Un racconto disubbidiente


Questo racconto è stato rifiutato da ben tre editori con la scusa un po' buffa che (cito) "molto, molto interessante, ma c'è un problema di point of view: non si capisce granché"; "non è abbastanza di fantascienza"; "compromette la qualità della SF italiana": se siete del mestiere e dell'ambiente, e conoscete la suddetta fantascienza di bandiera (le opere, tematiche, il livello in generale di tecnica e scrittura) non ho bisogno di commentare. Altrimenti... non ne ho (più) voglia. Quanto a me, lo ritengo a tutt'oggi uno dei miei migliori, e mi accorgo - rileggendolo - che forse gli impedimenti sono altri e più meschini. Lusinghieri, se volete. 

Sono lieto di regalarvi questa storia disubbidiente.


Laura percorse il Muro da via Gorizia ad Antonio Cecchi, proseguì in piazzale Doria attraversata dalla barriera. Il cemento colorato di murales, tag, graffiti si appoggiava al dorso antico di botteghe e case brune, la fiancata di una chiesa di mattoni e stucchi bianchi. Statue mutile di santi sporchi d'anni e di intemperie, Maria Vergine nel guano con il mantello di piogge e smog. Un obelisco a spartire il traffico delle Audi e delle Golf, dei ragazzi in bicicletta con i walkman nelle tasche.
Lidi grigi e silenziosi nella luce di settembre.
I quartieri in riva al mare dei pescherecci ormeggiati al porto, dei ricoveri di barche, degli hotel, i ristoranti; dei campi al chiuso di basket, tennis, dei bagnini e dei resort si interrompevano in via Mameli e sui cancelli di via Cavour, che guardavano a facciate di un alacre dopoguerra, palazzine in stile Boom: intervallate ad androni e porte del Ventennio ed umbertine; targhe in bronzo di avvocati, di notai, commercialisti, bassi portici di bar per le soste del terziario, caffè espresso ai tavolini di impiegate e praticanti. Il tintinnio di due monete da cinquecento che pagavano una pausa nel pomeriggio lavorativo.
Dalle finestre di uffici e studi con gli avvolgibili in alluminio, spalancate su un autunno troppo mite e solatio, echeggiavano i frinire dei telefoni e dei fax, il ticchettare delle tastiere e i fruscii di fotocopie. Voci stanche ma nervose che accennavano a scadenze, bolli, firme, protocolli, preventivi; due milioni e settecentomila lire come fossero ovvietà.
Il bramito degli scooter, nei parcheggi sottostanti, scavalcava il ciglio sbieco di calcestruzzo tra i due lati di città.
C'era un gatto catatonico accucciato innanzi al niente. Anche a lei, doveva ammetterlo, piaceva molto fissare il Muro.
Ruotò il tornello, passò di là.
Salì il corso VI Aprile, si sedette da Alberini, sotto le tende di tela rossa tra diplomatici e cappuccini. Cameriere in bianco-nero col monogramma di filo argento, l'orgoglio antico del pasticcere in cifre d'oro su una vetrina: "dal 1967".
Il led verde di un'insegna di farmacia segnò le diciassette, cinquantuno e zero zero. Venti gradi, il logo Bayer e daccapo le diciassette e cinquantadue.
Emiliozzi la incontrava sempre lì, la stessa ora, stesso giorno e sospettava sempre la stessa temperatura. Come al solito non c'era. Come al solito in ritardo. Era Laura invece, sempre, che arrivava di un quarto d'ora in anticipo. Si sedette:
«Una spremuta»; la ragazza la servì. Con lo sguardo chino e chiuso nei dopotutto fattacci propri.
Da una cassa dello stereo per la filodiffusione le calava nel bicchiere un po' d'Acida dei Prozac:
Grande come. Una città.
«... ma sono grandi, queste città?»
Lei prese da un tavolo il mazzo frusto dei quotidiani spiegazzati dai clienti e appiccicosi di panna e zucchero, con le macchie di caffè, marmellata e nicotina sulle pagine locali e quelle rosa della "Gazzetta". Sfogliò il "Carlino", si sbigottì: in prima pagina l'addio a Battisti. Il suo sole tramontava sul San Paolo di Milano. Giorno uggioso:
«Dio mio, no...»; era il tempo di morire.
Nessun dolore. Passò alla cronaca, gli esteri, la borsa. L'intervista a due studenti dai sorrisi un po' sfigati, che fondavano un'azienda dal nome buffo di gargarismo.
Google.
Boh?
Gli americani...
«Sei già qui! Da quando aspetti?», piombò al tavolo Emiliozzi; posò sul piano la borsa floscia di pelle beige con un'agenda e due fogli dentro per poter credere di lavorare.
Drizzò gli occhiali, si sfregò il collo, si grattò la testa calva; tirò le maniche troppo corte della giacca fino a che - si guardò attorno - la sua figura sulla vetrina di paste e torte somigliò quanto voleva a un agente letterario. Squillò un «ebbene» professionale e deciso per predisporla - per lusingarla; e non di rado le era sembrato per supplicarla... - che anche lei, quel poco, almeno, si atteggiasse a vera autrice.
Laura rise.
Triste. Divertita.
Quei bigliettini EMILIOZZI L. così seriosi nel suo taschino; EDITING & AGENCY - PUBBLICA CON NOI. Era il plurale blablajestatis di un poveraccio che si arrabatta.
Era onesto, era entusiasta. Ma in un mondo tutto suo. Da questo lato della parete dove la gente scherzava meno.
Lei scriveva, le bastava.
È una vita più leggera.
«Come prima ti ho accennato al telefono, ho un contatto: un editore di Roma. Holmes.»
«Mai sentito.»
«Fantasy, horror, fantascienza. Lato buono Pisana-Tor Pazienza. Non è una fregatura.»
«In che senso, lato buono
«Sai com'è: le città grandi...»
«Che vuol dire?»
«È differente», alzò gli occhi alla barriera seminascosta dagli edifici, la striscia scura al di là del corso e il fermento negli uffici. Fece un cenno, con la mano, a definire un di qua e di là; e a prescindere che questa fosse meglio di quell'altra. La cameriera lo interpretò come chiamasse per ordinare: lui, sovrappensiero, chiese un succo di lampone. Restò tutto nel bicchiere sotto il volo di una mosca, che posò sul bordo opaco per sfregarsi gli occhi e l'ali; «c'è un bel progetto: una collana di distopie.»
«Che adesso va di moda.»
«Tu ne scrivi.»
«Sì, qualcuna.»
Laura pensò all'archivio metà cartaceo metà informatico che occupava i suoi scaffali e una cartella del suo pc, pagine gialle dattiloscritte di anche solo l'anno prima: quando ancora si ingobbiva su un'Olivetti scarlatta Class ostinata a non arrendersi a un presente già obsoleto. Un Portogallo del Cinquecento dominato dagli Aztechi; gli Este, Re Luigi XIV e lo sbarco sulla Luna. Un Guerrieri della Notte nella Los Angeles inabissata, con le posse dei Deep One contro quelle portoricane; la Coca-Cola dei Romanov anziché quella dei cowboy.
Pare fossero piaciute. Gliele avevano comprate. Il suo nome e le sue storie su una rivista «di Milano», sillabava con importanza alle amiche coi co.co.co; «lato Muro San Giovanni», qualunque cosa significasse. Un incredibile milione intero già scialato in negozi di abbigliamento, che la aveva allucinata di un futuro da Scrittrice.
Prima o poi, morse le labbra, ci riuscirò, a non pensarci con la maiuscola.
«La consegna è a fine anno. Trecentomila battute.»
«Certo, sì. Potrei riuscirci. Uhm. Qualcosa mi inventerò.»
«Molto più facile: c'è già l'idea, devi solo svilupparla.»
«Se mi piace...»
«È una figata», Emiliozzi si scaldò: era a quel punto di personale, personalissimo convincimento che le fosse necessario che si occupasse dei suoi interessi. Mise in borsa il risultato tra i due fogli e la Moleskine. Mentre viaggiavano su un catorcio di Panda bianca l'autostrada a sei corsie dei caterpillar editoriali; «nove novembre, l'Ottantanove: ma a differenza di quando accadde nel nostro piano, tempo, universo o dimensione...»
«È un racconto distopico, non è mica Star Trek.»
«... il Muro di Berlino l'hanno davvero buttato giù.»
«Che idea di merda. Ma chi ci crede?», Laura sospirò.
«Ma se ti pagano!»
«D'accordo, ma...»
«Fai l'artista, la poetessa, vivi un mondo tutto tuo», la sufficienza dei residenti nel centro storico nei confronti dei periferici. Lei s'offese, imbarazzata: mica a caso c'era il Muro... «hai l'agente, per fortuna.»
«Quindi accetto.»
«Certo, accetti.»
«Dài, andiamo. Paga tu.»
Emiliozzi cercò in tasca la banconota da cinquemila, e contò le mille lire - in monete da duecento - che la cassiera gli corrispose senza neppure badare quante. Le infilò nel tweed sbiadito e sbatacchiarono tra i floppy disk, chiavi d'auto, casa, ufficio, le aspirine e caramelle.
«Sei a piedi?»
«Sì. Pensavo...»
«Ti accompagno.»
«Resto qui.»
«Hai un altro appuntamento», lui le chiese un po' confuso. Guardò indietro ai tavolini da cui si erano appena alzati.
«Da questa parte, intendevo dire», quanta distanza c'è in un avverbio!; «ho ancora un po' di tempo. Mi fermo in biblioteca.»
«Là da voi...»
«Non è fornita.»
«Che cosa cerchi?»
«Del materiale. Ho quattro mesi: non sono molti. Ma una ricerca sui testi giusti fa differenza tra una buona distopia e una con i nazisti.»
Lui sorrise, illuminato:
«Oggi la Comunale è aperta anche di sera.»
«Non si può restare tanto», gli rispose guardando al Muro. La luce arancio dell'imbrunire scintillò sulle inferriate, gli inesorabili congegni a tempo che le serravano a mezzanotte.
«Già, peccato. Buon lavoro, ci aggiorniamo. Una sinossi farebbe comodo.»
«La invierò tra qualche giorno.»
