Gallina che non becca ha già beccato




L'autobus fermò a una stazione di servizio su un lungo tratto di Provinciale tra vasti campi di girasole. Candelara era dipinta su un'altura all'orizzonte a pennellate di bianco e ocra contro il cielo luminoso; il castello, il campanile e le mura erano immerse nel sonnolento silenzioso mezzogiorno. Colli e boschi erano accesi dei colori dell'autunno, foglie secche erano sparse sui cancelli e nei cortili dei casolari della vallata che echeggiavano di voci, di cani che abbaiavano e motori d'auto e moto. Bagliori di cristallo dai SUV in quei vialetti, chiocciare nelle aie e muggiti in foraggere. E i limpidi rintocchi del bronzo di una chiesa.
Lontani, forse un sogno; un vapore sul paesaggio.
La pensilina era avvolta d'edera, la panchina era spaccata, la tabella degli orari scolorita dalle piogge.
Luca guardò l'autobus ripartire lentamente, e resistette alla tentazione di rincorrerlo e salire.
Tornare a Pesaro. Ripensarci. Perché era Halloween, e quella sera ci sarebbero state feste. Divertirsi con gli amici e conoscere una tipa, forse: chi sai mai? O andare a Lucca Comics, anche. Perché no?
Come gli era venuto in mente di dedicarsi a quell'escursione?
Forse perché i due giorni di vacanza dalla scuola gli concedevano un po' di tempo - e di respiro - dalle verifiche e dallo studio di un quadrimestre già un po' pesante: ne approfittava per una gita, per riprendersi, svagarsi. Ma una gita lì, da solo, in quel nulla di campagna: dove aveva il vaghissimo ricordo che i nonni, da bambino, lo portarono a fare visita a un vecchissimo e strano zio.
Quale zio non lo sapeva... se erano poi dei ricordi veri. Ma gli restavano impressi dentro un fienile ed un aratro - rosso, di metallo, in un cortile di ghiaia bianca - il muso umido e rosa di una mucca e una cugina in vestito verde, capelli neri e treccine che gli squittiva parole sceme che si dicono ai bambini.
Doveva essere piccolissimo. Molto piccolo. Neonato?
Neonato no. Si ricordava in scarpette nere, cappellino, salopette; si ricordava che camminava. Ricordava l'incidente e che accade quand'era solo, mentre esplorava con una canna la grossa buca al di là di un muro.
Dietro casa. Dentro un colle.
Ricordava la paura. E che gli altri - nonni e zii - ne avevano molto riso.
«Era solo un uccellino!»: la cuginetta lo sbaciucchiò.
Se ne era dimenticato.
Fino a che - erano oggi tre settimane: era a scuola, a verifica di Italiano - una cornacchia era entrata in classe da una finestra e atterrata sul suo banco.
E lui aveva urlato.
E se l'era fatta addosso.
La cornacchia era restata a fissarlo con quegli occhi inquieti e neri. Vuoti, soprattutto: non cattivi, però vuoti.
E lui aveva urlato: accidenti, se aveva urlato. Finché il prof non ha chiamato la psic dell'istituto, che l'ha calmato con uno schiaffo e gli ha detto che ha una para.
«Per gli uccelli?», ha chiesto Luca.
«Sì, è comune: si chiama ornitofobia. Non ti era mai capitato?»
Le aveva detto di no, e ha pensato fosse scema. Poi, però, da venti giorni dormiva male, soffriva d'incubi: e ha ricordato perché.
La cornacchia era volata terrorizzata. Ha sbattuto contro i vetri, sul soffitto, poi è uscita. E lui il trentuno ottobre era salito su quell'autobus, e sceso alla Grottaccia poco lontano dalla città.

Anche la strada parallela alla Provinciale portava lo stesso nome. Luca scavalcò il guard-rail ritorto e arrugginito e tagliò per un maggese, si guardò attorno, guardò le case: che si infittivano e s'aggrumavano più prossime al paese distante da quei campi qualche chilometro di curve e dossi. Lì dov'era i casolari erano sparsi ed isolati, quasi persi tra appezzamenti delimitati da siepi, fossi o da macchie di cipressi che li celavano l'uno all'altro. Non riconobbe nessuna casa o fienile che assomigliasse pur vagamente ai suoi imprecisi ricordi, e i profili di colline gli sembrarono tutti uguali. Ma uguali ad un bel niente. Guardò alle spalle la striscia grigia di asfalto e la piccola stazione di servizio: che erano sempre lì - per fortuna - benché lontane.
