di incredibile possa accadere nella realtà!
Fece un gesto, su "realtà", come alludesse a un luogo, un buco.
- Quindi è successo, secondo me, sembra incredibile, ma è successo, che gli otto miliardi di utenti social in tutto il mondo - non solo utenti social: basta che usassero un cellulare - hanno tutti cancellato in uno stesso preciso istante un utente dai contatti. Non so dire il giorno e l’ora e il mese e l’anno com’è annotato sul Canzoniere per l’incontro con Laura…
Ma saran cazzi di questa Laura. che mi frega dei tuoi crush?
Lui però ci scommetteva i coglioni che era stato un pomeriggio, nel profondo pomeriggio, occhi chiusi da qualche parte in estate su un divano o su un letto di irrespirabile malumore. Su un lettino sulla spiaggia. Tra la gente evaporata. Poteva essere accaduto ora, stesse accadendo, continuerà. Poteva essere non accaduto; sia la nostra condizione.
Nel duemilaventicinque, gli sembrava fosse l’anno.
 - E se ormai vivono on line anche i boscimani della giungla…
Quali boscimani? Di quale giungla? Basta esserne convinti, si grattò Feru. Accettò d’esserlo. Convinto, insomma.
- … e se io ma in tutto il mondo cancello te, e se tu ma in tutto il mondo cancelli me… Ha innescato un processo. Le comprendete le implicazioni?!
Le hai capite, Feru, tu?
Gli sembrò semplice, poté anche essere: è quel giusto intelligente. E pensò che questo genere di fatti accadessero, da sempre, nel più semplice dei modi. Com’era semplice tant’è che è un meme invadere la Polonia, com’era semplice un esplosivo nella valigia appoggiata al muro ed era semplice centrare due grattacieli con aerei passeggeri.
-  Io non so com’è accaduto, - sorrideva lo youtuber - ma è molto facile, ed è così: esistiamo per istanti. Abbiamo smesso oggettivamente di esistere l’un per l’altro.
Su quell’avverbio batté sul tavolo come un colpo di mattone.
Era credibile, secondo Feru.
Ma anche tanto una cazzata.
- Iscrivetevi al mio canale!
 
Era il terzo appuntamento.
Si sfioravano le mani.
Gli aveva detto "ma sì, va bene" con un broncio incuriosito, s’era scrollata le spalle strette dalle abitudini e da luoghi soltanto suoi, dove a lui, per il momento, non ce lo aveva portato mai.
Feru aveva allora questo sogno tormentoso, triste, amaro, somigliante alla realtà, di lei su un treno con un’amica che le chiedeva "com’è com’è":
- Sì, è simpatico, è carino, sembra preso, ma…
- Però?
- Dice bello un po' di tutto. Poi si stringe nelle spalle, e si gratta. Non gli interessa davvero niente. Finge che questo lo ha letto, visto, l’ha già ascoltato: ma tempo fa. E va a googlare subito di nascosto convinto che non mi accorga. Ogni volta che lo incastri in argomenti importanti va a linkarti questo video o quest’altro video sul web. E non parliamo di interviste a Umberto Eco, eh?
- Cos’è, un coglione?
Feru, allora, in questo sogno, era seduto nel sedile proprio di fronte ˈsta amica stronza, o al posto dell’amica, e si guardava seduto zitto di fronte a sé come capita nei sogni.
Per qualche istante lo sorprendeva la deduzione che di fronte all’amica, prima, aveva visto seduta lei. E che quindi nel sogno era sé stesso, lei, l’amica stronza.
Ma nel sogno non era mai a bordo di questo treno: era altrove, ricordava all’improvviso di avere un treno che parte che non avrebbe potuto prendere.
Si svegliava e andava al bagno.
Gli scappava da pisciare.
Era il terzo appuntamento, se contava le due chat.
Sprovveduta a accompagnarlo nel magazzino dismesso. Beh, ma almeno di è fidata. In una fabbrica abbandonata di qualche oggetto dimenticato.
Quando aveva ancora in corpo qualche decilitro di fantasia, quando aveva ancora in bocca romanzi nuovi, film buoni nella pelle, Feru si immaginava un sottoterra affollato sotto metri di semafori lampioni e rotatorie, sotto il peso di interquartieri di notte e le rovine dei ciclopici multisala. Vedeva scheletri con i gettoni per il telefono e gli scheletri con sturalavandini, vedeva scheletri con copertoni di bicicletta e componenti di scaldabagno, vedeva i morti seduti chini ai telefoni a rotella che attendevano dai morti interurbane costose, e nel frattempo scarabocchiavano d’inchiostro azzurro d’una Replay una rùbrica ad anelli su un centrino di vimini. Vedeva scheletri che nel marsupio conservavano musicassette dei loro giorni, ma non trovavano, tra le radici d’ortica, dei mangianastri per ascoltarle. Si sgretolavano di quel silenzio sotto le fabbriche abbandonate di mangianastri, rùbriche, Replay e telefoni a rotella.
Il parcheggio andava in fumo sotto i raggi di settembre, la gramigna accartocciata negli incendi già di maggio.
Fermò l’auto a pochi metri - meno metri che riuscì - da uno striscione di pvc liquefatto con una macchia di scritta rossa MERCATO VINTAGE: da venerdì.
- Apro. Pronta?, - le sorrise
- Pronta.
- Andiamo.
La portiera si richiuse con un clicclak. Con un bip. Il sole bianco li azzannò entrambi. Il calore li ferì. I capelli - biondi e lunghi - le si scioglievano sul viso pallido. Feru suppose che se era stato con lei, se ne era innamorato, dovesse essere bionda e pallida. Lo innamoravano bionde e pallide.
- Quanto cazzo scotta, cazzo!, - scatarrò.
Non doveva essere bionda. Non doveva essere bianca. Bestemmiò che "brucia, cazzo!", lui fece finta di non soffrire.