Si salutarono, si separarono. Laura proseguì in Piazza del Popolo e quindi in via Rossini, al palazzo seicentesco di un'estinta nobiltà dalle araldiche coperte da teloni in pvc. Le bacheche e locandine con programmi culturali, e le mappe cittadine con percorsi di interesse. I quartieri rosso vivo da quel lato di barriera, lo sbiadito giallo e verde dei rioni circostanti. La linea nera da un punto all'altro stilizzata in arabesco, un apostrofo in cemento dopo la elle de l'altro e l'altra.
Sotto i neon, tra gli scaffali, a quei tavoli di fòrmica graffiata, chiacchieravano studenti con i libri aperti a caso, penne sparse, pennarelli e le bucce di banana. Le stagnole con le scorze e un profumo di mandarino, zaini Invicta spalancati che spandevano sudore. Divanetti alle pareti sotto lampade più fioche; volti calmi alle pagine della Allende, De Carlo e Christian Jacq; i sussurri di Sepulveda, la Cornwell, Camilleri. Le sezioni assecondavano l'antico dedalo dell'edificio, più silenzioso di stanza in stanza dai bestseller settimanali alla Storia-Filosofia. La cinquantenne con il fox terrier che chiacchierava col personale - ai banchi di reception - dalla sala emeroteca grazie a Dio non si sentiva.
Laura compilò la modulistica per la richiesta: l'allampanata bibliotecaria piegò la bocca in un tic sgradevole, quando lesse il suo indirizzo di residenza. Strofinò una scarpa a terra come a grattarla dalla fanghiglia. Tornò in un attimo con i faldoni di quotidiani, periodici e fanzine contrassegnati dall'etichetta "1989".
Le sembrarono reperti, benché neppure di dieci anni.
Come passa il tempo, cazzo. E si chiese come mai, contro il rodere dei giorni, non si finisse che a sospirare quella banale constatazione.
«Chiami pure, se le occorre.»
L'impiegata la lasciò.
Lei sfogliò le pagine consunte e scricchiolanti - che odoravano di vinavil, di polvere e di muffa - fino ai titoli in neretto dell'ottobre di quell'Era:
Tumulti popolari nella - ex - Germania Est. Honecker si dimette, gli succede Egon Krenz. Turbamenti nel Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca. I ritratti di due uomini grigio-spento quali il mondo non avrebbe più veduti.
Il Governo concede ai cittadini i permessi per viaggiare verso l'Ovest.
Una maschera brechtiana scarmigliata e in giacca nera - il Ministro della Propaganda Schabowski - bofonchiava ai giornalisti circa le «neue reiseregelungen»: non spiegava quali fossero, però, queste "regole di viaggio". E le pagine si infittirono di foto tristi, bizzarre e buffe di lunghe code di Skoda e Trabant che scavalcano le frontiere, soldati slavi che sorridevano ma dal sorriso terrorizzato. I T-55 a cannoni flosci e muti, carri armati in andropausa in mezzo a un'orgia di utilitarie. Onde umane colorate sullo scoglio di Berlino; e le guardie - imbacuccate nell'uniforme e negli AK 47 - che sembravano figure dei dipinti lungo il Muro. Fili spinati, barriere, blocchi, cabinotti corazzati; la segnaletica spaventosa di lemmi gotico-futuristi si dissolveva nelle istantanee che le scorrevano sotto gli occhi. I giornali incalzarono Schabowski fino al 9 di novembre, ore 18.53: l'italiano Riccardo Ehrman, corrispondente per l'ANSA, chiese al membro del Politburo che per favore parlasse chiaro.
«È stata presa la decisione di aprire i posti di blocco», Schabowski sudò, «Se sono stato correttamente informato, quest'ordine è efficace immediatamente.»
Ci fu chi scrisse che l'eco dei telefoni si sentisse da Washington a Mosca. E le guardie di frontiera, grugniduri con il mitra, tartassarono i superiori fino a fondere gli apparecchi. Scrollate attonite di stelle e spalle e di mostrine da colonnello: Что делать?, «che fare?», non sembrava solo il titolo di un romanzo di Černyševskij. Un milione di persone che piangevano di gioia. Quella folla attraversava, si abbracciava, ritrovava.
«Sai, però: sono tedeschi»; l'inevitabile barzelletta.
Durò solo una notte. La sbornia, l'euforia. Martedì 10 novembre '89, alle ore 09.00 del mattino, ogni crucco di qua e di tornò alle fabbriche e scrivanie; sgobbò otto ore, pranzò, cenò, baciò i figli e dormì sodo per alzarsi un altro giorno. Tutti i giorni, tutti uguali. Con il Muro là nel mezzo.
Non spostarono un mattone.
Solo i membri del Politburo - che era al limite del delirio - profetizzavano che i berlinesi lo avrebbero buttato giù. Krenz e Gerlach - il suo ultimo successore, l'ultimo leader della repubblica socialista - giocarono d'anticipo a uno storico comizio. E il primo di dicembre, dalle finestre del Bundestag, spronarono la piazza ad armarsi di piccone.
La piazza restò muta.
Schiarì la gola. Poi sghignazzò. Se ne tornarono tutti a casa borbottando «das ist schwachsinn.»
Che appunto - pensò Laura - si traduce "che stronzata"... nonostante che Emiliozzi la ritenesse un'idea geniale.
Finì un'Era, il Socialismo, la Germania tornò una. Cronache estere della fine di quell'anno che raccontavano di oligarchi già a spassarsela a Cortina. Comunisti con i Rayban a fare shopping al Quadrilatero.
La Germania, tornò una... Le due Berlino restarono così com'erano.
Chiamò di nuovo l'addetta all'emeroteca per i faldoni dal '90 al '95.
Nelle sale usciva So nah! di Wim Wenders, in cui angeli ubriachi socialisti si imbrutivano in notti brave nei locali di Kreuzberg. Commediaccia con i rutti e con le tette a metà strada tra John Belushi e i peggiori Calà e Boldi, con quella scena molto famosa girata al Muro tra Ilona Staller, Karin Schubert e le guardie di frontiera... Il seguito del Cielo; la resa di un artista. Il poeta del Junger Film, dopo il crollo di quel mondo, non trovava più motivo di fare cinema di poesia.
Un'inchiesta de "L'Espresso" sulle ragioni dei berlinesi: che intervistati condividevano l'opinione che «però, quelli dell'Est...»; «sai com'è: sono dell'Ovest...». E che il Muro, in fin dei conti, era più iconico della Porta di Brandeburgo: «perché dovremmo abbatterlo?». Il precedente dei parigini con la loro Torre Eiffel, che era previsto restasse in piedi per appena due decenni.
Fu un fenomeno curioso, e da fenomeno divenne moda, weltanschauung, esprit du temps. Le capitali di tutto il mondo si inorgoglirono del Muro Piano, Muro Aulenti, Muro Fuksas, Muro Roy. E anche loro, lì in provincia, vollero il Muro Carlo Aymonino. "Zona Muro" un indirizzo molto chic ed esclusivo; "Oltremuro" pronunciato con il disgusto per le latrine e la certezza di serramanico e siringhe a una cert'ora.
Sta di fatto che il "di là" resta sempre soggettivo - pensò Laura: anche a lei, abituata a una finestra su un lungomare benché un po' lercio, intristivano i condomini da questa parte della barriera.
«Mi potreste fotocopiare queste pagine?»
«Ci dispiace, signorina», l'impiegata alzò lo sguardo all'orologio sulla parete, «la biblioteca tra poco chiude.»
«Come sarebbe, tra poco chiu...»
Il quadrante, inesorabile, segnava quasi le 23.00.
Si era immersa nella storia, in quegli sguardi in fotografia. Cinque ore nel passato e in quei volti muti e morti. E non si era neppure accorta che...
«I cancelli, cazzo!»
Corse. Non era facile, coi tacchi alti sul lastricato. Arrivò sfiatata e madida al passaggio nella barriera: le inferriate - non ci sperava - erano chiuse da un quarto d'ora. Tentò il pulsante per le emergenze che figuriamoci se funzionava, scarabocchiato di cazzi e cuori e bloccato con un chewing gum. Ruggì di rabbia, sbatté, scalciò e sputò qualche madonna. Si sedette, ragionò: mica il Muro è dappertutto. Le venne in mente quel tratto libero sotto i piloni dell'autostrada... circa a quindici chilometri in un campo in mezzo al niente. Dall'altra parte si interrompeva alla ferrovia, due binari su un terrapieno di ghiaia con mostruosi treni merci che li correvano a fari spenti. Pensò di scavalcare: ma va', che idea balorda; non sarebbe mai riuscita a arrampicarsi per cinque metri.
Cercò in borsa una carta telefonica ma sapeva di non averne: sempre che, restava inteso, si trovasse una cabina funzionante... Si ripromise di procurarselo, la buona volta!, un telefono cellulare. Ce lo avevano quasi tutti ormai, ed era sciocco intestardirsi che fosse inutile.
Chiamare Chiara, la coinquilina. Avvertirla del pasticcio. Ma anche fosse, pure lei: che cosa avrebbe potuto fare? Prendere atto che questa notte non sarebbe rincasata. «Stai tranquilla, dormo fuori», tipo... sì: ma fuori dove?
Ne aveva visti di posti pessimi, era stata in vere fogne. Anche all'estero, da sola, con il suo inglese da scuole medie: ma non si era sentita mai tanto lontana da tutto come di fronte quella serranda neppure a un'ora da casa sua.
Era assurdo. Solo assurdo.
Udì un motore da dietro l'angolo. Le corse addosso uno scooter. Due ragazzini con caschi chiusi e una sciarpa sulla faccia. Una spinta, uno strattone e le tolsero la borsa. Scomparirono sgasando con un urlo belluino.
«Vaffanculo!», lei strillò.
Era in merda. Quella vera.
Da una finestra di un piano alto elegante si affacciò - paurosa, schiva - un'anziana in pantofole, bigodini e vestaglia.
«Signora, per favore!...», tremò Laura.
Che piangeva.
L'altra, zitta, la guardò. Guardò il Muro e tornò dentro.


