Questo racconto è stato rifiutato da ben tre editori con la scusa un po' buffa che (cito) "molto, molto interessante, ma c'è un problema di point of view: non si capisce granché"; "non è abbastanza di fantascienza"; "compromette la qualità della SF italiana": se siete del mestiere e dell'ambiente, e conoscete la suddetta fantascienza di bandiera (le opere, tematiche, il livello in generale di tecnica e scrittura) non ho bisogno di commentare. Altrimenti... non ne ho (più) voglia. Quanto a me, lo ritengo a tutt'oggi uno dei miei migliori, e mi accorgo - rileggendolo - che forse gli impedimenti sono altri e più meschini. Lusinghieri, se volete.
Sono lieto di regalarvi questa storia disubbidiente.
Sono lieto di regalarvi questa storia disubbidiente.
Laura percorse il Muro da via Gorizia ad
Antonio Cecchi, proseguì in piazzale Doria attraversata dalla
barriera. Il cemento colorato di murales, tag, graffiti si appoggiava
al dorso antico di botteghe e case brune, la fiancata di una chiesa
di mattoni e stucchi bianchi. Statue mutile di santi sporchi d'anni e
di intemperie, Maria Vergine nel guano con il mantello di piogge e
smog. Un obelisco a spartire il traffico delle Audi e delle Golf, dei
ragazzi in bicicletta con i walkman nelle tasche.
Lidi
grigi e silenziosi nella luce di settembre.
I
quartieri in riva al mare dei pescherecci ormeggiati al porto, dei
ricoveri di barche, degli hotel, i ristoranti; dei campi al chiuso di
basket, tennis, dei bagnini e dei resort si interrompevano in via
Mameli e sui cancelli di via Cavour, che guardavano a facciate di un
alacre dopoguerra, palazzine in stile Boom: intervallate ad androni e
porte del Ventennio ed umbertine; targhe in bronzo di avvocati, di
notai, commercialisti, bassi portici di bar per le soste del
terziario, caffè espresso ai tavolini di impiegate e praticanti. Il
tintinnio di due monete da cinquecento che pagavano una pausa nel
pomeriggio lavorativo.
Dalle
finestre di uffici e studi con gli avvolgibili in alluminio,
spalancate su un autunno troppo mite e solatio, echeggiavano i
frinire dei telefoni e dei fax, il ticchettare delle tastiere e i
fruscii di fotocopie. Voci stanche ma nervose che accennavano a
scadenze, bolli, firme, protocolli, preventivi; due milioni e
settecentomila lire come fossero ovvietà .
Il
bramito degli scooter, nei parcheggi sottostanti, scavalcava il
ciglio sbieco di calcestruzzo tra i due lati di città .
C'era
un gatto catatonico accucciato innanzi al niente. Anche a lei, doveva
ammetterlo, piaceva molto fissare il Muro.
Ruotò
il tornello, passò di là .
Salì
il corso VI Aprile, si sedette da Alberini, sotto le tende di tela
rossa tra diplomatici e cappuccini. Cameriere in bianco-nero col
monogramma di filo argento, l'orgoglio antico del pasticcere in cifre
d'oro su una vetrina: "dal
1967".
Il
led verde di un'insegna di farmacia segnò le diciassette,
cinquantuno e zero zero. Venti gradi, il logo Bayer e daccapo le
diciassette e cinquantadue.
Emiliozzi
la incontrava sempre lì, la stessa ora, stesso giorno e sospettava
sempre la stessa temperatura. Come al solito non c'era. Come al
solito in ritardo. Era Laura invece, sempre, che arrivava di un
quarto d'ora in anticipo. Si sedette:
«Una
spremuta»; la ragazza la servì. Con lo sguardo chino e chiuso
nei dopotutto fattacci propri.
Da
una cassa dello stereo per la filodiffusione le calava nel bicchiere
un po' d'Acida dei Prozac:
Grande
come. Una città .
«...
ma sono grandi, queste città ?»
Lei
prese da un tavolo il mazzo frusto dei quotidiani spiegazzati dai
clienti e appiccicosi di panna e zucchero, con le macchie di caffè,
marmellata e nicotina sulle pagine locali e quelle rosa della
"Gazzetta". Sfogliò il "Carlino", si sbigottì:
in prima pagina l'addio a Battisti. Il suo sole tramontava sul San
Paolo di Milano. Giorno uggioso:
«Dio
mio, no...»; era il tempo di morire.