Di non soffrire per quel calore.
L’uragano d’aria fredda dagli impianti sull’ingresso, che ululavano diciotto gradi di gelo chimico maleodorante, asciugò loro il sudore dai vestiti e li morse alle budella.
Il mercato era disposto in lunghe file di banchi sotto le volte di ferro ed eternit del capannone dismesso. Le colonne portanti, scartavetrate dagli anni, li fissarono di spettri di meteorine da calendario, che un’antica umidità aveva impresso sul grigio intonaco. Sul soffitto un planetario di cacate di piccione, che dormivano grugando sulle travi arrugginite. Metri sotto, col rumore, la nube mandorla delle e-cig, e un vapore di vaniglia di lampone e caramello.
Lui le indicò che c’erano i floppy coi cd-rom, i vinili, i vhs, le riviste, i libri, i poster, i vestiti, gli accessori, i giocattoli, i pezzi di arredamento, le automobili, gli scooter, le illustrazioni, i dipinti, gli skateboard, la militaria, gli accessori per lo sport, i veri panama e Borsalino e le moto lucidate. E che era tutto così materico, e glielo disse con voce rotta.
- Per me è uguale, - rise lei - sembra tutto divertente. Tu: che cosa ti interessa?
- Mi interessa un po' di tutto.
- Cosa cerchi?
- Un po' di tutto.
- Va bene, allora. Da che cosa incominciamo?
Ma saranno cazzi miei!
Non ricordava che fosse oggi e che fosse venerdì, non ricordava di aver deciso di passare al mercatino: si ricordava di aver deciso - perché era caldo - di non decidere. Come ho fatto ad arrivarci, con ˈsto sole, lo sa dio. Ci era andato per inerzia. Però dài: non era un male. Far quattro passi per conto mio. Gli piaceva trascinarsi tra quei banchetti deserti senza nessuno che due coglioni che gli sbuffasse di fianco: se si ingobbiva per qualche ora su espositori di vecchi zippo o le fibbie di cinture o le tastiere dei Commodore. Gli sembrò che una figura gli respirasse di fianco, che i capelli biondi e lunghi gli sfiorassero le gote, che si chinasse con gli occhi accesi su collezioni di soldatini, di albi Marvel, la Bonelli, raccoglitori di carte Magic. Che frusciasse tra i jeans lisi, le hawaiane scolorite, i grattapane, formaggi e scorze e i biroccini di legno, cuscinetti e di corde. Che si specchiasse nei serbatoi ma non avesse nessun riflesso. E che lei gli domandasse "che cose’è", "a che cosa serve", e chiedesse di spiegarle.
Ma lei chi?
Non c’era un’anima.
Nessuna voce.
Che nostalgia.
Gli ambulanti fumavano in canottiera e camicia dietro un baleno d’occhiali a specchio e i cappelli in paglia e stoffa. C’era quella che "mio dio ˈst’aria gelata m’uccide", e intirizziva con un piumino e le ciabatte sui piedi nudi. Non sembravano diversi dai cartonati di Jerry Scotti, Zlatan Ibrahimović, la Canalis, Daniela Goggi e gli Space Marine messi in vendita coi manifesti Il nemico ti ascolta!, la Hunziker del sedere, il sedere della Hunziker e i poster elettorali della antica D.C.
Scelse infine due sorprese di Ovetti Kinder che ricordava di non avere, ma avere doppie non dispiaceva. Una rana e un coccodrillo. Non costavano poi troppo. Una gomma ottagonale per inchiostro e una scatola di Greci e di Egizi della Atlantic. Un diario intonso da paninaro. Una lattina di Pepsi Cola dello spot con Cindy Crawford e un pacchetto di Brooklyn al gusto liquerizia.
 - Le tenga in frigorifero, - gli disse il venditore.
Il giocattolo Simon lo vendevano a un po' troppo: era scheggiato sul tasto verde. Ma chissà che un’altra volta non lo avesse più trovato. È da prendere, decise. Il totale lievitò. Contrattò un numero di "Panorama" per arrivare alla cifra tonda: l’ambulante lo convinse che soltanto altri cinquanta e si sarebbe portato a casa anche un cono di plastica segnaletico per lavori sull’autostrada.
- Cosa avrebbe di speciale?
- Che l’ho trovato in un’alba livida di domenica e non d’estate su una statale di vetro e carne, di lamiere rivoltate. Doveva essere il ˈnovantuno. Quei tristi sabati delle stragi.
Lui pagò.
Vale la pena.
Allontanandosi guardò quell’uomo in piedi alla bancarella da una buffa prospettiva: era davvero il tipo di ambulante che ti aspetti di trovare a un mercatino del vintage. Ed era veramente bidimensionale.
- Ma compri tutto?, - gli chiese lei.
- Mi dai una mano?
Imbustò il cono.
- Sei compulsivo.
- Che esagerata.
Quella notte avrebbe detto all’amica stronza, in treno, che era anche compulsivo.
Sedette solo nell’automobile con gli acquisti sui sedili, per non perdere altri frammenti di tempo e pezzi di realtà. La sua infanzia, adolescenza, e il tempo che lo aveva determinato precedente la sua nascita - con i brandelli che aveva in casa ordinati nel garage, recuperati nei mercatini, nelle fiere e su internet, soffiati ai fessacchiotti o comprati per un rene - prima o dopo sarebbero tornati veri.
Anche lei doveva essere da qualche parte.
Lei chi?
In qualche scatolone.
Guardò la fabbrica, il capannone, che si dissolse sul parabrezza. Restò lì a motore spento nell’abitacolo soffocante.
Ma che cosa ci faccio, io qui.
Mise in moto, è ingolfato. Si è scaricata la batteria.
La Toyota senza ruote e senza interni arrugginiva nel campo brullo sotto un cielo blu ottundente.
