Racconto di Natale 2022

 

Ed ecco, come ormai da più di dieci anni, il Racconto di Natale! Il 2022 è stato l'anno del mio approdo a Venezia, la mia nomina a docente di ruolo e di un contratto editoriale importante per - forse - il romanzo più bello e più complesso che ho mai scritto. Ma è stato anche l'anno di una guerra in Europa - una guerra che ancora dura - del terrore o fosse pure l'angoscia di un conflitto nucleare che può travolgerci da un giorno all'altro, di una paura che abbiamo smesso di immaginare e che avevamo dimenticato da quasi settant'anni. Quindi il racconto di quest'anno si svolge tra Giudecca e la fermata San Zaccaria (che ne sanno i foresti?!), è un racconto per ricordarmi che ho sempre tanto da scrivere (e si spera pubblicare) e con ombre di paura. Ma un racconto luminoso, benché sia delle mie solite luci nere... Perché - anche - è stato un anno di amici, dadi, disegni, soldatini e di cose che si acquietano al loro posto. Buon Natale, miei cari Lettori.


Il battello fermò a Piazzale Roma, e una folla di innamorati, studenti e americani salì a bordo invitata dell’equipaggio che annunciava «linea due destinazione San Zaccaria».

Quasi tutti preferirono restare in piedi in coperta, sotto il grido dei gabbiani nella sferza delle spume. Quel freddo, terso, un ultimo martedì si spezzava contro il mare che era cosparso di cocci lucidi, i frammenti di cobalto fiammeggianti nel tramonto.

Miriam pensò che di imbrunire e tramonti ne avesse visti già troppi, tanti, ma non erano abbastanza; soprattutto che era assurdo e spaventoso che non ne avrebbe mai più veduti. Che in milioni, sulla Terra, non ne avrebbero più visti. Pensò che forse era meglio goderne un altro: ma anche no, perché fa male: andò a sedersi sottocoperta coi veneziani più o meno veri; con le sporte della spesa, con i carrelli di pacchi e sacchi, con i cani, con i figli, con le beghe e coi giornali. La prima pagina del "Gazzettino", sulle gambe di un anziano, ripeteva a cubitali l’urlo di internet e le tv:

È GUERRA ATOMICA.

La guerra atomica.

Cosa c’era altro da dire?

Dopo tre anni da pendolare tra le Marche e la Laguna - quattro giorni a settimana di lezioni in Accademia - Miriam aveva smesso di sbalordirsi del Campanile, le cupole, i canali e le bifore arabesche; di inquadrare e fotografare le chiese bianche sul mare verde e la lama luccicante delle gondole nei moli. Ci si trovava davvero meglio, a Venezia, da che non era più una turista; da che la sera faceva liste nei labirinti di calle e campi e si fermava a buttar pensieri dai ponti fragili sull’acqua nera; da che ascoltava le sozzerie che raccontavano i veci con i ricordi di amici persi:

«… è un bel’om: di bela posa... rafinato... adesso è morto.»

È GUERRA ATOMICA.

Ma a noi non tocca, il Governo aveva detto. Non saccheggiate i supermercati com’è successo nel ˈ20. Il Paese è al sicuro - siamo tutti già morti - il conflitto non si estende ai confini nazionali. Ma cadevano già i razzi in Croazia e in Albania. È GUERRA ATOMICA coi bar allegri, coi ristoranti, con gli happy hour; è guerra atomica con Chiara e Fedez e Venezia a alberghi pieni. Coi festoni di Natale sui balconi e le vetrine.

E con le scuole e gli uffici aperti fino al giorno ventitré.

Ma nei volti, i gesti, gli occhi attorno a sé Miriam si accorgeva di una rabbia e di un’urgenza: di avvertire, di sentire, di provare e di vedere; di rivedere la stessa luce e riconoscere le stesse forme, e riprovare le stesse identiche sensazioni quali il bruciato di pizza al taglio, la pioggia addosso, il caffè alla macchinetta che fa un po' schifo o la vertigine di mare mosso mentre attendi il tuo battello. Sapere ancora ma poi mai più che cos’è ruvido, che cosa è liscio, che cosa e morbido, che cosa è freddo; qual è il suono dei propri passi su un marciapiede e ricordare che faccia avevi nel finestrino di un treno fermo. Di volerlo ricordare dopo essersene tutti i giorni dimenticati.