C'era di buono che nella borsa teneva solo la trousse e penne, e un porta tessere di similpelle che scoppiava di biglietti, card scadute, abbonamenti, buoni sconto e di scontrini. Ma il denaro e i documenti, per fortuna li ho con me: si accarezzava il taschino interno, ché quel pensiero la confortava. Un'insegna inaspettata che brillava a fondo strada le sembrò la soluzione - benché ridicola - di quel casino:
Hotel da Rosa. Due stelle. Un cesso.
Si trattava, in fin dei conti, di arrivare al giorno dopo.
«... ma stai bene, cocca, sì?»; la titolare la prese subito in confidenza: una donnona dai fianchi larghi coi seni a terra e i capelli troppo neri, come intrisi di petrolio; un medagliere di Medjugorje e braccialetti di Pietrelcina, «sei tutta pallida, sei sudata.»
«Uno scippo.»
«Oh Gesù Santo!»
«... solo un po' di paura.»
«Bevi un po'», le versò l'acqua, scelse le chiavi dalla bacheca, aprì il registro di tela verde e le chiese la patente o la carta di identità; «da dove vieni? Da come parli...»
«Sì, fa ridere, lo so.»
«Sono appena quattro passi!»
«... ma i cancelli sono chiusi.»
«Beh, è comunque dall'altra parte. T'è andata bene, secondo me.»
Lei firmò. La guardò storto.
«Di là del Muro altroché rapine! Ti stupravano, ammazzavano; là non esci, quando è sera. Il delinquente che t'ha scippato deve venire da quelle parti.»
Due mocciosi su un Zip Piaggio. Mica roba proletaria.
«Io ci abito. Da sempre. Non mi era mai successo.»
«Ma è così, sono postacci, dico bene?»
Non rispose. Salutò. Mentre entrava in ascensore la chioccia grassa la richiamò:
«Siamo intesi, signorina: la stanza va liberata alle dieci, ché poi devo pulire.»