 
2.
Questa volta avevano vinto Loro, Quelli delle scie chimiche, Dice sospirò.
Guardò il paesaggio strapparsi ai lati dal finestrino del Frecciarossa.
Guardò campi e casolari lacerarsi nel passato, guardò una lepre correre in un campo e una donna senza faccia su un sentiero parallelo la ferrovia, disintegrata nel color ocra uniforme che evaporava nell’ululato dietro l’ultima carrozza. Guardò un canale contorcersi nei chilometri e annodarsi in acqua sporca sotto un ponte d’autostrada. Guardò gli uccelli sull’autostrada. Restò la lepre: la sentì correre accucciarsi rodere dietro le palpebre e dentro le pupille, tra le bestie come i ragni, i millepiedi e le serpi che si insinuano dal sonno su un cuscino sprimacciato.
Quella notte, addormentata, avrebbe urlato su un letto buio, perché qualcosa che ha quattro zampe starà grattando tra le lenzuola. È per la lepre che hai visto oggi. La cosa al buio non è una lepre.
Guardò i larici e le querce scarabocchiate su un sole bianco, i tetti arancio strisciati in cielo e le automobili rimpicciolire. E il cielo cerulo color corpetto di Lady Oscar era, infatti!, scarificato di scie. Aeroplani luccicanti non ne aveva mai veduti, quelli che eruttano dagli ugelli le schegge atomiche di argento vivo. Ma si sa che quegli aerei decollavano di notte, le ore attonite e più nere che precedono l’aurora: in cui la gente non può svegliarsi perché Quelli lo impongono con le scie chimiche, Loro. Quelli che spargono le scie chimiche perché noi non ci accorga che hanno sparso le scie chimiche. C’era il fatto che anni fa - dovette essere lo stesso giorno di uno sciopero dei treni, di un disastro ferroviario. Nel duemilaventicinque - quando ormai non si parlava, non ci credeva già più nessuno, si erano tutti dimenticati del problema delle scie chimiche, Quelli, Loro, i responsabili delle scie chimiche, miscelarono il gas nervino all’argento in percentuale sperimentale. C’era il parere che "per errore", c’era un’ipotesi che "scientemente": per Dice era "apposta, ma gli è sfuggito di mano". Come in tutti i film di fantascienza dal Covid diciannove a quelli diretti meglio.
Si svegliarono un mattino, al ritorno degli aerei, che il gas nervino aveva tutti cancellato tutti dai mattini di tutto il mondo. Mica uccisi, cazzo, no: era un fatto neuronale.
Ora gli aerei arrugginivano su una pista, si diceva, con gli ugelli che bruciavano d’argento sotto il sole stretto in gómene di fumo.
Perché non c’era un’umanità su cui protrarre l’esperimento.
Dice avrebbe infatti senza dubbi scommesso che era salita sul Frecciarossa che saranno dieci anni, che non era mai partita, che non si erano fermati mai, non ricordava da dove a dove. Né aveva voglia di frugare tra le sue cose e trovare il cellulare, ricordarlo su una app.
Le piattaforme delle stazioni si sbriciolavano nella corsa, cartelli azzurri di luoghi in bianco sotto tettoie con orologi. Turuntutuntu turuntutu che forse è il cuore, ma forse è il treno. Le ballerine di pelle rossa, sul tappeto di linoleum, attutivano ai piedi il sesto senso ferrato. Il rasoio del mattino le indugiava sulla pelle, le socchiudeva di lampi gli occhi, luccicava sui capelli. Il suo riflesso, sul finestrino, era già meglio della sua faccia.
Nel vagone era sola in una luce d’arancio elettrico, e il ronzio dell’aria condizionata le lasciava immaginare temperature di un mondo antico. Un pianeta di tè caldo e faraoni con il k-way. Lo aveva visto su Focus Channel con California Nordsmen, una serie in tre puntate sul beachvolley tra i vikinghi. Ívarr Ragnarsson, Halfdán e Guthrum con i boxer d’orso e capra. La Scandinavia del Nono Secolo molto più torrida di quel ch’è ora, spiegavano gli storici.
Si sta freschi, adesso, al mondo, a sentire la TV.
Le scie chimiche, per altro, le facevano ribrezzo. Perché è qualcosa che striscia e sopra, le facevano paura. Solo questo le spiegava come tutto era accaduto, e perché il treno non si fermasse perché era bordo né si muovesse. La carrozza era deserta. Sospettava le scie chimiche da quando era quattordicenne, quindici, o giù di lì; quando il mondo, i genitori, gli insegnanti e assessorati s’erano accorti da un giorno all’altro che era tutto cancerogeno.
Anche noi, cancerogeni l’uno all’altro.
Doveva essere accaduto questo. Era un’ipotesi persuasiva. La aveva letta su un vecchio magazine sul comodino di un suo ragazzo.
Prima o dopo una scopata?
Con cui stava.
Quando mai.
- Lui com’è?, - insisteva Laura.
- Compulsivo.
- Spiega.
- Beh…
- Ma ti ha chiesto cose strane?! A letto, intendo: ci ha delle fisse?!
- Non ci sono andata a letto. Forse no. Una mezza roba. Ma ti pare di parlare dei cazzi nostri, - disse Dice a labbra strette - ché è pienopieno di gente?!
Un omone strinse Laura su metà del suo sedile, chiese ansando "scusi, ma", si sfregò la faccia rossa, buttò i bagagli nel vano in alto tra le valigie pericolanti, pelle e resine cozzarono in un’eco "quella è mia". Tra i sedili crebbe un tronco attorcigliato di passeggeri magliette fradice essenze alcoliche di deodorante, auricolari che pencolavano zaini rotti e trasportini. Lei sbottò "ma anche checcazzo" ad una Samsonite sulla testa. L’omone madido tornò a sedersi. Aprì il piano-tavolino. Posò una bibita, la guardò. Scosse. Tornò a metterla in valigia. Chiuse il piano-tavolino. Aprì il piano-tavolino. Cavò di tasca dei fazzoletti di carta e li aprì sul tavolino. Accese un tablet sul tavolino. Un bikini bianco e rosso che indossava una ragazza si chiuse aracnide di fianco a lei con le Sneakers sul sedile. Continuava a messaggiare.