Nessun
dolore. Passò alla cronaca, gli esteri, la borsa. L'intervista a due
studenti dai sorrisi un po' sfigati, che fondavano un'azienda dal
nome buffo di gargarismo.
Google.
Boh?
Gli
americani...
«Sei
già qui! Da quando aspetti?», piombò al tavolo Emiliozzi; posò
sul piano la borsa floscia di pelle beige con un'agenda e due fogli
dentro per poter credere di lavorare.
Drizzò
gli occhiali, si sfregò il collo, si grattò la testa calva; tirò
le maniche troppo corte della giacca fino a che - si guardò attorno
- la sua figura sulla vetrina di paste e torte somigliò quanto
voleva a un agente letterario. Squillò un «ebbene» professionale
e deciso per predisporla - per lusingarla;
e non di rado le era sembrato per supplicarla... - che
anche lei, quel poco, almeno, si atteggiasse a vera autrice.
Laura
rise.
Triste.
Divertita.
Quei
bigliettini EMILIOZZI L. così seriosi nel suo taschino; EDITING &
AGENCY - PUBBLICA CON NOI. Era il plurale blablajestatis di un
poveraccio che si arrabatta.
Era
onesto, era entusiasta. Ma in un mondo tutto suo. Da questo lato
della parete dove la gente scherzava meno.
Lei
scriveva, le bastava.
È
una vita più leggera.
«Come
prima ti ho accennato al telefono, ho un contatto: un editore di
Roma. Holmes.»
«Mai
sentito.»
«Fantasy,
horror, fantascienza. Lato buono Pisana-Tor Pazienza. Non è una
fregatura.»
«In
che senso, lato buono?»
«Sai
com'è: le città grandi...»
«Che
vuol dire?»
«Ãˆ
differente», alzò gli occhi alla barriera seminascosta dagli
edifici, la striscia scura al di là del corso e il fermento negli
uffici. Fece un cenno, con la mano, a definire un di qua e di
là ; e a prescindere che questa fosse meglio di
quell'altra. La cameriera lo interpretò come chiamasse per
ordinare: lui, sovrappensiero, chiese un succo di lampone. Restò
tutto nel bicchiere sotto il volo di una mosca, che posò sul bordo
opaco per sfregarsi gli occhi e l'ali; «c'è un bel progetto: una
collana di distopie.»
«Che
adesso va di moda.»
«Tu
ne scrivi.»
«Sì,
qualcuna.»
Laura
pensò all'archivio metà cartaceo metà informatico che occupava i
suoi scaffali e una cartella del suo pc, pagine gialle dattiloscritte
di anche solo l'anno prima: quando ancora si ingobbiva su un'Olivetti
scarlatta Class ostinata a non arrendersi a un presente giÃ
obsoleto. Un Portogallo del Cinquecento dominato dagli Aztechi; gli
Este, Re Luigi XIV e lo sbarco sulla Luna. Un Guerrieri della
Notte nella Los Angeles inabissata, con le posse dei Deep
One contro quelle portoricane; la Coca-Cola dei Romanov anziché
quella dei cowboy.
Pare
fossero piaciute. Gliele avevano comprate. Il suo nome e le sue
storie su una rivista «di Milano», sillabava con importanza alle
amiche coi co.co.co; «lato Muro San Giovanni», qualunque cosa
significasse. Un incredibile milione intero già scialato in negozi
di abbigliamento, che la aveva allucinata di un futuro da Scrittrice.
Prima
o poi, morse le labbra, ci riuscirò, a non pensarci con la
maiuscola.
«La
consegna è a fine anno. Trecentomila battute.»
«Certo,
sì. Potrei riuscirci. Uhm. Qualcosa mi inventerò.»
«Molto
più facile: c'è già l'idea, devi solo svilupparla.»
«Se
mi piace...»
«Ãˆ
una figata», Emiliozzi si scaldò: era a quel punto di personale,
personalissimo convincimento che le fosse necessario che si occupasse
dei suoi interessi. Mise in borsa il risultato tra i due fogli e la
Moleskine. Mentre viaggiavano su un catorcio di Panda bianca
l'autostrada a sei corsie dei caterpillar editoriali; «nove
novembre, l'Ottantanove: ma a differenza di quando accadde nel nostro
piano, tempo, universo o dimensione...»