Chiara seguì il racconto con annoiati mugugni alternati a «dài, che storia!» altrettanto indifferenti. Scrollò la Merit nel posacenere e sorbì il succo d'arancia. Si accucciò ginocchia al petto sulla seggiola spaiata; quasi scomparve nel pigiamone di feltro rosa con la stampa un po' sbiadita di Emy, Ely, Evy e Paperina. Strinse gli occhi e sghignazzò con felina impertinenza:
«Hai scopato.»
«Non mi ascolti», sbuffò Laura masticando: accompagnava coi Pan di Stelle la terza tazza di caffè lungo.
«Hai scopato.»
«Sì, vabbè.»
«È un'avventura la notte fuori.»
«Stacci tu.»
«Ma quanto hai speso?»
«Che cosa intendi?»
«Sì, un albergo... quanto costa, lì da loro
«Trentacinquemila lire.»
«Cazzo, no: conviene stare a casa.»
«Ah. Davvero.»
«È perché è la Zona Muro. Se la tirano, mi sa. Qui da noi ti va via meno.»
«Sul lungomare. Non credo proprio.»
«Ci scommetto, qui è diverso: noi facciamo un'altra vita»; un altro tiro di sigaretta, un altro sorso dal tetrapak, «tu però non ti incazzare, eh? Te la sei un po' cercata.»
«Sono stata una cogliona, ero presa dal lavoro.»
«Tzé, il lavoro», disse Chiara, «intendevo quegli stronzi: lo sanno tutti che all'altro lato c'è brutta gente. La sera, poi...»
Lei sorrise.
La baciò.
Le voleva molto bene. Non avrebbe mai ammesso quanto fosse una cretina. Chiara, di due anni più giovane di lei, viveva lieta in un mondo suo di bianchi & neri e così & cosà, tante mura - come fuori - a separare le sue nitide convinzioni dal marasma delle cose. Shit doesen't happens, punto e basta.
«Ti dispiace sparecchiare? Mi metto a scrivere. Ci provo, almeno.»
«Che cosa scrivi?»
«Non te lo dico.»
«Ti dai al porno.»
«Persino peggio.»
«Ti dai al porno.»
«È un'idea del mio agente: fantascienza distopica. Con i tedeschi...»
«Coi nazi, quindi.»
«... che nel millenovecentottantanove decidono di abbattere il Muro di Berlino.»
Chiara rise:
«'cazzo dici.»
«Fan-ta-scien-za», Laura sillabò.
«Ma un lavoro?»
Le fece una pernacchia, fuggì in camera sua. Si incastrò scomoda tra letto e tavolo curva e assorta alla consolle, con una block notes tenuto accanto per appuntare le idee volanti. Il nitore e l'esattezza della pagina di Word la intimorivano quanto il foglio sotto i tasti della qwerty: preferiva digitare solo testi in bella copia. La finestra aperta al mare - e più in là scorci di Muro - la consolavano dei quaranta metri quadri di soppalchi e cartongesso che dividevano l'appartamento. Lei scriveva, Chiara faceva zapping sul suo minuto diciotto pollici: non si parlavano per tutto il giorno o settimane di malumore.
A ciascuna una parete. Soffocate intimità.
Pensò ad un incipit. Non lo trovò. Fissò l'intonaco a mente vuota.
Il telefono la scosse dallo stato catatonico. Le pantofole di Chiara che strisciava all'apparecchio. Ripetuti «sì, chi parla?»; poi «va bene, gliela passo»; bussò allo stipite, smorfiò perplessa e le porse la cornetta.
Una voce femminile mite e stanca. Sofferente:
«Laura?»
«Sì.»
«Non mi conosce», l'accento elettrico e spigoloso di una slava o una tedesca, «sono la madre del mascalzone che ieri sera l'ha derubata. Ho trovato il suo recapito in una rubrica nella sua borsa. Vorrei restituirgliela. Vedrà, non manca niente.»
«Ma come?!...»
«Lo so, lo so: ha ragione. Mio figlio è un imbecille, ma creda: non è un ladro. Ha amici cretini. Fanno scherzi cretini.»
«Signora, mi ha aggredita
«Ha avuto una lezione. L'ha avuta, eine lektion»: lo disse in crucco aspro, né pena né indulgenza; da mamma col grembiule a kapò col manganello, «la prego, non denunci: è ancora minorenne. Ich schwöre, er wird das nicht mehr tun.»
«Non la capisco.»
«Non farà un'altra volta una cosa simile», promise lapidaria, «né lui né quell'altro delinquente. Conosco la famiglia, ich habe mit seinem vater gesprochen... Parlato con suo padre.»
Le mise una gran strizza:
«D'accordo», le concesse. Quelle teppe, all'improvviso, le suscitavano simpatia.
«Vorrebbe incontrarmi oggi? Ci tengo molto, comprenderà.»
«Da questa parte però, le spiace?»


Il narciso fatalismo dell'autore di romanzi, che si persuade che il proprio libro sia il bidè dell'universo, era in conflitto con l'inquietudine di incontrare la sconosciuta: una straniera che per quel nulla che ne sapeva proveniva da un contesto di disagio niente male, con un figlio adolescente che per noia rapinava. Conosceva il suo indirizzo: dove vivo, dove dormo... ma è tedesca!; Laura si eccitò: in coincidenza di quell'incarico di un racconto berlinese cui per ora, a dire il vero, non aveva in mente un rigo. Camminava anzi fluttuava a braccetto con Ray Bradbury, Lovecraft, Frank Herbert e un'altra filza di miti morti: che era commossa la guardassero da un empireo di stelle letterarie allineate su di sé.
«Tu sei fuori», Chiara le aveva detto.
Passeggiava avanti e indietro su un tappetto di foglie rosse nel parco. Scarpe basse, trench tabacco, camicetta e chignon doppio. Da qualche parte doveva esserci il Destino con una Leica che la eternava nel bianco e nero dello scatto alla Scrittrice.
Pensò che questa volta la maiuscola ci stesse.
Lo sguardo fisso e triste della donna in piedi al palo, accanto alla pattumiera - guardava proprio lei - la spinse a ruzzolare dal Parnaso fino a lì, un fazzoletto di tamerici in un recinto di mattoni. Si avvicinarono: l'altra annuì. Laura si stizzì, di stringerle la mano.
«Britta Seidel. Lei è...»
«Sì.»
«Guten tag. La sua borsetta. Voglio pregarla di controllare che sia come l'ha... perduta
Lei sperò che avesse usato quell'espressione solo perché magari non conosceva granché la lingua. Sì, comunque: tutto a posto. Pensò alle urla, le sberle e le lacrime rovesciate nella Fendi con il resto del pattume: un dolore familiare per due bollini del supermarket, il cartoncino del cineforum, un cartoccio di Fisherman's e un rossetto smozzicato di colore troppo acceso.
Non valevano una ruga, di quel viso color calce.
«Mi dispiace che lei pensi che siamo cattive persone.»
«È stato un bel gesto restituirmi la borsa.»
«Eine dumme. Ragazzate.»
«Ne ho fatte tante. Capisco.»
«Ha figli?»
«Non ho manco il fidanzato.»
«Non ce lo avevo neppure io.»
Passeggiarono, più calme, sul marciapiede rasente il Muro.
«Da dove viene?»
«Berlino.»
Eddàì! Laura cacciò d'istinto una mano nella tasca, dove ormai le stropicciavano il diploma del Premio Urania, Nebula, Robot e l'Hugo. E il biglietto da visita di Emiliozzi, rise, restò solo una stagnola di mentina nella grande cornucopia che le mescevano le nove muse; se questo non è un segno!...
Non lo avrebbe detto a Chiara, però: no.
«... ma è molto tempo che siamo qui. Qui in Italia, intendo dire.»
«Vorrei fare la scrittrice», non poteva più tacerlo!, «e sto scrivendo di quando il Muro...»
«Ero lì. C'era anche Thomas.»
Che dev'essere il teppista.
«... che aveva... uhm, sei anni.»
Quindicenne e già carogna.
«Non ve lo siete fatti toccare, eh?»
«L'avrei distrutto con le mie mani.»
Britta, in una vampa di rabbia antica, scoprì i denti e graffiò il vuoto come scavasse caliche secco, scatarrò e sputò marrone sui lastroni di cemento. Un piccione spiccò il volo da quell'argine sbreccato. I tondini arrugginiti, nelle crepe sulla cima, infilzarono il cielo terso del pomeriggio che a lei, per un istante, sembrò falso, surreale.
«È il vostro simbolo.»
«Non era il mio. Sono nata quando i vopos ti sparavano alla schiena. Molti amici dei miei genitori sono morti sul confine.»
«Era davvero così difficile attraversare?»
«Ti uccidevano, le ho detto.»
«Si sparava ai delinquenti, forse... e lo capisco.»
«Nein. A tutti.»
«Credevo fossero... leggende urbane; il passato si esagera, non è così? Come insomma l'olocausto: sei milioni di ebrei morti. Non è possibile. Un muro è un muro. È normale, ce n'è ovunque. Anzi», disse Laura, con un colpetto affettuoso alla parete, «è una certezza, si sta al sicuro.»
«Da mio figlio und seine freunde...»
«... per esempio», lei scherzò.
«O da persone con certe idee spaventose cui die Mauer impedisce di vedere.»
«Vuole offendermi?»
«È stato un dramma per noi, comprende. Ho lasciato la città. L'anno dopo la Germania unificata»: pronunciò quella parola con rancore e con veleno, «ho emigrato qui in Italia. Muri a Milano, Torino, Genova...»
«Tutto il mondo li ha adottati. Ne avevate solo uno. Ma già Napoli ne ha tre; credo Los Angeles ne conti nove.»
«Sono molti, molti più.»
«Qui in provincia abbiamo solo questo.»
«Ho visto l'est e l'ovest, le destre e il socialismo. Ho insultato finocchi e negri che mi chiamavano puttana e kraut. È un muro essere donna e essere sola con un bambino. È un muro essere straniera. È un muro non parlare né comprendere la lingua. L'Italia intera mi sembra un muro, se posso dirle la verità. È un muro non dialogare col proprio figlio. È un muro che ci si eviti e non riuscire a capirlo più. È un muro il suo non essere come gli altri e che loro ergano muri. E' un muro il lato opposto della strada. È un muro il posto in treno, al cinema e al ristorante. È un muro la propria casa, la propria stanza, la propria porta. Pelle e sesso sono muri, siamo muri anche noi due. E siamo entrambe tenute fuori.»
«Chiuse dentro!», lei gridò; ma che mi prende?!
C'era qualcosa negli occhi afflitti di quella donna che non voleva guardare più, non riusciva a sopportarlo:
«Devo andare», le mentì.
«Ja. Auf wiedersehen, arrivederci.»
Perché dovremmo. Speriamo no.
Se ne andò senza voltarsi con il groppo nella gola; camminò col capo chino, con i brividi, veloce. Tornò a casa. Tirò il fiato: Chiara è uscita, per fortuna; raccontarle quell'incontro la avrebbe ancora turbata troppo. Ma perché?; provo a pensare: preferì non farci caso. Una persona solo sgradevole che avrebbe presto dimenticato.
Tornò a scrivere. Si inizia.
Tentò un paragrafo di vaste folle con le mazze e coi picconi; canti, urrah, bandiere, birra e uno slancio universale verso mondi di domani. Una Berlino da technicolor - da acquarelli di Adolf Hitler - e le note dei Pink Floyd tra i grattacieli della Postdamer. E magari i Power Rangers.
Tirò un rigo. Accartocciò.
"Una donna era seduta con la faccia contro il Muro"...