- Giù quei piedi, per favore, - il controllore gli disse stanco. Passò blu scuro con gli occhi bassi tra i cespugli di persone.
Il bikini schioccò carne e tinnì di collanine, gli arti pesca depilati scricchiolarono distesi. La ragazza succhiò "ˈpppalle" dalla cannuccia di un tetrapack, le si distese ringhiando sopra fino alla scatola per i rifiuti. Ritornò a tarantolarsi. Con i piedi sul sedile. Il tictac della tastiera. Gli occhi bianchi sullo schermo. Il bikini aveva in seno un biglietto per Bologna, accartocciato tra sterno e costole sotto l’elastico della ragazza.
- Sai che mi frega? Chi ci conosce?
- Mi frega, invece.
Alla luce calda e piatta che la investiva dal finestrino, Laura era impressa come il logo Trenitalia sulla stoffa grigioperla del poggiatesta increspato. C’era un cristo di casino. C’era un bimbo che strillava. C’era un nero al cellulare che piangeva palatali. C’era un romanzo meridionale tra due sorelle che "tu capiscimi", e il ticchettare di un apparecchio per il telegrafo nella scheletrica conversazione tra quattro uomini del Nord Italia, con i tamashi con cui li avevano seppelliti attorcigliati sui polsi bruni tra gli Zenith e i Bulova. Dice spiccò qualche parola da ognuno: ne fece un mazzo di consonanti, vocali e esclamativi verisimile a un discorso tra i discorsi dell’amica. Turuntutuntu turuntutuntu turuntutuntu turuntutu.
- E lo sai invece chi ho rivisto?!
- Non mi avevi chiesto di?...
- Non l’ho rivisto: bugia, bugia. Ci siamo risentiti. Mi ha beccata su Twitch, "che è il socialnerwork dei vecchi", dài, lo so, - ruotò le orbite Laura - ma non rompermi i coglioni. Siamo vecchie. Tu, sei vecchia.
- Non ho detto mica niente.
- Aripastori delliceoclassico!, - squillò Laura diciottenne: non le sembrava cambiata un pelo, stessa gonna e stessa frangia.
- Arichiscusa? Non ho capito.
Il passato era zippato nel carattere di Laura in modi d’essere e di pensare che lei, adulta, non sapeva estrarre più. Dice in quell’istante si sentì mamma decenni prima, è un ricordo sempre strano: le tolse l’iPhone, sbirciò una chat, glielo rese zitta e ottusa.
- Mi fido, Dice, mi raccomando.
Nelle sue mani il lucente Apple mutò in cera cuneiforme.
 - Ma Aristide Pastoriii! Ariii! ˈSteo, delliceoclassicooo!
Riferendosi a quegli anni - casomai fossero stati anni trascorsi, non trasmessi e sparatisi in maratona sotto un cielo nuvoloso di metallo e gas nervino - non diceva "anni del classico" o "gli anni del liceo": erano gli anni delliceoclassico, non c’era vuoto tra le parole. Un inconcusso parmenideo quale ti inculcano alliceoclassico. Una creta che è seccata, ed era creta dei labirinti. Laura era immobile in quel granito di tempo, era impressa in quei gradini, quell’intonaco, quei vetri; un fruscio di dizionario in un silenzio di tema in classe.
Sui registri dei docenti Dice allora era Euridice, laprofdilettere delliceoclassico le diceva "che bel nome!". Euridice non è gossip da sussurri con le amiche, sere insieme in pigiamone con la moka e una cannetta. Euridice fu La Dice da abbracciare forteforte.
Alliceoclassico c’era ˈst’Aristide - nome da nonno che è magistrato:
- Me lo ricordo, - non lo ricordo - ti piaceva. Ci sei stata.
- Mi piaceva. Stata no.
- Ci sei stata.
- No. Un pompino. Ma non ero proprio dritta.
- Cosa ha detto? "Ciao, ricordi? Sono quello del pompino".
L’omone madido le guardò rosso con gli occhi sferici ad autoclave. Laura le piantò un calcio cattivo negli stinchi.
- Ma qui in mezzo a tanta gente?! Sei ˈna stronza!
- Sei tu che…
- Dice che segue la mia rubrica…
Perché, Laura ha una rubrica?
- … e mi ha chiesto: sarai mica quella lì? Sìii! Pensa che storia! Dopo in pratica trent’anni! Cosa fai, cosa non fai… -
- Cosa fa adesso Aripastori?
- Ha fatto legge.
Ma vaˈ.
- Avvocato?
- Azienda agricola.
- Che cazzo c’entra?, - Dice ridacchiò.
- Si è messo in gioco. È uno di quei ragazzi che ha abbandonato Milano per ripartire da contadino. Aripastori fa il contadino ma te lo immagini?! Ci vuol coraggio!
Disse "ragazzi" poi "contadino", a proposito di lui, con la bocca piccolina come la cruna di un ago piccolo, come pronunci e ti intenerisci per il nome Pikachu. Milano era per Laura il quartiere del pensiero in cui Fedez si sposava con Clark Kent con il cappello, e la Ferragni si trasformava nelle cabine del telefono. Ci sono ancora? A Milano sì. Disse un "coraggio" d’ottone e acciaio come un assalto napoleonico.
Il Frecciarossa percorse campi che diventavano color carne, sotto graticole di scie d’argento in un mondo a Ferragosto. Aripastori doveva stare al volante del trattore come allora stava birro sul manubrio del suo Kymco.
