Racconto di Natale 2021

 

Gli scrittori regalano racconti. Ed eccovi (come ormai dal 2011) il mio tradizionale racconto di Natale. Il 2020 è stato l'anno della pandemia, e questo 2021 mi è sembrato e non smette di sembrarmi un anno, soprattutto, di incertezze e di paure: non solo del virus Covid, ma di tutto: del futuro, delle scelte, della scienza, di non avere nessun futuro, di non scegliere, dei cambiamenti climatici, la geopolitica, l'economia, del collasso geopolitico, economico e gli immensi e silenziosi collassi personali; la paura di ogni cosa ci succeda e il terrore anziché l'attesa delle cose che accadranno. La paura della morte ma anche quella di nascere. Quest'anno il mio racconto è dedicato a chi le ha, queste e ancor più grandi paure; ai ragazzi e le ragazze che ne soffrono di più profonde.

Buon Natale, cari Lettori.


«… viaggia con un ritardo di centottanta minuti. Ci scusiamo per il disagio», ripeté l’altoparlante.

Iosi lasciò un euro all’inserviente in giubbotto giallo. La toilette della stazione era nitida e deserta. La finestra era affacciata su un tramonto di dicembre, sulla ghiaia e la gramigna di un binario di servizio; lo steccato, i fari, i pali, una rete arrugginita, e al di là quel casolare con un’aia di animali.

Una mucca ed un somaro tra le pecore e galline.

«Vaˈ che posti», lui pensò, «la campagna. Nulla, insomma.»

C’era odore di letame, detergente e di metallo. L’orizzonte si incupiva di solitudine e nubi.

La coincidenza passava lì. Non passava, ovvero, pare. La dilazione di un quarto d’ora si era estesa a un’ora, due, e adesso erano tre; ma annunciate in termini di minuti ché Trenitalia pensava, forse, facesse meno incazzare.

Fa incazzare anche di più.

E non c’era un altro treno.

Non c’era un autobus, non c’era un taxi: non c’era un cazzo, per la città. E nemmeno un qualche mezzo per tornare e partire di nuovo il giorno dopo, se andava bene: tra settimane, tra un mese, mesi - se la clinica sarebbe stata disposta a… Macché tra mesi!; lui bestemmiò: più passa il tempo più son fottuto.

Gli avevano confermato l’appuntamento per oggi, nonostante la Vigilia: e doveva essere oggi, fosse pure a notte fonda.

«Arriveremo: non so a che ora», aveva detto poco prima al telefono a una receptionist che immaginava appuntita e cozza.

«Vi aspettiamo. Arrivederci.»

E ti credo che aspettate: tremila euro. Non sono pochi.

Iosi si sciacquò il viso nel lavandino di zinco, inghiottì il metallo e il cloro dell’acqua fredda da gabinetto. Si specchiò alla luce azzurra che infieriva dal soffitto e si arrese «che anche tu, però, te le vai in cerca.»

Nel cristallo c’era il volto di un quarantenne irrisolto che la banda degli amici, i conoscenti e il paese salutavano con il nick che si era scelto da adolescente. C’era il figlio del mobiliere che non aveva mai davvero lavorato; i Rayban neri, camicia a scacchi, il cardigan di Gant: su una barba curata da uomo vero che ingrigiva senza fascino, carattere e senza avere imparato nulla.

C’era la faccia di un deficiente ch’era finito in un bel casino.

«Come cazzo ti viene in mente», accusò, «di metterti con una che non ha manco diciassett’anni.»

Perché Miri era carina; questo è poco, ma sicuro. La più bellina del liceo classico, la più bellina della città. Per la strada ci si girava a guardarla tutti: mica solo i suoi coetanei; soprattutto gli uomini più maturi. Arrossivano a guardarla anche la pula e i caramba.

ˈcazzo vogliono, allora?

Era stata consenziente. E Iosi aveva letto da qualche parte che se era consenziente non importava se minorenne.

E le vedessero, ˈste minorenni, chi fa i codici e le leggi…

Era anche vero che i primi mesi non gliela aveva mai data:

«Perché ho paura… perché se capita…»

«Ma cosa capita?», insisteva lui: e una sera a fine marzo, a Firenze - agriturismo - finalmente la aveva avuta.

La aveva avuta davvero?