Emiliozzi la attendeva sul marciapiede di neve sporca sotto i rami spogli e neri contro il cielo fumo e latte, tra una folla intirizzita nei cappotti e nelle sciarpe. Taxi in sosta, spurghi d'auto, la condensa dei saluti, volti rossi raffreddati con il berretto di lana blu. Il rollio delle valigie dal selciato al marmo grigio, il ronzio di porte elettriche, i crepitii dell'altoparlante, la voce robot filodiffusa che dettava norme e dati. Schermi piatti e manifesti alle pareti di travertino, spot lisergici e Big Babol nella hall stile littorio. Due polfer con lenti nere nella fredda luce neon, che trascinavano in un ufficio un magrebino tremante e muto. Porte opache a vetri verdi semichiuse sui locali; rom, cinesi e pakistani su una panca sverniciata. Disinfettante, sudore, orina; metallo e sangue nel naso e in gola. Le lancette di orologio si affrettavano alle 10.00. Udì il rimbombo degli intercity, sui tre binari al di là dei blocchi, che correvano ad Ancona o viceversa Forlì e Bologna.
«Hai tu i biglietti.»
«Andiamo», Laura vidimò.
La stazione, come tutte, era protetta da un proprio muro: un mosaico verde acqua con il logo FS, su una linea ininterrotta di mattonelle scarlatte e bianche. Il nevischio si scioglieva su quell'argine affilato, oltre il quale scoppiettavano nel cielo pallido nuvoloso l'asse, i cavi e le aste dei convogli. Più lontano sfrigolavano le antenne e le parabole, svaporavano i camini, rintoccavano campane, tossiva il traffico di tutti i giorni contro i lastroni della parete.
A lei dava da sempre una strana sensazione superare quei tornelli per salire sui vagoni: una ragazza col foulard rosso ti salutava con apprensione; fuori, sui cancelli - la linea gialla, la piattaforma - c'erano il doppio di giacche verdi e personale di polizia. Pochi controlli per chi partiva, tante domande per chi arrivava. Emiliozzi passò oltre presentando i documenti: non li vollero vedere, «vada pure, andate pure»; con la pazienza per i due fessi che intralciavano il passaggio. La parete era inclinata verso l'esterno, da fuori era evidente: più ripida ed ostile.
I passeggeri sedevano ai loro posti in educata e taciturna riservatezza, abbassavano i braccioli, si incaponivano ai cruciverba o ostinavano gli sguardi al paesaggio nebbia e neve, nel silenzio opalescente di quel cielo di febbraio.
Sistemarono i bagagli nella rete sottotetto, tra le pile scrupolose delle scatole e le borse. Il controllore forò i biglietti in un rosario «buon viaggio, grazie»; con la tesa in celluloide sulle folte sopracciglia.
«Non mi credevi, ma hai pubblicato», Emiliozzi la accusò.
«Ti chiedo scusa.»
«Bel risultato.»
«Ma come hai fatto?», Laura tornò a chiedergli. Non si sarebbe stancata mai di fargli ammettere la verità: una qualunque, se le piaceva. Purché lui finisse sempre per risponderle che sì, è successo, è tutto vero: ho pubblicato per Mondadori.
«Ho contatti, è il mio lavoro.»
«Non ci speravi neppure tu»: fino a ieri, poveretto, piazzava versi di casalinghe.
«L'idea distopica è eccezionale.»
«Ho scritto il libro.»
«Ma è quello è il meno», lui sbuffò seccato, «sei mica l'unica...»
«Mi rappresenti.»
«Perché sei brava.»
«Ma brava in che?»
«Perché sai scrivere.»
«Ma come tante.»
«Cani e porci...»
«Grazie.»
«... ahimè. Tu sei più brava, perché ti seguo.»
«Quindi insomma è tutto qui.»
«Dici poco. Io mi sbatto.»
«E il mio lavoro?»
«Daccapo. Insisti?»
«Vaffanculo», lei scherzò. Lo pensava per davvero. L'importante era che ora stava viaggiando verso Milano. La aspettavano: sì, lei. Attendevano il suo libro. Chissà in quanti. Centinaia. Ore diciotto, via Della Palla, sala incontri della Fnac.
Anche Chiara, questa volta, aveva spento il diciotto pollici per ascoltarla:
«Fnac! La Fnac!», le aveva chiesto per quattro volte; «Fnac! La Fnaaac!»
«Sembri una capra che soffre d'asma.»
Le tirò il suo libro addosso. La sua copia autografata. Il suo libro con il suo nome. Con il logo di Segrate.
«C'era Barbicchio lo scorso mese, alla Fnac!»
«È Baricco, casomai.»
«Seta, insomma: troppo bello. Non l'ho finito, ma ho pianto tanto. Dovresti scrivere certe storie. La tua mi piace: però...»
«Che cosa?»
«È l'idea. Dà un po' fastidio.»
«Spiega meglio.»
«Cazzo, il Muro», le aveva detto guardando fuori. Mordicchiandosi le unghie e stringendosi le spalle, quelle scapole da zombi in uno scampolo di canottiera; «se lo togli, cosa resta? L'ho immaginato, mi manda in panico.»
In cinque mesi è cambiato tutto. Convinzioni, aspettative. Look, colore e taglio dei capelli.
L'intercity infilò il varco nei confini comunali, la barriera bianco-nera con le sbarre e i contrappesi. Lungo il Muro pencolavano le impalcature di manovali con mattoni, impastatrici, gabbie e travi di metallo; tute azzurre e giacche arancio contro il morso dell'inverno.
«Vedi? Quello è faticare, mica noi», inghiottì Emiliozzi.
«Quello è duro. Cosa fanno?»
«Manutenzione.»
«Non credo.»
«Ovvero?»
Le sembrava che aggiungessero alla cima un altro metro o metro mezzo di calcestruzzo. Li superarono troppo veloce:
«Niente, è solo un'impressione.»
Accelerarono attraverso i campi, la neve sporca, la terra nera; macchie rade, magazzini, capannoni abbandonati, bruni cumuli di gomma di copertoni di tir e d'auto, sabbia e ghiaia da edilizia sotto teli di incerata. Le colline in lontananza dei confini regionali: la striscia scura di un altro muro che spezzava un'autostrada. Lastre grigie in un maggese che incrociavano un canale, sbocchi stretti rasoterra per i rii d'acqua gelata. Vecchie ville e casolari sbriciolati sul percorso, quella linea sorda e brutta parallela all'orizzonte. Più vicino alle città - prima Rimini, Cesena; l'aria fetida a Faenza - la barriera biforcava, triplicava, si intersecava nei labirinti di grate e mura tra le fabbriche e le case. Il paesaggio circostante era insieme un entro e oltre; qua, di là, abitato o desolato; le fioriere sui terrazzi e degrado rugginoso. Selve fitte di segnali di pericolo e divieto; gente in fretta a piedi e in bici che passava dai cancelli.
«Era da tanto che non viaggiavo», Laura si stupì, «ma è sempre stato così... serrato
«Che io ricordi, più o meno sì. Avranno avuto problemi loro. Certi guai li tieni fuori. Vedrai Bologna: è un monolite.»
«Le altre due presentazioni sono andate...»
«Molto bene. Gran successo.»
«'Cazzo dici? È stato un fiasco. Cinque persone la prima volta; sei o sette, la seconda. Devi sempre esagerare.»
«Devi sempre sminuire. Quante credi che saranno là, stasera?»
«Venti... trenta», si trattenne.
«Fammi ridere: alle sei. Di un pomeriggio lavorativo. Attraversare mezza Milano per ascoltare parlare te. Fantascienza, Miss Nessuno.»
«Tanto vale...»
«No, è così: sono questi i risultati.»
«Ma è Mondadori.»
«E chi sei, tu
«Saremo mica in difetto noi?»
«Scrivi bene. Ci so fare. È la gente, in generale, a cui non frega e capisce un cazzo. Da' la colpa sempre agli altri, dammi retta, ché non sbagli.»
«Che cosa pensi che debba dire, oggi?»
«Mah, solite cose: benvenuti, grazie, grazie, sorrisino, occhioni azzurri. Sorso d'acqua, tono serio. Il Muro abbattuto come metafora di un mondo che va allo sfascio, di un'Europa che si spacca, e Berlino unificata come amalgama del caos; come luogo o non-luogo di persone che non hanno un loro luogo. Suona bene, figo, no? È a questo che serve la scifì: diamo loro un'ipotesi su cui riflettere.»
«Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki immaginate da Philip Dick in The woman in the high temple, mi danno da riflettere. Non queste cazzate.»
«È il tuo romanzo. L'hai scritto tu.»
«Va' a cagare.»
«Sì, in effetti.»
Lui si alzò. Guardò la porta. Seguì deciso il segnale verde che indicava la toilette.
Masticarono panini. Laura, gonfia, si assopì. Dormì profondo, si svegliò a Parma: un girone di cemento. Ma Milano le apparì come un groviglio di muri e reti. Il convoglio si infilò nei lunghi fossi antracite e bianchi che si innalzavano da entrambi i lati per almeno dieci metri, il cui argine brillava in quel fioco mezzogiorno di affilati cocci verdi incastonati in catrame e malta. Edifici beige e gialli dalle tegole annerite, biciclette nei terrazzi, panni stesi, secchi appesi; tetti irsute dalle antenne, parafulmine e ferraglia che guardavano a binari con finestre chiuse e cieche, volti lividi e malati dietro tende e zanzariere. Sulla stretta passatoia parallela alla rotaie - mezzo metro ma neppure di bottiglie, cicche e topi - erano sparsi i misteri cupi di una scarpa da bambino, una bambola di pezza, una fiala, jeans stracciati. L'alone bruno, materia sciolta e carboni di un incendio. Lei sentì le grida di qualcuno, nella notte, che graffiava la parete per fuggire a quei terrori; voci umane disperate che imploravano un aiuto.
Omicidi nei cortili, stupri, botte nei garage: eco morte e ammutolite contro l'argine di sasso, la barriera degli sguardi che volgevano di là. Sopra i muri, attorno i muri, si chiudevano altri muri; altre cerchie attorno a quelli dietro i lucchetti di cancellate. L'intercity strattonava, si fermava, ripartiva; file accese di semafori e luci rosse di interdizione; saracinesche abbassate, alzate e che ragliavano nelle guide. Fino alle volte della Centrale e l'acciaio in art déco. Sharon Stone di dieci metri leopardata sull'architrave, le cifre d'oro di Christian Dior nel fumo grasso di rosticceri.
All'uscita li fermarono tre agenti in armi e kevlar. Tre cancelli di controlli poi salirono un taxi.
«Via Della Palla.»
«... che è via Torino.»
«Alla Fnac», disse Emiliozzi.
Era grigio, quasi buio benché fosse pomeriggio. Il tassista fece partire il tassametro. Guidò in silenzio, senza autoradio: solo la voce di trasmittente dei colleghi sulla strada. Lei volle alleviare quel silenzio di sigaretta, dopobarba, cuoio liso e di riverberi di specchietto con le sciocchezze sul brutto tempo, la stagione e i «sa com'è». Il barbuto le rispose molti «eggià», tanti grugniti. Emiliozzi, spazientito, le tirò una gomitata:
«Cazzi nostri, cazzi suoi», le sussurrò.
L'altro approvò.
Venti minuti di muro e strade; più di muro, Laura si intristì. Blocchi, sbarre, basculanti e passerelle. Polizia municipale ferma in auto ad ogni varco, cabinotti presidiati da impiegati del Comune. Trasandati, metallari, neri, asiatici e barboni che attraversavano perquisiti o che venivano spintonati; punkabbestia, gabber, skinhead che insultavano gli agenti. Gli stornelli rap e hip hop sui birilli del Potere.
«È un po' pesante.»
«Milano è grande.»
«Però gli sbirri di qua e di là...»
«Quella sera, a te, per esempio, non ti sarebbe successo nulla.»
«Questo è vero.»
«Via Torino. Diecimila», disse il tassista tirando il freno; «se ce li ha spicci, ché non ho il resto...»
«Mica è poco.»
«Sa, è Milano.»