Inghiottì e sentì una fitta allo stomaco per il timore di perdersi: sembrava assurdo; «se succedesse?», continuava a ripetersi. Le notizie sui turisti che si smarrivano sul San Bartolo, a Pesaro - un colle dietro casa: poco distante dal suo quartiere natale - tutto a un tratto non gli sembrarono così tanto divertenti.
Tanto più che il cellulare...
«... qui non prende», si angosciò.
Sentì cantare.
Un vecchio curvo, minuto, rosso in viso, con un cappello da pescatore e una busta d'erbe e rami, arrancava tra le zolle borbottando qualche strofa di De Gregori. Forse I Nomadi; Guccini.
«Scusi», chiese Luca, «questa... è la Grottaccia?»
«Strada Grottaccia di Candelara», rispose il vecchio: «quella laggiù»; gli indicò la lunga via all'altro lato dei campi, che sprofondava tra i fitti alberi tutto attorno alle colline.
«... e si chiama così perché qui c'è una grotta?»
«C'era, forse. Tanti anni fa.»
«Per esempio una ventina. Ma anche meno.»
«No: molto di più. Mia nonna mi raccontava, quand'ero piccolo, del tesoro e la gallina.»
«Ecco», lui si impallidì.
«C'era dentro un bel po' d'oro. Custodito da una gallina fantasma con pulcini fantasma. È una favola, ma mica l'ho mai capita: chi potrebbe aver paura di una gallina fantasma?»
«E quel tesoro?»
«Non c'è mai stato. Non c'è mai stata nessuna grotta, se vuoi sapere che cosa penso. Come mai ti interessa?»
«Per la scuola: una ricerca.»
«Sarebbe meglio studiaste altro.»
«Dove raccontano che si trovasse?»
«La c'è un fosso, tutt'al più.»
Con un ghigno un po' malevolo - o piuttosto dispettoso - il vecchino gli indicò il ciglio erboso di una scarpata che si elevava di qualche metro - non più di una decina - sulla strada sottostante.
Gli sembrò che la scarpata precipitasse a uno spiazzo brullo, una conca: delimitata da calcinacci, rovi e da cespugli che in quel tratto invadevano la carreggiata.
Si salutarono. Luca si arrampicò. La stazione e la Provinciale scomparvero alle sue spalle. Lassù in cima, poco lontano dal fosso, un muretto in rovina di mattoni delimitava il cortile arido di una casa abbandonata.
Gli sembrò familiare.
Ma lo spiazzo tra le ortiche, in basso, era solo una discarica a cielo aperto di vecchie lavatrici, frigoriferi, tv e fustoni di metallo arrugginiti dalle intemperie. Oli e grassi avvelenavano il terreno circostante, e macchiavano i tarassaco, i papaveri e le viole che si afflosciavano con la gramigna nelle pozzanghere di nafta nera. Sedie rotte, stracci, scarpe, autoradio, casse stereo; bottiglie in plastica e cd spezzati con le Barbie mutilate: lo intristì il pensiero che là sotto, tra quei cumuli di immondizia, potesse esserci quanto restava di una vita più pulita.
Tra i rifiuti vide un buco nel terreno, gli sembrò fosse profondo; troppo grande per essere una tana, ma non era così largo da pensare a una caverna.
«Non lo è per un adulto», lui pensò, «per un bambino però è diverso...»
Raccolse un ramo per aiutarsi nella discesa e per difendersi da serpi e ratti, casomai ce ne fossero. Anche un ragno lo avrebbe spaventato; un insetto troppo grosso, calabroni, cavallette: e, gettato via il bastone, sarebbe corso di nuovo in strada ad aspettare tornasse l'autobus.
Lo sapeva.
Lo temeva.
Ma non voleva che quel ricordo, vero o falso, tornasse a tormentarlo; non voleva che altri incubi lo opprimessero ogni notte.
Strinse i denti, si calò.
Aveva fifa ed un groppo in gola.
Sgombrò a calci quei rottami, pestò gli sterpi, spazzò le ortiche, sondò la buca con il bastone e trovò soltanto fango, sassi, fango... Finché un sibilo salì da sotto terra: e qualcosa, laggiù in fondo, strinse il ramo, tirò e glielo tolse dalle mani. Udì un singhiozzo, uno scalpiccio e un furioso fruscio d'ali. Vide il becco, gli occhi, artigli; quell'orribile animale. La creatura uscì soffiando dalla tana. Dalla grotta.