Era stata una vacanza con un botto di altra gente, quei susseguirsi di «vengo anch’io porto un amico non vi dispiace». Nella camera accanto c’era un biondo, israeliano, un fisicato da far paura; occhi azzurri luminosi ma gay di brutto, pensava lui. Era entrato nella stanza proprio… beh, un momento dopo:

«Miri! Hey! What do you do?»

Era stato imbarazzante. Era stato proprio un flop. Non aveva mai capito se la aveva sverginata, se fosse vergine oppure no - non le andava di parlarne; probabilmente non gli era manco venuto duro, perché aveva bevuto un po’; probabilmente - si ripeteva - non sono manco venuto.

Si convinse che era no.

Miri da lì in avanti ritornò a rifiutarlo:

«Dammi tempo. Mi vuoi bene?»

Gliene voleva, vabbè, però…

Finché un giorno glielo chiese in un tono spaventoso.

Iosi era in fabbrica tra i trucioli e le assi, a fingere di continuare l’attività di suo padre. Aveva in tasca l’iPhone, «che è scarico: ma se mi cercano sto qui in azienda»; scrollò le spalle, tornò al lavoro e udì Giovanna che lo chiamava:

«Signor Giuseppe», disse la segretaria, «c’è al telefono per lei la signorina Myrhiàm.»

«Che è successo?»

«Sono incinta», pianse lei alla cornetta.

Tornò a darsi del coglione nel quadrato dello specchio.

«Come, incinta?»

C’era un test di gravidanza: ecco, come. Punto e basta.

Dormì male. Dormì peggio. Ma gli accadeva da tanti mesi.

«Io non lo voglio. Tu non lo vuoi, vero?», la assillò dal giorno dopo. Le parlò del futuro, degli studi, il lavoro, di Greta, del Covid, le risorse e dell’acqua; del clima, l’Amazzonia, della plastica e la Cina; dei poli artici, dell’INPS, la Russia, la cancel culture e di bitcoin. Le parlò di Bolsonaro, poi di Zuckerberg, di Musk. Le mostrò le news su Google. Di come fosse un’enorme responsabilità e altre frasi da RaiFiction su ragazze che aspettano bambini. Glielo disse che tremava, con un nodo alle budella. Si faceva anche un po’ schifo, mentre usava quegli argomenti: del futuro, soprattutto.

Io: che parlo del futuro.

Allo specchio i quarant’anni gli bruciarono negli occhi. Chinò lo sguardo alle Converse Seasonal e i risvoltini dei pantaloni.

«In città c’è una clinica», gli aveva detto un amico medico, «è un po’ cara. È privata.»

«Non può essere più cara della mia cazzo di vita.»

La vita. La mia vita.

«Ma la Miri? Che ne pensa?»

Che è la mia cazzo di vita.

Quel mattino il Regionale era partito alle undici e ventisei. E lui pensò che adesso gli ci volesse un cigarro.

Si fermò ad arrotolare sulla porta della toilette. Era un freddo tormentoso. A qualche metro brillava fioca l’angustia sala d’attesa, dove Miri era seduta in un’angoscia fetale:

La più bella.

Ma va là.

Fesso te che ci hai creduto.

A sinistra un marciapiede portava fuori dalla stazione. Iosi aveva tanto, e feroce desiderio di allontanarsi da tutto, e da lei, che sperò che quell’uscita lo avrebbe almeno lenito un po’. Il tabacco amaro, secco, lo avvelenò di pensieri cupi che macerava da troppi mesi:

E chi lo dice che è figlio mio?

Con me è stata solo quella volta.

Che poi: è stata…

Non può essere successo.

Il marciapiede si interrompeva a un pontile di ferro che scavalcava il binario morto per ridiscendere a un campo brullo. Dal casolare dall’altra parte lo fissava un irco bianco, i cui occhi luccicavano in quell’aria che abbruniva.

Ci sbavavano un po’ tutti, per Myrhiàm: e questo è un fatto. Iosi tirò forte una boccata di sigaretta.

E lei è donna. È una ragazza.

E lei è giovane.

Buttò la cicca.

Si è goduta un ragazzino. Della scuola. Ci è rimasta. E ha creduto che lo Iosi - ˈsto coglione: vero, bimba? - è innamorato, ci ha i soldi, è buono e disposto a mantenerla.

Anche lo sbatti di accompagnarla e di pagare perché abortisca.

Ci sto ancora.

È minorenne.

Dopo abortito le dirò ciao.