«Ãˆ
un racconto distopico, non è mica Star Trek.»
«...
il Muro di Berlino l'hanno davvero buttato giù.»
«Che
idea di merda. Ma chi ci crede?», Laura sospirò.
«Ma
se ti pagano!»
«D'accordo,
ma...»
«Fai
l'artista, la poetessa, vivi un mondo tutto tuo», la sufficienza dei
residenti nel centro storico nei confronti dei periferici. Lei
s'offese, imbarazzata: mica a caso c'era il Muro... «hai l'agente,
per fortuna.»
«Quindi
accetto.»
«Certo,
accetti.»
«DÃ i,
andiamo. Paga tu.»
Emiliozzi
cercò in tasca la banconota da cinquemila, e contò le mille lire -
in monete da duecento - che la cassiera gli corrispose senza neppure
badare quante. Le infilò nel tweed sbiadito e sbatacchiarono tra i
floppy disk, chiavi d'auto, casa, ufficio, le aspirine e caramelle.
«Sei
a piedi?»
«Sì.
Pensavo...»
«Ti
accompagno.»
«Resto
qui.»
«Hai
un altro appuntamento», lui le chiese un po' confuso. Guardò
indietro ai tavolini da cui si erano appena alzati.
«Da
questa parte, intendevo dire», quanta distanza c'è
in un avverbio!; «ho ancora un po' di tempo. Mi fermo in
biblioteca.»
«LÃ
da voi...»
«Non
è fornita.»
«Che
cosa cerchi?»
«Del
materiale. Ho quattro mesi: non sono molti. Ma una ricerca sui testi
giusti fa differenza tra una buona distopia e una con i nazisti.»
Lui
sorrise, illuminato:
«Oggi
la Comunale è aperta anche di sera.»
«Non
si può restare tanto», gli rispose guardando al Muro. La luce
arancio dell'imbrunire scintillò sulle inferriate, gli inesorabili
congegni a tempo che le serravano a mezzanotte.
«Già ,
peccato. Buon lavoro, ci aggiorniamo. Una sinossi farebbe comodo.»
«La
invierò tra qualche giorno.»
Si
salutarono, si separarono. Laura proseguì in Piazza del Popolo e
quindi in via Rossini, al palazzo seicentesco di un'estinta nobiltÃ
dalle araldiche coperte da teloni in pvc. Le bacheche e locandine con
programmi culturali, e le mappe cittadine con percorsi di interesse.
I quartieri rosso vivo da quel lato di barriera, lo sbiadito giallo e
verde dei rioni circostanti. La linea nera da un punto all'altro
stilizzata in arabesco, un apostrofo in cemento dopo la elle de
l'altro e l'altra.
Sotto
i neon, tra gli scaffali, a quei tavoli di fòrmica graffiata,
chiacchieravano studenti con i libri aperti a caso, penne sparse,
pennarelli e le bucce di banana. Le stagnole con le scorze e un
profumo di mandarino, zaini Invicta spalancati che spandevano sudore.
Divanetti alle pareti sotto lampade più fioche; volti calmi alle
pagine della Allende, De Carlo e Christian Jacq; i sussurri di
Sepulveda, la Cornwell, Camilleri. Le sezioni assecondavano l'antico
dedalo dell'edificio, più silenzioso di stanza in stanza dai
bestseller settimanali alla Storia-Filosofia. La cinquantenne con il
fox terrier che chiacchierava col personale - ai banchi di reception
- dalla sala emeroteca grazie a Dio non si sentiva.
Laura
compilò la modulistica per la richiesta: l'allampanata bibliotecaria
piegò la bocca in un tic sgradevole, quando lesse il suo indirizzo
di residenza. Strofinò una scarpa a terra come a grattarla dalla
fanghiglia. Tornò in un attimo con i faldoni di quotidiani,
periodici e fanzine
contrassegnati dall'etichetta "1989".
Le
sembrarono
reperti,
benché neppure di dieci anni.