I tre ragazzi seduti di fronte a lei le cedettero il posto su un sedile più comodo:

«Dài raga, alziamoci. Signora, prego», con il rispetto per i tre mesi di gravidanza che, sotto il cappotto di lana azzurra, le arrotondavano già tanto il ventre.

Miriam soffriva ancora più per l’epiteto di "signora" che per i sintomi della vita che le cresceva ogni giorno dentro; mentre fuori - È GUERRA ATOMICA - se ne spegnevano centinaia.

Non riusciva a far quadrare manco il cerchio di sé stessa.

Si era ormai all’età tarda e forse l’ultima di questo mondo mentre lei, ancora, faceva errori da adolescente: questi, invece, le attribuivano maturità.

Ma quale maturità.

Un po' zoccola, invece.

Tanto fessa da farsi mettere incinta alla vigilia della Seconda Invasione dell’Ucraina da parte della Russia di quel matto di Volodin. Contro Zelensky, che è matto peggio. Era a un rave, era ubriaca, e con Beppe non funzionava da troppo tempo. E quel biondo era stellare - ne avesse almeno saputo il nome…

Non avevano parlato, perché lui le aveva fatto capire a gesti che di italiano non spiccicava nemmeno un sillabo, o forse che era muto. Ma in quel momento non ne era in grado nemmeno lei. Il suo volto, il giorno dopo, s’era dissolto insieme al vomito nel bidè. Le tornò in mente di colpo con le nausee e quando la ginecologa le chiese «lo vuoi tenere?»

Sullo schermo di un tv plasma, nella sala di aspetto dello studio, in quel momento si susseguivano filmati atroci di incendi e di rovine, lanciarazzi, carri armati, di una folla che camminava nel fango gelido, in silenzio, sotto un cielo color cadavere e lacerato dai grattacieli.

«Lo voglio, certo», le aveva risposto Miriam. Era stupido, ma ovvio. E innanzitutto ˈaffanculo Beppe: restò da sola con il futuro.

Non poteva immaginare un futuro così breve.

Ma il governo ribadiva che prevarrà la diplomazia, e che anche in caso di attacco atomico il Paese è preparato. Che doveva essere calma; tornare in aula ogni mercoledì a insegnare agli studenti dei mestieri che non avrebbero svolto mai - avrebbe invece dovuto insegnare loro ad accendere un falò e divorare dei ratti crudi, dati i giorni che li attendevano. A appuntire dei rami.

Che doveva fare spese, anzi: i regali di Natale! Organizzarsi per il cenone e per la notte di Capodanno.

Pensa a crescere tuo figlio.

Signora, rise.

Due pischelli color paglia e un magrebino di… diciott’anni?

Ma in effetti tutti nati - a giudicare dai loro brufoli - quando a lei l’intera saga di Star Wars aveva rotto già un po' le palle. Già da un pezzo. Più che un po'.

Il battello passò lento sotto due ponti di muratura e virò verso Tronchetto: scese gente, salì altra; ripartirono accelerando per Sacca Fisola. In quel tratto le sembrava che ogni volta la prua aguzza della nave scalmanasse al mare aperto: c’era il sale, oscurità, c’era un vento da velieri; e il metallo di Marghera, sull’orizzonte a tribordo, riverberava di fari elettrici remoti anche nel tempo.

«Il porto, ecco: è un bersaglio, è un obiettivo; è strategico, me sa.»

«Ma anca la dogana!», discutevano due operai.

«Vuoi che succeda?!»

«Succede. Eccome.»

«Io non ci credo.»

«Ci credo. Eccome.»

Tra gli zaini, le valigie, tra i bambini. Tra i cartocci di frutta e di verdura e una busta di referti intestata a un ospedale. Tra le cuffie sulle orecchie e tra gli schermi dei cellulari. Ma non potevano pensare ad altro; non si può pensare ad altro.

«Arriva, arriva…»

Arriveranno, Miriam rabbrividì.

Sulle onde fredde e vuote calò il buio all’improvviso, il battello puntò a sinistra alla fermata di Sacca Fisola.

Qualche fila di lampadine e qualche addobbo sui davanzali, un abete intermittente e il fantoccio di una renna non rischiaravano poi granché le forme scure dei condomini che gettavano i terrazzi sul canale di Giudecca. Poco oltre, nella notte, sfavillava l'hotel Hilton; le due sponde bruciavano dei lumi piccole in lunghe file sulla riva di Giudecca, San Basilio e di Zattere.