Forse somigliava ad un uccello, a una gallina...
Ma anche no.
Luca restò impietrito:
Era vero, allora. Esiste.
Un volto umano rugoso e pallido si deformava in un rostro curvo, con quattro file di denti aguzzi che annerivano malati. Quelle ali erano braccia lunghe, nude e ischeletrite che spazzavano il terreno con manine da neonato. Una zampa era un artiglio, l'altro un piede con unghie nere e incarnite; piume rade e un pelo irto ne ricoprivano il ventre gonfio, la pelle flaccida porosa e vizza era scoperta su tutto il dorso, che sanguinava e stillava pus da ascessi scuri di malattia. La coda era mozzata, e le penne bruciavano di un fuoco verde dal puzzo solforoso. Larve bianche con la testa da pulcino le strisciavano su tutto il corpo, pigolavano affamate; le si insinuavano nelle piaghe e le beccavano la carne viva. Crebbe, si ingrossò: un orrore di due metri.
Il suo mostro.
La sua infanzia.
Che allora lo morse in un pomeriggio sognato e lo mordeva da diciott'anni di paure e insicurezze.
La creatura si guardò attorno interdetta, raspò nella discarica. Scrutò le case - sulle colline - i cui tetti luccicavano di antenne televisive; grandi parabole coi logo Sky sulle tegole di cotto. Guardò le reti di ferro e plastica che dividevano gli appezzamenti, guardò le auto della domenica esibite fuori dai garage. Annusò l'aria autunnale che ingrassava di frittura, di grigliate, birra scadente da supermarket; ascoltò i telecronisti delle partite di campionato la cui voce, da lontani tv plasma, zittiva scema ed esagitata lo stormire dei cipressi. Merli e tordi ammutolirono tra i rami neri. Guardò ad un mondo ch'era scomparso e guardò questo inferocita.
Fissò lui, e lo trafisse.
Luca si specchiò in quegli occhi vitrei. Si sentì gelare dentro. Svuotato. E corse via.
La creatura lo inseguì, gli era addosso, sentì gli artigli sfiorarlo, senti gli affondi del becco aguzzo lacerargli giacca e jeans. Arrancò per il maggese fin la strada principale, senza fiato ed atterrito traversò senza guardare.
Un clacson lo assordò.
Udì lo stridere di una frenata, un tonfo, un gorgoglio; lo investì un odore disgustoso di plastica bruciata e di carne decomposta; un puzzo acido di pila elettrica ed un putrido fetore.
Si aggrappò al cartello orario della fermata dell'autobus. Udì aprire una portiera e qualcuno bestemmiare.
Arrabbiato.
E spaventato.
«Cos'è, sei scemo?!», un camionista gli gridò in faccia. Poi guardarono, entrambi esterrefatti, la creatura sotto le ruote del TIR che scompariva in un grumo nero, denso ed oleoso che fumava e sfrigolava di vapori iridescenti.
«Che cos'era? Il bestia è sano. Neppure un graffio. T'è andata bene. È un'animale. Perché scappavi? Voleva morderti? Che roba strana. Magari è raro. Facciamo finta che non sia successo niente, eh? Io non ti ho visto, tu non mi ha visto. Non c'è nessuno. Finisce qui. Per certe cose si va nei guai, con la Regione e la Forestale.»
Tagliò corto e ripartì.
Luca attese l'autobus ancora per tre ore. Partì ch'era il tramonto. Attraversò la campagna piatta, banale, che non aveva nessun mistero né ricordi disturbanti. Qualche stupido festone di pipistrelli e di zucche pendeva dalle porte e i balconi illuminati.
Perché era Halloween, sbadigliò.
Si sentiva molto stanco. Triste. Un po' depresso. Ricordò gli occhi del corvo, che gli fece tenerezza. Come graffiasse sulla fòrmica del suo banco e sbattesse - imprigionato - contro i muri della classe, quel giorno. Come lo avessero torturato, tutti gli altri.
E ridessero, i bastardi.
Dal finestrino guardò in silenzio la città, e il mondo a cui tornava, popolato di molti spettri senza tesori da custodire.


Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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