Come
passa il tempo, cazzo. E
si chiese come mai, contro il rodere dei giorni, non si finisse che a
sospirare quella banale constatazione.
«Chiami
pure, se le occorre.»
L'impiegata
la lasciò.
Lei
sfogliò le pagine consunte e scricchiolanti - che odoravano di
vinavil, di polvere e di muffa - fino ai titoli in
neretto dell'ottobre di quell'Era:
Tumulti
popolari nella - ex - Germania
Est. Honecker si dimette, gli succede Egon Krenz. Turbamenti nel
Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca. I
ritratti di due uomini grigio-spento quali il mondo non avrebbe più
veduti.
Il
Governo concede ai cittadini i permessi per viaggiare verso l'Ovest.
Una
maschera brechtiana scarmigliata e in giacca nera - il Ministro della
Propaganda Schabowski - bofonchiava ai giornalisti circa le «neue
reiseregelungen»: non spiegava quali fossero, però, queste "regole
di viaggio". E le pagine si infittirono di foto tristi, bizzarre
e buffe di lunghe code di Skoda e Trabant che scavalcano le
frontiere, soldati slavi che sorridevano ma dal sorriso terrorizzato.
I T-55 a cannoni flosci e muti, carri armati in andropausa in mezzo a
un'orgia di utilitarie. Onde umane colorate sullo scoglio di Berlino;
e le guardie - imbacuccate nell'uniforme e negli AK 47 - che
sembravano figure dei dipinti lungo il Muro. Fili spinati, barriere,
blocchi, cabinotti corazzati; la segnaletica spaventosa di lemmi
gotico-futuristi si dissolveva nelle istantanee che le scorrevano
sotto gli occhi. I giornali incalzarono Schabowski fino al 9 di
novembre, ore 18.53: l'italiano Riccardo Ehrman, corrispondente per
l'ANSA, chiese al membro del
Politburo che per favore parlasse chiaro.
«Ãˆ
stata
presa la decisione di aprire i posti di blocco»,
Schabowski sudò, «Se
sono stato correttamente informato, quest'ordine è efficace
immediatamente.»
Ci
fu chi scrisse che l'eco dei telefoni si sentisse da Washington a
Mosca. E le guardie di frontiera, grugniduri con il mitra,
tartassarono i superiori fino a fondere gli apparecchi. Scrollate
attonite di stelle e spalle e di mostrine da colonnello: Что
делать?,
«che
fare?»,
non sembrava solo il titolo di un romanzo di Černyševskij. Un
milione di persone che piangevano di gioia. Quella folla
attraversava, si abbracciava, ritrovava.
«Sai,
però: sono tedeschi»; l'inevitabile barzelletta.
Durò
solo una notte. La sbornia, l'euforia. Martedì 10 novembre '89, alle
ore 09.00 del mattino, ogni crucco di qua
e di lÃ
tornò alle fabbriche e scrivanie; sgobbò otto ore, pranzò, cenò,
baciò i figli e dormì sodo per alzarsi un altro giorno. Tutti i
giorni, tutti uguali. Con il Muro là nel mezzo.
Non
spostarono un mattone.
Solo
i membri del Politburo - che era al limite del delirio -
profetizzavano che i berlinesi lo avrebbero buttato giù. Krenz e
Gerlach - il suo ultimo successore, l'ultimo leader della repubblica
socialista - giocarono d'anticipo a uno storico comizio. E il primo
di dicembre, dalle finestre del Bundestag, spronarono la piazza ad
armarsi di piccone.
La
piazza restò muta.
Schiarì
la gola. Poi sghignazzò. Se ne tornarono tutti
a casa borbottando «das
ist schwachsinn.»
Che
appunto
- pensò Laura - si
traduce "che stronzata"...
nonostante che Emiliozzi la ritenesse un'idea geniale.
Finì
un'Era, il Socialismo, la Germania tornò una. Cronache estere della
fine di quell'anno che raccontavano di oligarchi già a spassarsela a
Cortina. Comunisti con i Rayban a fare shopping al Quadrilatero.
La
Germania,
tornò una... Le due Berlino restarono così com'erano.
Chiamò
di nuovo l'addetta all'emeroteca per i faldoni dal '90 al '95.