Gli scaffali e espositori di riviste e di romanzi, le piramidi bestseller, cartonati degli autori, si alternavano alle grucce di t-shirt, k-way e felpe; collezioni di matite, portachiavi, spille e tazze sui ripiani colorati delle cover novità. I ritratti in bianco e nero di Borges e di Calvino, della Dickinson, l'Oriana, Eco, Tolkien, Shakespeare, di Baudelaire con corsivi seducenti di aforismi letterari: che cos'è leggere, che cos'è un libro, che cos'è una libreria; chi è lettore è sognatore: proprio tu; meraviglioso. Ineluttabile santino chic - alla parete più illuminata - Oscar Wilde con la pelliccia nella lente di Sarony, e una frase tanto stronza da appagare ogni cliente. Quella fila là alla cassa coi sacchetti e il marchio F; tutti colti tutti uguali di industriali unicità. I fruscii dei premi nobel come quelli dei menu, i leggii con libri aperti come tavoli di bar. Le parole che dai fogli scivolavano negli occhi, come sorsi di Bellini, spritz, Campari e Cuba libre. Dido e Frozen di Madonna che echeggiavano tra i fari, sotto volte postqualcosa di navate di design. I divanetti confessionali.
Il locale le sembrò un'idea nuova di labirinto sulla pianta di moquette di una nuova cattedrale; un percorso di costume verso un semplice concetto: la scrittura da ipermarket, fast-literature, book food; la lettura take away per un pubblico a venire, un cicaleccio da parrucchiera nelle quiete Facoltà; altri luoghi-libreria che da noi, per esempio, altrove - nelle piccole città - diventeranno caffetterie. Chiuderanno come mosche.
«Non lo credi?», chiese Laura.
Emiliozzi si grattò:
«Io mi riciclo. Sarò pierre. Tu che scrivi sei fottuta.»
La titolare sembrava un patchwork di riviste femminili: "Grazia", "Vogue", "Marie Claire", "Donna Moderna" in un unico ritaglio che si intonava con quell'ambiente. Volò vespa tra le sedie, tra i microfoni, il palchetto, le bottiglie di Acqua Lete sopra il tavolo di legno; copie in pila del suo libro, penna aziendale per firmacopie, e - mio Dio!: le bruciò di gioia il cuore - il suo volto da Scrittrice in manifesti settanta-cento.
Come gli altri. Come Wilde. Come Hemingway e Follet.
Quello scatto imbarazzato del suo fotografo di quartiere, poco meglio di uno schifo di fototessera, così grande e illuminato sembrò vero: era perfetto.
«Sono io.»
«Photoshoppata», Emiliozzi la stroncò.
Qualche timido lettore arrivò alla spicciolata. Si sedette - così presto?! - si guardò attorno e sgranchì la schiena. Prendeva a caso volumi a caso disposti a caso sugli scaffali - ma da quelli che riusciva, senza alzarsi dalla sedia - e si aggrottava e arricciava i labbri nella menzogna lo interessassero. Sfogliò un erotico capovolto, poi un libro per bambini, un catalogo di utensili da giardinaggio e qualche pagina di Magris e Tabucchi.
«È arrivato un'ora prima. Anche quello. Anche quell'altro», disse Laura, sottovoce, e evitando di fissarli.
«Guarda bene: scarpe, giacche e pantaloni. Anzi: annusa
Lei si schifò:
«Che cosa cazzo...»
«Tre barboni, non ti accorgi? È un'occasione per stare al caldo. Per sedersi. Per dormire. Senza spendere un quattrino.»
«Li dovremmo... allontanare?»
«Tre presenze. Dì, sei matta?»
Affluì il pubblico vero, finalmente. Li contò: dieci facce pensionate, qualche sguardo imbambolato. Gli occhi acquosi ed infoiati sulle sue gambe di seta nera, il crop-top e la scozzese che i ventott'anni le permettevano.
Blabla romanzo, blabla distopico, blabla Muro. Di Berlino.
D'improvviso - dai due lati di quello spazio allestito per l'occasione - si insinuarono in fila indiana, torvi e zitti, due gruppi di ragazzi. Poco più che diciottenni, avrebbe detto: fu felice.
Si sedettero. Vicini. Fianco a fianco, a fare massa. Facce scure e sguardi cupi che luccicavano d'odio cieco.
La titolare sembrò più pallida. Voltò le spalle. Tornò alla cassa.
«Scusi», chiese uno dei sette nuovi arrivati: chiodo nero con le toppe su un'improbabile camicia bianca. Orecchino al lobo lungo sotto il cranio spazzolato, spille rosse-bianco-nere con la svastica, le parve; «è lei l'autrice di questo libro?»
Ne aveva già una copia. Gualcita ed annotata.
«Certo, sì», lei balbettò.
«La ascoltiamo, dica pure», disse un altro dei ragazzi. Barba sporca fino al petto, scarpe sfonde senza lacci, berrettino arcobaleno fatto a mano in lana grossa. Fazzoletto C.S.A. - LEONCAVALLO - MURO BOITO.
«Hai capito cosa sono?», Emiliozzi sussurrò.
«No.»
«Fascisti», indicò i calvi; «gli altri, autonomi di sinistra.»
«Come, insieme?!»
«Li capisci, tu? Stai calma, resta vaga. Vai avanti.»
«Hai problemi? Parla, parla», l'unica femmina la provocò.
Laura proseguì nel raccontare la sua storia, certi fatti disturbanti che non erano accaduti: un McDonald's al Cremlino, Mandela libero, massacri etnici, e una guerra nel Golfo Persico contro l'Iraq di Saddam. Obiettarono ogni frase con aggressivi «non è così»; «quindi pensi»; «quindi affermi».
«È un romanzo di fantascienza.»
«Ma ammettiamo che sia vero.»
«E chi lo dice che non è vero?!», quella Erinni la incalzò.
«A Berlino il Muro c'è.»
«Tu lo hai visto?»
«Qui ne abbiamo.»
«Sono muri nella mente.»
«Che idea del cazzo buttarli giù», grugnì il nazi, «vuoi disordini, lo speri?»
«È solo fiction.»
«Parli inglese con qualcun altro, signora.»
«Quel coglione imperialista di Bob Dole.»
«Qui in Italia, l'italiano.»
Battipiedi sulle sedie. Toni gravi ed arrochiti. Aria elettrica, feroce. La tangibile violenza. I presenti, gnorri gnorri, abbandonarono quella zuffa. La titolare fulminò i dipendenti di fare finta che non ci fosse nessun problema; spostò libri, gadget e giornali per rimetterli dov'erano tali quali li trovava. Alzò il volume dei LunaPop e Ricky Martin dalle casse ai quattro angoli della sala. Un commesso, con la mano sulla bocca, mormorò ad una cornetta «pronto, sì... la polizia...»
Emiliozzi salutò:
«Grazie a tutti», ma nient'altro.
I balordi se ne andarono.
Anche loro, «ma alla svelta. Varca il muro, chiama un taxi, scendi in metro. Per l'albergo». Si infilarono in un vicolo. Ché chissà, alla chetichella, se li avrebbero evitati.
«Sono qui», Laura tremò.
I tre skinhead apparirono a fondo strada, i quattro autonomi sbucarono dall'altro lato. Volti tesi, pugni stretti, caschi in testa, kefiah in faccia, le bretelle e i dottor martens, i jeans larghi e le t-shirt. Un rasato mulinava una catena luccicante; la ragazza con i rasta, scatarrato alla parete, sfoderò una chiave inglese dalla giacca sbrindellata.
«I muri tengono, puttana rossa.»
«Che cazzo abbatti, fascista stronza?»
Li aggredirono. Cazzotti. Calci, sputi, pugni in faccia. Emiliozzi lasciò a terra la sua borsa scamosciata, si sfilò il cappotto scuro, lo gettò contro un nazista, gattonò, si rialzò in piedi, barcollò fuori la rissa. E scappò gridando aiuto tra i passanti spaventati. La lasciò sola. La lasciò lì. Sotto i tacchi e le sprangate. Le frustate di catena le spaccarono le labbra, le tagliarono la fronte, la stordirono, sfregiata. L'occhio pesto, cieco, gonfio sotto un destro inanellato, gli scarponi nello sterno, la testata contro il naso; fiotti rossi, croc, dolore e cartilagine sfracellata. Stesa al suolo, agonizzante, sull'asfalto, orina e sangue, Laura vide la ragazza china e urlante su di sé: calò la chiave, le spaccò il cranio.
«Puttanatroia, che cazzo hai fatto?»
«Via, compagni!»
«Camerati!»
«Porcamadonna, porcamadonna!»
Fuga. Buio.
Le sirene.