Io mi ricordo di quella merda.
- Niente: adesso ci vediamo. Questo fine settimana. Ma un caffè, niente di ché. Non voglio mica buttarmi via.
Dice voltò la pagina della rivista di Trenitalia patinata delle promo di Lancôme e della Revlon. Ma truccate da articoli sul make-up dopo i quaranta. Quali nuance quali prodotti se è di giorno o se di sera, nel carota bruciaticcio del pianeta dalle 09.00 alle 21.00. Tempo di lettura: la durata del tuo viaggio. Gualcì il volto cinquantenne, pitturato dell’amica, che sorrideva di un riso Rotary con un rossetto da Confcommercio, borse Soroptimist sotto gli occhi e blush baby ed albicocca. Quei fondotinta dei conviviali con lo spumante dei Colli Albani. Quelle zampe di gallina ai davanzali delliceoclassico. Quelle rughe nelle aule, "ma però una bella donna". Gettò il giornale e sì Laura ciao e resto sola lì in fondo all’autobus.
 
L’autobus fermò.
Dice sbuffò dei libri che le pesavano nello zaino, infilò il giacchetto jeans sopra il top a righe blu. Gli skinny azzurri la torturavano di segni rossi sul ventre. Il cilicio della colpa di non avere più quindici anni.
C’era ancora aprile e maggio, non agosto tutto l’anno: o "la prima settimana del febbraio di agosto" come per esempio trovavi ora sulle agende e sui contratti. Era l’ultima di maggio. Ma fa già parecchio caldo. Non ricordava che il vomere degli aeroplani rivoltasse il cielo terso di vapori di plutonio.
- È un bel periodo, per il papà. A papà l’hanno promosso. L’hanno fatto dirigente. Come i padri dei notai, magistrati, i farmacisti. I papà dei tuoi compagni. Starai in meglio, in classe, adesso.
Mamma pianse. Luminosa.
Da che indossava gli skinny azzurri, con l’aumento di papà, tra i banchi in fondo si sussurrava che La Dice ci ha un bel culo. Gran bel culo, ci ha La Dice.
Ce lo aveva anche La Laura.
- Ma vuoi mettere La Dice?
Ce lo aveva dal ginnasio. Ce lo aveva pure meglio. Ma solo in terza con papà manager era assunto al cielo culo.
- Basta, stare in questa casa. Un affitto in condominio.
Sotto un sole ancora bello edificavano quartieri nuovi. S’erano fatti una casa nuova intestata a te e papà, aveva pianto la mamma.
Case nuove col giardino in mezzo un niente di ortiche e asfalto.
La città non tiene il ritmo degli aumenti dei papà.
Sfilò accaldata il giubbotto jeans. Lo legò attorno alla vita. E per istinto lo arrotolò sulle natiche attillate per mostrare bene il culo, mi sento in colpa se non si vede - la ossessionavano e la accusavano quelle vocine dai banchi in fondo. Glielo devo, il mio bel culo. Lo doveva a suo papà.
Quattro chilometri di ortiche a piedi tra la fermata e la casa nuova.
- Faranno un parco, qui, tra un anno al massimo.
E poi nel parco si drogheranno, sarà un parco merda & negri.
Annodò la maglia a righe sotto il seno micamale
- Quanto avrà, la terza o quarta?
- Non ci avevo fatto caso, - la misuravano dai banchi in fondo - ma La Dice ha belle tette. È un bel paio di boranghe.
Ho la quarta dal ginnasio. Ora, aveva solo due zeri in più sui capezzoli appuntiti. I due zeri di papà. Aveva l’acne, ma non la aveva.
La solitudine d’asfalto e d’erba la stordì d’auto lontane, il ronzio degli autotreni incolonnati su una Statale. Voli obliqui chitinosi di cavallette e di coleotteri, le cavolaie si innamoravano sulla prurigine dei fiori viola.
Era un cardo.
Camminava.
 - Cresci dritta come i grugni, - le dicevano, da bimba, infiocchettandole le trecce bionde.
Sentì un motore.
Chiamarla.
Un fischio.
Nell’aria tremula alle sue spalle si addensò una mietitrebbia.
L’acciaio lucido della testata, delle lame e il battitore si stondò in un serbatoio e la carena di un grosso scooter. ˈSteo Pastori cinquantenne ringiovaniva sgasando duro, la faccia stronza arrogante e bella tutta imperlata di mezza età.
Le frenò accanto.
Non tolse il casco.
Specchiava il cielo nei Gucci verdi.
- Vai a casa?
- Vado a casa.
- Vai a piedi?
- Vado a piedi.
- Sali dàì. Ti do un passaggio.
- Grazie, ho voglia di camminare.
- Salì dai. Ti do un passaggio. Fa un caldo boia, ti stai sciogliendo.
- Ci vediamo.
- Sali, dài.
- Ci vediamo domattina.
Scese lui. Lasciò lo scooter cadere spento tra i tarassaco ed i sassi, si slacciò il casco, cavò gli occhiali. Sudò più forte, le fiatò in faccia.
- Volevo dirti che sei carina. Dài, lo sai che lo pensiamo. Tutti, in classe. Siamo sinceri: sei proprio fica.
Senza occhiali e senza casco assomigliava al bambino Kinder. Le sembrò dicesse "fica" la prima volta da adulto.
- Ciao, Pastori. Io sto là, - indicò casa di suo papà semisepolta nel vuoto brullo.