Nelle
sale usciva So
nah!
di Wim Wenders, in cui angeli ubriachi socialisti si imbrutivano in
notti brave nei locali di Kreuzberg. Commediaccia con i rutti e con
le tette a metà strada tra John Belushi e i peggiori Calà e Boldi,
con quella
scena
molto famosa girata al Muro tra Ilona Staller, Karin Schubert e le
guardie di frontiera... Il seguito del Cielo;
la resa di un artista. Il poeta del Junger Film, dopo il crollo di
quel mondo, non trovava più motivo di fare cinema di poesia.
Un'inchiesta
de "L'Espresso" sulle ragioni dei berlinesi: che
intervistati condividevano l'opinione che «però, quelli
dell'Est...»; «sai com'è: sono dell'Ovest...». E che il Muro, in
fin dei conti, era più iconico della Porta di Brandeburgo: «perché
dovremmo abbatterlo?». Il precedente dei parigini con la loro Torre
Eiffel, che era previsto restasse in piedi per appena due decenni.
Fu
un fenomeno curioso, e da fenomeno divenne moda, weltanschauung,
esprit du temps. Le
capitali di tutto il mondo si inorgoglirono del Muro Piano, Muro
Aulenti, Muro Fuksas, Muro Roy. E anche loro, lì in provincia,
vollero il Muro Carlo Aymonino. "Zona
Muro" un indirizzo molto chic ed esclusivo; "Oltremuro"
pronunciato con il disgusto per le latrine e la certezza di
serramanico e siringhe a una cert'ora.
Sta
di fatto che il "di là " resta sempre soggettivo - pensò
Laura: anche a lei, abituata a una finestra su un lungomare benché
un po' lercio, intristivano i condomini da questa parte della
barriera.
«Mi
potreste fotocopiare queste pagine?»
«Ci
dispiace, signorina», l'impiegata alzò lo sguardo all'orologio
sulla parete, «la biblioteca tra poco chiude.»
«Come
sarebbe, tra poco chiu...»
Il
quadrante, inesorabile, segnava quasi le 23.00.
Si
era immersa nella storia, in quegli sguardi in fotografia. Cinque ore
nel passato e in quei volti muti e morti. E non si era neppure
accorta che...
«I
cancelli, cazzo!»
Corse.
Non era facile, coi tacchi alti sul lastricato. Arrivò sfiatata e
madida al passaggio nella barriera: le inferriate - non ci sperava -
erano chiuse da un quarto d'ora. Tentò il pulsante per le emergenze
che figuriamoci se funzionava, scarabocchiato di cazzi e cuori e
bloccato con un chewing gum. Ruggì di rabbia, sbatté, scalciò e
sputò qualche madonna. Si sedette, ragionò: mica
il Muro è dappertutto. Le
venne in mente quel tratto libero sotto i piloni dell'autostrada...
circa a quindici chilometri in un campo in mezzo al niente.
Dall'altra parte si interrompeva alla ferrovia, due binari su un
terrapieno di ghiaia con mostruosi treni merci che li correvano a
fari spenti. Pensò di scavalcare: ma
va', che idea balorda;
non sarebbe mai riuscita a arrampicarsi per cinque metri.
Cercò
in borsa una carta telefonica ma sapeva di non averne: sempre che,
restava inteso, si trovasse una cabina funzionante... Si ripromise di
procurarselo, la buona volta!, un telefono cellulare. Ce lo avevano
quasi tutti ormai, ed era sciocco intestardirsi che fosse inutile.
Chiamare
Chiara, la coinquilina. Avvertirla del pasticcio. Ma anche fosse,
pure lei: che cosa avrebbe potuto fare? Prendere atto che questa
notte non sarebbe rincasata. «Stai tranquilla, dormo fuori»,
tipo... sì: ma fuori dove?
Ne
aveva visti di posti pessimi, era stata in vere fogne. Anche
all'estero, da sola, con il suo inglese da scuole medie: ma non si
era sentita mai tanto lontana da tutto come di fronte quella serranda
neppure a un'ora da casa sua.
Era
assurdo. Solo assurdo.
Udì
un motore da dietro l'angolo. Le corse addosso uno scooter. Due
ragazzini con caschi chiusi e una sciarpa sulla faccia. Una spinta,
uno strattone e le tolsero la borsa. Scomparirono sgasando con un
urlo belluino.