Aprì gli occhi ad Emiliozzi con un cerotto sul sopracciglio.
Il suo bel paltò di lana che puzzava di benzina.
C'era Chiara, accanto a lui: per una volta truccata bene, con un golf e una camicia dall'armadio di sua madre.
Le punse il naso l'odore chimico di anestetici e tinture, la accecò il nitore verde delle pareti di un ospedale. Il linoleum, le piastrelle e lo zinco dei catini scintillavano dei neon nelle grate sul soffitto: bianco, basso ed opprimente su un immenso dormitorio.
Le cui finestre di vetri spessi si spegnevano su un muro.
Tende bianche attorno ai letti. Visitatori avviliti e curvi. Seduti scomodi a confessarsi con i pazienti sulle seggiole di legno come quelle degli asili.
Quei silenzi. Quegli affanni. Quegli ansiti penosi.
«Ti sei svegliata», sussurrò Chiara. Tirò col naso. Quegli occhi rossi.
«Da quando... dormo?», lei balbettò. Le parole le riuscirono difficili ed incerte: dubitò di aver parlato e del loro significato. E i pensieri un po' fumosi che che le bruciavano nella testa - tanta nausea, Dio, che fitte!; quale strana sensazione - le sembrarono incoerenti con quel dialogo e i suoi sensi.
«Da un po' di ore», Emiliozzi si grattò il naso, «ma ti ricordi cos'è successo?»
Lo rivide in lontananza. Che telava. Che strillava.
«Sei un figlio di puttana.»
«Sì, sta meglio.»
«T'è andata bene.»
Le costò un dolore cane sollevarsi sul cuscino. Afferrarlo alla giacchetta, salivare e sputargli in faccia. Cercò uno specchio, un bicchiere, un piatto. Qualunque cosa che riflettesse. Tutta plastica arancione. Gliela tolsero, comunque.
«M'hanno distrutta.»
«Stai calma, no: qualche bozzo, un po' di punti», sorrise Chiara. La accarezzò; «è meno peggio di quanto credi. Tu sei figa, resti figa.»
«... e il romanzo vende un botto.»
«Ma sei scemo?»
«Guarda avanti. Sii ottimista. Ah: gli stronzi li han beccati. Messi in carcere, hanno detto. Lei, però, resterà dentro per un bel pezzo. Era tossica, tra l'altro.»
«Lei... chi è?»
«Lascia perdere. E' passata.»
«... siamo a Milano....»
«Riposa, adesso. Torniamo a casa.»
Due figure un po' sfocate affiorarono alla porta, e percorsero la sala che sembrava sconfinata. Dopo istanti dilatati si fermarono al suo letto: da vicino riconobbe - le sembrarono, piuttosto... - una materna carabiniere e un grasso medico trasandato. Biro in tasca, stetoscopio e una cartella di fogli in mano:
«Come andiamo, come andiamo?»
Non le riuscì neppure di salutare.
Il dottore prese da parte Chiara ed Emiliozzi: nel brontolio di quelle formule di circostanza lei sentì insinuarsi concetti atroci, da disperare; li ascoltava, li capiva e però non li capiva.
«... avvertire la famiglia... per fortuna trovo voi... ha reagito molto bene... trauma cranico, lesioni... certo, sì: vita normale... nessun problema, le stesse cose... eh, magari un po' diversa... con più calma, più pazienza... brutto dirlo, ma in sostanza... non sarà al cento per cento... poi chissà? ci sono casi... »
Nonostante il fard di pesca, Chiara in faccia era farina. Asciugò il mascara e il pianto che le scendeva sul volto aguzzo.