E in mezzo era il silenzio.

Nel cielo nero pulito e calmo c’era una nitida luna piena - tanto pallida e perfetta alla faccia dei Futuristi, pensò Miriam - e a saperle e con pazienza si contavano le stelle.

O si sarebbero contate scie.

Sui giornali e i siti web c’erano foto di come accade: di macchioline e scarabocchi di ferro e fumo che scorgevi lente, in alto, troppo lente, finché il lampo, il fuoco e il vento non ti accecavano e dissolvevano. Solo i timpani dei morti, poi, sentivano lo scoppio.

Gli americani, gli innamorati, i veneziani più o meno veri si sfiorarono le dita e si aggrapparono un po' più forte ai sedili, alla resina e il legno del battello o le lunghe balaustre, le maniglie. Alle cinghie degli zaini. E all’aperto abbassarono i cappucci e lasciarono che l’Adriatico schizzasse loro le facce. Il Paese era al sicuro, è Natale; ma guardarono in su. Con l’identica speranza che non avrebbero mai visto niente. Miriam, come ormai non alzava più lo sguardo né a San Marco o La Pietà né la Madonna della Salute, si sforzò a fissare gli occhi sull’assito della barca e sui trucioli di onde contro i fianchi bianchi e verdi.

Sul proprio ventre.

Si accarezzò.

A San Basilio l’imbarcadero le sembrò fosse deserto, sul molo umido percorso in fretta dalle ombre intirizzite arrugginivano le passerelle per l’acqua alta e le sedie e i tavolini di ostinate pizzerie.

«Vai, riparti», disse uno dell’equipaggio. Anche lui guardava in cielo, chino, alle sue spalle. Il pilota mise in moto.

«Mi aspettate, per favore», li fermò una ragazzina: affiorò alla piattaforma dal buio putrido della riva. Non aveva chiesto che la attendessero: a Miriam sembrò invece che avesse loro impartito un ordine. Saltò a bordo, scansò i turisti e andò a sedersi sottocoperta.

Con i ragazzi.

Davanti a lei:

«Mi fate posto», pretese.

«… sì…», balbettarono quei tre: che addirittura si infilarono gli iPhone in tasca e se la smisero di scrollare video e video sulla guerra, su funghi atomici, su mutazioni, sui bunker e i tumori; sulla carne liquefatta e sulle ombre che persistevano su muri in pezzi. Si ammiccarono ghignando. La guardarono. Non ridacchiarono più. Ma si restrinsero sul sedile anche più del necessario, per fare spazio e non dare noia a quella piccola terrificante.

«Non le rompere i coglioni», balbettarono tra loro.

Avrà avuto dodici anni.

Meno, forse: sì, di meno.

Li ha stesi, cazzo.

Che fica, bimba.

Se ci fosse stato un mondo, domani, sarebbe stato di ˈsta ragazza.

Mi spiace, bimba.

Non ci sarà.

Era anche vero che a guardar bene, e ad averla accanto a sé, Miriam doveva ammettere che quella piccola distruggitrice era forse un po' inquietante: un po' più che un po', si arrese. Perché era sola - ma se abitasse da queste parti... - perché era magra da preoccuparsi con le scapole sporgenti. Perché era bionda di un oro più che scandinavo e aveva il viso eburneo, crudele, inespressivo. Aveva gli occhi di vetro blu: e se anche - per pudore - non si era messa a fissarla, sembrò a Miriam che per tutta la traversata non avesse mai sbattuto le palpebre. Mai.

Non è possibile.

Però è così.

Era un cazzo di robot. Di bambola. Di alieno.

Il battello passò Zattere e traversò per la Giudecca. Fermò a Palanca, fermò a San Giorgio. Ripartì per Zaccaria. Sottovoce i tre ragazzi di fronte a lei continuarono a parlottare dell’argomento di tutti:

«Balda, ma a casa tua?», domandarono al magrebino, «che cosa pensano di questa merda?»

«C’è la guerra anche da voi?»

«… dai miei parenti…»

«Sì, insomma.»

«Boh?»

«In Nord Africa è arrivata. Vero, Melchio?», chiese uno all’altro dei due biondi.

«In Nord Africa è arrivata.»

«ˈCazzo sai? Cosa sapete?»

«Gaspa, condividi a Balda il video che mi hai fatto vedere prima.»

«Dopo, dài. Siamo arrivati.»

«Per me era un fake.»

«Son tutti fake.»