Aripastori le afferrò il polso, le ghermì il collo. Le forzò la mano al cazzo. Lei sentì il turgido di carne e fame che gli pulsava nei pantaloni. Già appiccicoso, già puzzolente. Le infilò le dita bianche nella patta sbottonata. Toccò il pene nero e corto. Lui le scese dalle spalle fino a stringerle le chiappe, si infilò in un porcodio nella tela e negli slip. Lei sentì il cane sulle sue forme, sentì i denti nella carne, soffrì il sudicio e le unghie sulla pelle e sulle curve. Le lasciò il polso, strisciò alle tette, strinse "che pere che pere cazzo", frugò l’intimo e la maglia più infoiato dagli strappi. Lei sentì quelle tenaglie che le facevano male al seno, e sentì il braccio sudato ruvido che spingeva fino al ventre. Sentì un bottone saltare via e lo vide scintillare tra le lucertole, sentì una mano graffiarla in basso, l’alitosi, la pretesa, sentì ansimare "puttana troia" sentì un’unghia sulle labbra. Sentì il male tra le cosce e sul clitoride inaridito. Lui grattò il pelo, cercò la fica, aprì le gambe a brandire il pene e i testicoli rigonfi, "mi esplode il cazzo, mi esplode il cazzo!".
Lo colpì dritto alle palle.
Forte
Ancora.
Poi lo stomaco, le reni.
ˈSteo Pastori si afflosciò sul motorone rovente. Urlò bruciato " ˈaffanculo stronza!", gemette subito "ohccristo, scusa… Non lo so che cosa ho fatto… Non lo so cosa m’ha preso. Stacci, Dice, per favore. Sai che Laura me l’ha data? Ma restiamo solo amici…Qui, un minuto… chi ci vede? Da animali sulla terra."
Le faceva male tutto, le venne il vomito, crollò in ginocchio. Inghiottì catarro e vuoto, sentì le viscere attorcigliate, gelide, trafitte. Si sentì disintegrata, si sentì il corpo essiccato e rigido. La realtà era liquefatta, la confondevano le vertigini. Lui tese la mano a sfiorarle una caviglia. Con la bocca ancora bianca di saliva e la faccia viola gonfia come il glande che pulsava.
Dice si rizzò in piedi per la paura, per il ribrezzo, guardò lontano nel niente torrido alla casa di papà. Le mura esterne ed il tetto rosso le ingigantirono d’un tratto addosso. C’era mamma, sul balcone. Che doveva avere visto. Doveva averla sentita urlare e sentiti i suoi grugniti, di quella merda di ˈSteo Pastori.
- È un bel ragazzo. Ma ti fa il filo?, - le aveva chiesto già quattro volte.
Mamma annaffiava le violette sul balcone. Coi guanti in lattice e le cesoie coglieva gerbere da centrotavola.
Piangeva luminosa.
Lei corse gridando sul rettilineo d’asfalto e sole, si sentì mancare il fiato, continuò, gridava, corse. Finché le gambe si frantumarono di dolore e repulsione, finché Pastori sembrò scomparso nella striscia di antracite.
Cadde al suolo.
Sulle ortiche.
Che non le fecero altrettanto male.
Aprì gli occhi al cielo ferro luccicato di aeroplani. Una scia chimica le strisciò sopra.
Doveva esserle accaduto questo.
 
3.
Se n’era accorto dieci anni prima, e alla fine si convinse che non fosse un’impressione. In ufficio, in un cassetto, trovò un metro retrattile in alluminio, lo mise in tasca, lo portò a casa, lo tenne in tasca, lo portò ovunque:
- Ma a che cosa ti serve?, - gli domandavano.
- Può fare comodo: - non spiegava a che cosa tornasse utile, un metro in alluminio, per esempio a farsi un aperitivo o una sera in pizzeria: lo guardavano un po' sbieco, la risposta li turbava. Non è mica un cacciavite, che ci ammazzi una persona… ma l’effetto era lo stesso di un ombrello in chirurgia; si inventò la balla nuova che "non so: è rimasto in tasca"; la conseguenza fu che pensarono che avesse sempre la stessa giacca, e gli stessi pantaloni, da almenocirca sei mesi, nove.
Lui, che invece si cambiava ogni madide quattr’ore le Moorer bianche modello Larrie e i boxer Calvin Klein.
Con chi godeva gli aperitivi, con chi usciva per la pizza? Chi lo schifava arricciando il naso per i Denim scoloriti? Erano solo ossessioni sue, la giornata era deserta.
Provò a nasconderlo, ma il metro ha un peso, un volume, una forma, sbatacchia in tasca col cellulare e le chiavi e "cos’hai li".
- Ma niente, un metro.
- Perché ce l’hai?
Si stringeva nelle spalle, "senti, invece: parliamo di"; sapeva fingere che gli urgesse un documento o i gol di campionato o la figlia di un collega, che era a casa con il Covid:
- Ma adesso ha febbre?
- Sta meglio.
- Bene.
La sua voce si spegneva tra i locali dello studio.
Finché finiva in un ripostiglio, un androne o la toilette e tirava fuori il metro.
Per misurarsi dal ciuffo biondo alla punta delle Tods.
La cifra in rosso sull’alluminio era sempre centottanta, il nastro giallo tagliente elastico tornava a avvolgersi con un clac. Centottanta, settantotto, sì; ma insomma siamo lì. Gli pulsava il pollice sulla sicura e già che c’era svolgeva il metro la volta ancora, dalle Tod’s fin i capelli, dai capelli alla tomaia.
In ufficio andava spesso, sempre, nello stesso magazzino, lo stesso bagno, la stessa fila degli armadietti. Con i denti di una chiave segnò una tacca su una parete, sullo zinco, il tanganica: ma invisibili, "per caso".
- S’è graffiato, vaˈ a capire…
C’era sempre un’africana, cingalese con il mocio da disprezzare che "capirai! Quando puliscono, quelle lì, fanno solo dei gran danni! Guarda lo stipite, com’è graffiato!"
Sempre intaccato alla stessa altezza.
Sei volte al giorno per tutti i giorni.
Ma non era mica vero.
Forse è il mondo, che…
Può darsi.