Laura scorse la classifica bestseller del "Corriere della Sera" 5 gennaio 2001: da Harry Potter a Travaglio a La versione di Barney senza trovare - ma ormai da un anno - la copertina del suo romanzo. La prima pagina del giornale era tutta per Maroni, Bossi e Formigoni che baciavano il drappo verde della Repubblica di Padania; PLEBISCITO esclamativo in caratteri elefante. Berlusconi, imbarazzato, sul grande palco di Piazza Duomo, che accettava la doppia cittadinanza come premier italiano ed emerito padano; sullo sfondo - oltre le guglie, il Pirellone e la madunina - la striscia scura di un nuovo muro sullo skyline capitale. La politica correva più veloce della fiction, la negava, la smentiva; seppellisce la mia storia.
Cercò il Nokia nero nuovo che teneva nella borsa. Nelle tasche. Del cappotto. Della giacca. Nella borsa. Finché si accorse, «che scema, sono», che lo stringeva nell'altra mano. Scorse la rubrica dalla A. Restò interdetta: «l'ho cancellato?»; passò alla E: dove in effetti trovò EMILIOZZI, poi trattino, poi AGENTE. Le pareva, che in effetti...
Le era venuta una buona idea, tutta un'altra distopia: la Lega, anziché ottenere l'indipendenza del Nord, alle elezioni politiche 2020 va al governo di tutta Italia - soprattutto del Sud - e governa su un paese di riti celtici e roghi negri. Quello sì ch'era uno sfascio: mica un muro buttato giù.
Le intuizioni fulminanti che le venivano passeggiando - qua e di là dalla barriera - finché trovava i cancelli chiusi.
In anticipo.
Alle 20.00.
Nuove norme comunali.
Le sembrava, a dire il vero, che ci pensasse da qualche giorno. Che già ieri questa storia le frullasse nella testa. Di parlarne ad Emiliozzi. Per proporla a Mondadori. Per tornare su una breccia che le sembrava si fosse chiusa.
L'ho già fatto. Oppure no.
Fermò il pollice su "chiama".
Digitò.
Segreteria.
Spense il telefono, lo mise in tasca.
Ce lo aveva ancora in mano.
Già da mesi quella serpe aveva smesso di contattarla. Cincischiava, «mi dispiace», un calendario di impedimenti; un altro muro tra i due quartieri, il centro storico e il lungo mare. La sua casa a fronte spiaggia desolata dall'inverno.
Laura si trascinò, un po' stanca e infreddolita, ad ascoltare i blabla confusi di un'anziana vagabonda:
«Tu sei l'ultima, per oggi.»
Storie estreme di geloni, fame, febbre, frutta marce, pasti altrui rigurgitati da trovare nei bidoni. Noie atroci ed omicide di bambocci di papà, con le spranghe e la benzina per passare un quarto d'ora. Ratti, uccelli, malattie. Crampi e fitte agli intestini. Volontari, preti, sacchi, luci azzurre di ambulanze. Letti di Caritas e materassi sotto ponti e dentro chiese. Lungo il Muro, in ogni caso; si finisce sempre al muro. In deliri iridescenti di una notte o di decenni.
Ma anche lei, sempre più spesso, confondeva giorni e mesi.
Le annotò sulla Moleskine.
Centinaia di post-it.
Le vicende disgraziate di quella schiuma della città: che di notte si accasciava stanca morta sotto il Muro, si addormentava contro il cemento, vomitava sulle grate, sopportava la tortura dei fari arancio lungo il perimetro. Lasciava i denti sul calcestruzzo, si infettava con il guano, si avvelenava di smog e polveri.
Ne morivano, più spesso.
Molti più di quanti lei potesse scriverne.
Il mistero era però, quando trovavano quei cadaveri, che i poveracci crepati qua erano stesi dall'altra parte; e i disgraziati finiti erano secchi su questo lato. Il pispiglio era che morti, in qualche modo, si attraversava. Senza sbirri né permessi. Non ti fermano i tornelli.
Solo morti, forse, lei temeva.
E le sembrava che quel pensiero la ossessionasse da sempre.
Tornò a casa. Suonò a Chiara.
«Che sbadata: Chiara è fuori.»
Era uscita da sei mesi. Con le valigie delle sue cose.
Cercò la chiave. Non la trovò.
Sotto il tappeto. Sotto il gradino.
«Guarda un po'...», scrollò la testa: era lì, già nella toppa.
Sedette in camera, non si spogliò. A schiena dritta sul letto sfatto. Le mani pallide sulle ginocchia. L'aria fredda, troppa luce. La finestra spalancata. In silenzio. Gli occhi vuoti.
Finché fu sera.
A fissare il Muro.




Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

1 commento:

  1. Un racconto disubbidiente, ma che fa lavorar la mente. Complimenti. Ho trovato alcuni tuoi (scusa il tu, ma io sono del 1970, siamo praticamente coetanei, e sono della Provincia di Pesaro pure io..., quindi anche compaesani, in certo modo; sono pure docente e scrittore, quindi alla fine siamo anche colleghi...) racconti nella raccolta della Barabba edizioni (L'ennesimo libro della fantascienza). Ho apprezzato particolarmente "Spazio 1669", per il quale ti faccio tanto di chapeau, non ultimo per gli endecasillabi aggiunti all'opera dell'Ariosto, notevole!
    Se ti va di leggermi, ti indico il mio blog letterario: http://cesarebartoccioni.blogspot.com/

    Saluti,
    Cesare Bartoccioni

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