I passeggeri raccolsero le loro cose e si spostarono ai due lati del battello, e il pilota traccheggiò a motore al minimo nell’attesa che l’approdo fosse sgombro da altre barche. Oltre i tetti del Danieli e la facciata de La Pietà, sulle piume e sulla spada del monumento di un re a cavallo, il Palazzo, il Campanile e la Basilica di San Marco accontentavano i giapponesi di una Venezia più luminosa, con le luci, bollicine e con gli addobbi di Natale che una coppietta di giapponesi sogna esserci a Venezia. Nei sottoporteghi tutto attorno, negli interstizi tra il quattrocento e il diciottesimo secolo, si insinuava lo stesso mare e il silenzio che era fuori. Gli innamorati, gli americani, i turisti esagitati saltellarono alla Piazza con una fame di pietre e ori, di cristalli, di t-shirt, di cappellini da gondoliere; di raccontare di un cappuccino a Venezia e dei tredici euro per un toast e un espresso. Con negli occhi un’angoscia di cose stupide e fermandosi a fare selfie per ogni ultimo loro istante.

Nostro, istante.

Lei, i ragazzi, la bambina spaventosa, l’equipaggio e i veneziani si attardarono seduti: il battello era arrivato a fine corsa, non c’era fretta, e si evitava la ressa; quella calca di sudore e di «terrific!» idioti. A barca vuota raccolsero le loro cose, ed uscirono in coperta come si scende da tutti gli autobus. Melchio, Balda, Gaspa-o-quali-fossero-i-loro-nomi la lasciarono passare col rispetto per gli infermi:

«Va per prima la signora.»

«Raga, è incinta.»

«Prego, prego.»

E non mi prendono per il culo, purtroppo.

L’aliena pallida si alzò per ultima. Dietro tutti. Su di noi.

Con il piede già sul molo, andando cauta per non cadere, Miriam si accorse che il pilota era sbiancato, batteva i denti, «diocàn diocàn!», e strabuzzava per la paura.

Puntò il dito contro il cielo:

«La bomba! Arriva!»

Sotto il cerchio della luna, tra le stelle fioche e fredde, il cielo scuro si strappò bianco, argenteo, vaporoso, una scia scintillante su un orizzonte di onde. La riva viva si ammutolì - c’era ancora una città? - e il battello rollò cupo per il terrore di loro a bordo.

Ci siamo. Adesso.

Sarà stata la paura: Miriam, Cristo!, tremò cieca. Venezia tutta affondò nel nero, e la Riva degli Schiavoni sfrigolò sull’acqua buia. Lo sciabordare delle onde contro il molo coprì assordante campane e voci, tuonò terribile sul fondo piatto e le curve della barca. Il battello raggrinzì: chiuso, piccolo, una noce; il mare sotto ed il cielo sopra furono un’unica oscurità. Era lì sola coi tre ragazzi ammutoliti e terrorizzati, lividi, sudati.

Non le riusciva di respirare. Di pensare. Di gridare. Sentiva ardere la vita nelle sue viscere e la mano di uno scheletro frugarle tra le cosce. Non riuscì a stornare gli occhi da quel graffio nella notte, quella scia d’argento e luce che allucciolava sulle correnti.

Poteva essere così bella?

Ma è di questo che si muore.

Sentì la bimba venirle accanto.

Così lieve e così bianca.

«… ma… ma che cosa mi è successo?»

«Abbiamo avuto paura tutti», il pilota le offrì la mano: la aiutò a salire al molo, «ma è stato un attimo. Che roba, invece!...»

I tre ragazzi la salutarono.

«Buon Natale.»

«… buon Natale…»

Un fiotto d’acqua sfasciò la copia del "Gazzettino" abbandonata da un vecchio triste tra i sedili e i salvagente. Miriam tornò a vedere ed ascoltare Venezia accesa; gli americani, gli innamorati e i veneziani più o meno veri che sorridevano piangendo di meraviglia per qualcosa da raccontare per ancora mille anni.

A mio figlio, quando presto nascerà.

Le campane di San Marco rintoccarono nell’oro, la scia d’argento brillò sui labari, le cupole e le guglie.

«Guarda. È una cometa», le disse la bambina.

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

2 commenti:

  1. È molto bello. Ci sono due punti in comune tra ciò che accade a Miriam prima e dopo quel battello: la forza della vita - quando decide che è "il momento" - si palesa. In un modo o in un altro, ma si palesa.

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