Dal pontile il casolare gli appariva più sinistro dello scorcio campagnolo che se ne aveva dalla toilette. Il recinto lungo il campo era crollato in più punti, gli animali vagolavano tra la sterrata e gli sterpi. Le finestre erano buie, con i vetri in parte rotti: l’ultima luce stillava in stanze con telai di vecchi letti. Il portone era sfondato, c’era erba sui gradini, e un rottame di Fiat Uno si sfaceva in un capanno.

Era morto. Abbandonato. Gli sembrò persino antico. Tuttavia di un abbandono che non era di decenni; sentì il terrore di un rinunciare e di una notte che non finiva, di trascurarsi, del trascurare e accettare la rovina.

Da dove vengono il mulo e il bue, le galline e quella capra?

Attorno al rudere non c’era nulla, e soprattutto non c’è nessuno. Da lì in alto guardò indietro sui binari silenziosi, le direzioni di nessun treno che sprofondavano nell’imbrunire. L’orizzonte era già buio, si trovò solo lì sopra al niente, le forme nere degli animali si dissolsero in cortile. C’era un puzzo di bollito, uova marce e di benzina. Lui voltò le spalle a un vento colmo di quegli odori e percorse il marciapiede fino dentro alla stazione. Ritornò in sala d’attesa.

«Dove cazzo eri finito?», Miri lo accusò.

L’inserviente dei gabinetti, in cappotto e tuta gialla, tormentava imbarazzato un sacchetto di brioches. Nell’altra mano gli tintinnarono badge e chiavi:

«Stavo spiegando alla signorina», sudò, «che dovrei chiudervi dentro. Fine turno. Vado a casa.»

Indicò un cartello rosso che gli dava quel diritto.

«Come, dentro?»

«Meglio qui, no?»

La porta a vetri tremò appannata per il soffio dell’inverno.

«Ma sono appena le cinque e mezza!»

«Si fa buio.»

«Che stronzata!»

«Non lo so. È il mio lavoro. È una piccola stazione. Poi sapete: è la Vigilia…»

«E se avessimo un bisogno?»

«C’è il caffè, c’è da mangiare e c’è acqua», l’inserviente accennò ai distributori automatici, «lì c’è un bagno. Quasi, un bagno. Per le emergenze c’è questo numero.»

«E il nostro treno?»

«Non passa più.»

«Arrivederci», si arrese Miri.

«Buona notte, signorina.»

«Vaffanculo!», esplose Iosi.

L’inserviente allucchettò una catena alla maniglia, e scomparve nella sera coi cornetti al cioccolato.

Sui binari strisciò un topo. Infiochirono i lampioni. Ombre d’alberi contorti runcigliarono i cartelli. Cavi elettrici brillarono ululando al vento freddo, e un giornale accartocciato rotolò contro la porta.

«Dài, Giuseppe, telefona alla clinica, ché per oggi ormai è andata...»

Lui provò.

Trovò occupato.

Insisté a guardare fuori. Le piattaforme sbreccate e grigie sotto le lampade che scoppiettavano, i licheni e le sterpaglie su quel tratto di ferrata. Brillii piccoli di fari nelle tenebre remote, e quei chilometri di oscurità dietro di loro, davanti a loro. Batté sul vetro. Quell’eco piatto.

«Siamo soli», si impaurì.

Gli sembrò che quel soffitto si incurvasse sotto il nulla.

«Sta calmo. Siediti», Miri lo invitò.

Si fissarono. In silenzio. La più bella: ed era vero. L’ovale bruno di un volto mite tra la cortina dei ricci scuri, che si intrecciavano sul seno vivo e le scendevano sul ventre tondo. In quegli occhi grandi e neri c’era un senso, nelle cose; il suo sguardo era su un mondo che non sarebbe caduto mai, e in quel mondo adesso c’è un bambino. Guardava a loro, guardava a lui, guardava al cielo il mattino dopo; e dissolse in una smorfia la sua rabbia e il suo terrore. Era lieve, ed era grande, gli era accanto da compagna. Continuò a fissarla, zitto, finché Miri si illuminò di una limpida risata.

«Cosa c’è di divertente?»

«Che è Natale. E guarda invece noi, qui, in quale cazzo di situazione…»

Continuò a ridere.

E sì: la amava.


Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

3 commenti:

  1. Un po' ingannevole: ero in attesa di una progenie di Cthulhu che si facesse strada dalla pancia della giovinetta e divorasse l'insopportabile quarantenne... E invece nulla, è solo amore.
    Un altro tipo di orrore ;)

    Molto bello il "vagolavano" e il "runcigliavano"

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