Prese a nascondersi per misurarsi fino ad otto o nove volte.
- Ma che hai, ti fai le seghe?!, - disse un collega alla fine, serio.
Preferì dire di sì.
Ma non era mica vero.
La questione era che il mondo diventava gigantesco, o che lui rimpiccioliva, era così: non importavano i centottanta o settantotto sul metro e il muro; anche il metro era sbagliato, anche il muro era sbagliato, doveva essere sbagliato tutto.
Non aveva dei colleghi.
Se ne era accorto dieci anni prima.
Era stato un martedì.
Quando uscì, Arianna della reception non lo aveva salutato. Ma anche lui faceva sempre una certa difficoltà, a ricordarsi di Arianna:
- Arrivederci, signora Arianna.
- Arrivederci, signor Aristide.
Non lo aveva salutato. Non lo aveva proprio visto. Gli venne incontro un tizio sul marciapiede e lo urtò e non disse niente:
- Scusi, sa?, - non disse niente. Come lui non esistesse. Con il suo Cleofe Finati grigio contro lo sporco degli edifici.
Tirò avanti in una strada, all’improvviso deserta, luccicante d’auto e scooter parcheggiati nel calore.
Su di lui bruciava bianca la facciata dell’ufficio, finestre a specchio per trenta piani si dissolvevano nella lattigine.
Sarà stato che era esausto, o che oggi mi hanno messo un po' troppo sotto; la tentazione di un cambiamento gli prudeva sempre più dietro la fronte, affiorava dal sudore, gli macchiava le camicie: ma all’improvviso la strada vuota gli apparì un po' troppo grande, soffrì vertigini di solitudine. Si sentì più piccolino.
Non mi sento granché bene.
La voragine enorme della metro, che si apriva a fondo strada con un alito di gomma, lo atterrì di scendere quelle scale per attendere al binario un treno urlante nei tunnel bui, sotto le volte di acciaio nero per quei chilometri sottoterra. Sentì i risvolti dei pantaloni che gli scendevano sotto i tacchi, sentì i lembi della giacca arrivargli alle ginocchia. Sentì le maniche liquefarsi alle dita e sentì la città intera pesargli sulle spalle, già un po' curve, sono goffo. Si sentì un ometto basso.
Aripastori delliceoclassico che era stato un ragazzone!
Farla a piedi non esiste, con ˈsto caldo.
È da sfigati.
Chiamo un taxi.
Chiamò un taxi.
 
Suo papà fermò solenne l’Audi nuova blu-potere nel piazzale antistante illiceoclassico, che ancora era ginnasio.
- Quello è il padre di Pastori, - salutarono i compagni - che è magistrato - dissero, e il mondo era al suo posto.
Lui salì pallido, zitto e spaventato sul sedile del passeggero.
Suo papà lo guardò mite, quasi più cerulo, un po' sudato, e gli chiese a mezza voce che cosa fosse successo:
- La preside mi ha detto, al telefono, che era meglio mandarti a casa, e sono subito venuto a prenderti: stai bene?, - disse "bene" in maiuscolo miniato, come un incipit di Bibbia in un codex medievale, - sei svenuto? Hai vomitato?
- Mi è girata un po' la testa. Credo d’essere caduto.
- Sei bianco morto.
- Non respiravo.
- Ti sei ferito?
- Ferito no.
- Hai avuto un po' paura.
E non era una domanda.
La paura ch’io non fossi.
Di non essere nel mondo.
Come il gioco da bambini, per gli idioti e scimpanzé, di non essere capace di infilare la formina, non riuscire a indovinare le caselle delle cose.
È stata allora la prima volta: ero ancora quindicenne.
Quando uscì dalliceoclassico era un nume da versione: dovevi averci a portata il Rocci, per ardire di parlargli. Fica e calcio, Gucci verdi, Febo Apollo sulla pelle. Lo assordavano i motori, il rumore di sé stesso.
Ma è successo ch’ero un poniaz. Ero ancora un ragazzino.
- Tutti gli altri, papà, hanno smesso di esistere all’improvviso. Li sentivo urlare tutti. Ma non c’era più nessuno. Ho smesso anch’io di esistere per tutti gli altri? La profdilettere mi ha detto che un antropologo ci ha scritto pure un libro, su quello che è successo. È un fenomeno primitivo, che si chiama olonismo. La profdilettere mi ha detto, anche, potrebbe essere una fobia. O il panico, lo stress. A quindici anni ho lo stress e il panico.
- La prof di lettere che cosa sa?, - papà rise - è di sinistra. La vuoi sapere la verità? È che il vento ci porta le radiazioni da Černobyl, quattordici anni di radiazioni, durerà migliaia d’anni. È già scritto nel Vangelo: "il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque.  La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare". Sai che vuol dire, in ucraino, Černobyl? Guarda sul dizionario.
Vuol dire "assenzio", scoprì sul web.
- Non hai niente che non va, siamo tutti avvelenati: sono stati i sovietici.
Papà gli accarezzò i capelli crespi che si scurivano, ma sulla fronte orgogliosa e bella sarebbe sempre restato biondo. Un mattino luminoso si specchiava sulla Audi; incrociavano persone che salutavano "buongiorno, giudice".
- È mio figlio, lui, - papà diceva. Come Ettore e Astianatte, traducevano sul Rocci, - non ha niente che non va: sono stati i sovietici.
Cinque anni dopo per esempio toccò La Dice perché era avvelenato, come tutti, come lei: per colpa dei sovietici. Quando in classe venne in bocca Alla Laura impasticcata, e La Laura gridò che "è amaro, stronzo!", come un terzo delle acque, iproff, lapreside e suo papà non si sentirono di sospenderlo e di esporlo a radiazioni, fuori le aule delliceoclassico per tre-quattro settimane: sono i sovietici, non è il ragazzo.
La città universitaria gli sembrò più grande: larga, era il termine corretto: scompariva nelle aule, non lo guardavano, non lo vedevano. I palazzi erano alti, l’appartamento due buchi quadri. Il primo esame cannò di brutto, fece il cordiale con il docente:
- Lei giurista, vero prof?
Non gli rispose. Firmò il verbale.
- Mio padre è giudice, è quel Pastori: glielo saluto?
- Non lo conosco.
Accettò il ventuno e zitto. Uscì curvo nella pioggia. Quell’inverno mise pancia, perse tono muscolare, ogni giorno si radeva quel faccione tondo e stanco che con gli occhiali che ormai per forza assomigliava ad antiche foto: dei padri costituenti.
Il nome Aristide ci stava bene, su un tombino in bianco e nero.
- Solo Ari. ˈSteo, se vuoi, - diede il suo numero ad una tipa.
Che però non lo chiamò.
Per fortuna, ch’era un cesso.
Rise:
- Che cazzo di nome è?
La città sempre più vuota, l’aula magna quasi immensa. Sprofondava in fondo al banco. La sua matricola diciotto cifre.
ˈSteopastori, quando giocava a calcetto, sulla maglia aveva l’UNO: dritto e rosso, come un cazzo.
ˈSteopastori era gigante, ora piccolo, e nessuno lo notava.
Da laureato trovò lavoro in città sempre più grandi. Resta solo, a fronte bassa, ora pensa alla carriera. Città ciclopiche e città vuote dove la gente non lo vedeva, cambiò di casa talmente tante volte che trovò inutile il suo nome su un campanello. Una striscia di cartone tra pulsanti tutti vuoti. Si rese conto che in dieci anni non aveva più sentito il suono di un campanello. O dei propri, campanelli. Quando si accorse che a sera, a letto, non ricordava né il proprio volto né le facce dei colleghi - che colleghi, e che lavoro? - e che il letto era un oceano perché lui rimpiccioliva, doveva essere già accaduto: i sovietici avevano colpito.
L’URSS era caduta da saranno quarant’anni.
Ma papà aveva ragione: non ho niente che non va.
Non riusciva ad addormentarsi senza essersi ri-misurato. Sciolse il metro dall’astuccio: centottanta, settantotto.
Doveva essere accaduto questo. Erano state le radiazioni.
"C’è motivo di pensare che lei, Pastori, sia un po' stressato, burnout, non stia più bene" - c’era scritto nella mail - "non le nascondo, lo sa anche lei, che il suo rendimento è calato di brutto" - sì: di brutto, aveva scritto. "Si riposi, si riprenda, si ribecchi", c’era scritto: scrive proprio "si ribecchi", ˈsto arrogante ragazzino - "sono qui a scriverle che già domani la considero in permesso, in ferie, in malattia: troveremo una formula, ma si prenda il suo tempo. Resti a casa. Cordialmente".
Suonò il telefono:
- Pastori?
- Sì.
- Sono Marco, il fattorino. Le ho portato le sue cose.
- Le mie cosa.
- Se vuole scendere, per cortesia. Ah: le chiavi, per favore.
- Quali chiavi.
- Dello studio. Mi fa una firma. Le lascia a me.
- Ma come lascia.
- Pastori, piove: facciamo in fretta, le spiace?
- Scendo.
Lui rotolò giù per quelle tante ed enormi scale come la piccola piccina biglia a cui s’era ormai ridotto, si fermò piccino e curvo sul portone del condominio. Lui, che da splendido e ragazzo non passava dalle porte: "sei troppo grosso, sei gigantesco", scambiava il cinque coi fraˈ e coi broˈ. Nella pioggia polverosa, calda, chimica di ottobre che batteva il lastricato tra gli edifici deserti, le tapparelle abbassate e mute su cellequadre di solitudine.
- Questo è tutto, - disse Marco, - sono sicuro sia tutto qui.
Gli arrivava a metà petto, quella merda.
Un fattorino.
Come cazzo si permette.
Si permette.
Lo schiacciava.
Gli lasciò quei due cartoni chiusi in fretta con lo scotch, le sue cose impersonali senza cura nei cartoni. Sulle alette l’adesivo con il nome dello studio.
- Le chiavi, grazie. Mi firmi qui.
Lui riempì di ARISTIDE e PASTORI per esteso la casella troppo grande sull’iPad di questo Marco: non ce lo aveva un cognome, Marco; ˈcazzo sei? Chi sono, io?
Si salutarono.
Non salutò.
Lasciò i cartoni all’aperto e all’acqua.
Dopo tre mesi di mail a vuoto, e dell’ "utente non raggiungibile", fermò l’auto a bordo di un campo brullo al cui torrido orizzonte si intravedevano le rovine di un casolare, un fienile, una stalla.
Ma perché cazzo girava voce che ˈSteopastori delliceoclassico adesso fa il contadino, ci pensiii?!
Camminò sull’arse zolle lungo il bordo di un canale di irrigazione, il cui fondo ribolliva d’argilla umida e fango liquefatti dai conati di un fiumiciattolo agonizzante. Lontano.
Dove vado.
Gettò i Gucci, camminò, buttò gli occhi ad ardere nel sole.
Doveva essere mezzogiorno, devono essere sessanta gradi.
Devono essere le radiazioni: prendo fuoco, vacillò. I sovietici di Černobyl gli impedirono di respirare, vide solo macchie nere su uno sfondo giallo-incendio. Crollò prono nel canale, con la faccia nell’argilla, gli entrò il fango nella gola, le narici, nei polmoni. Sotto il silenzio del casolare e del fienile in macerie. Una lepre saltò il fosso e il suo corpo per tutta la lunghezza dalle Tod’s ai ricci biondi, mentre lui si contorceva, accartocciava e rimpiccioliva negli spasimi di morte.
Era amara, la fanghiglia.
Come un terzo delle acque.
    

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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