«Vaffanculo!»,
lei strillò.
Era
in merda. Quella vera.
Da
una finestra di un piano alto elegante si affacciò - paurosa, schiva
- un'anziana in pantofole, bigodini e vestaglia.
«Signora,
per favore!...», tremò Laura.
Che
piangeva.
L'altra,
zitta, la guardò. Guardò il Muro e tornò dentro.
C'era
di buono che nella borsa teneva solo la trousse e penne, e un porta
tessere di similpelle che scoppiava di biglietti, card scadute,
abbonamenti, buoni sconto e di scontrini.
Ma il denaro e i documenti, per fortuna li ho con me:
si accarezzava il taschino interno, ché quel pensiero la confortava.
Un'insegna inaspettata che brillava a fondo strada le sembrò la
soluzione - benché ridicola - di quel casino:
Hotel
da Rosa. Due stelle. Un cesso.
Si
trattava, in fin dei conti, di arrivare al giorno dopo.
«...
ma stai bene, cocca, sì?»; la titolare la prese subito in
confidenza: una donnona dai fianchi larghi coi seni a terra e i
capelli troppo neri, come intrisi di petrolio; un medagliere di
Medjugorje e braccialetti di Pietrelcina, «sei tutta pallida, sei
sudata.»
«Uno
scippo.»
«Oh
Gesù Santo!»
«...
solo un po' di paura.»
«Bevi
un po'», le versò l'acqua, scelse le chiavi dalla bacheca, aprì il
registro di tela verde e le chiese la patente o la carta di identità ;
«da dove vieni? Da come parli...»
«Sì,
fa ridere, lo so.»
«Sono
appena quattro passi!»
«...
ma i cancelli sono chiusi.»
«Beh,
è comunque dall'altra parte. T'è andata bene, secondo me.»
Lei
firmò. La guardò storto.
«Di
là del Muro altroché rapine! Ti stupravano, ammazzavano; là non
esci, quando è sera. Il delinquente che t'ha scippato deve venire da
quelle parti.»
Due
mocciosi su un Zip Piaggio. Mica roba proletaria.
«Io
ci abito. Da sempre. Non mi era mai successo.»
«Ma
è così, sono postacci, dico bene?»
Non
rispose. Salutò. Mentre entrava in ascensore la chioccia grassa la
richiamò:
«Siamo
intesi, signorina: la stanza va liberata alle dieci, ché poi devo
pulire.»
Chiara
seguì il racconto con annoiati mugugni alternati a «dà i, che
storia!» altrettanto indifferenti. Scrollò la Merit nel posacenere
e sorbì il succo d'arancia. Si accucciò ginocchia al petto sulla
seggiola spaiata; quasi scomparve nel pigiamone di feltro rosa con la
stampa un po' sbiadita di Emy, Ely, Evy e Paperina. Strinse gli occhi
e sghignazzò con felina impertinenza:
«Hai
scopato.»
«Non
mi ascolti», sbuffò Laura masticando: accompagnava coi Pan di
Stelle la terza tazza di caffè lungo.
«Hai
scopato.»
«Sì,
vabbè.»
«Ãˆ
un'avventura la notte fuori.»
«Stacci
tu.»
«Ma
quanto hai speso?»
«Che
cosa intendi?»
«Sì,
un albergo... quanto costa, lì da loro?»
«Trentacinquemila
lire.»
«Cazzo,
no: conviene stare a casa.»
«Ah.
Davvero.»
«Ãˆ
perché è la Zona Muro. Se la tirano, mi sa. Qui da noi ti va via
meno.»
«Sul
lungomare. Non credo proprio.»
«Ci
scommetto, qui è diverso: noi facciamo un'altra vita»; un altro
tiro di sigaretta, un altro sorso dal tetrapak, «tu però non ti
incazzare, eh? Te la sei un po' cercata.»
«Sono
stata una cogliona, ero presa dal lavoro.»
«Tzé,
il lavoro», disse Chiara, «intendevo quegli stronzi: lo sanno tutti
che all'altro lato c'è brutta gente. La sera, poi...»
Lei
sorrise.
La
baciò.
Le
voleva molto bene. Non avrebbe mai ammesso quanto fosse una cretina.
Chiara, di due anni più giovane di lei, viveva lieta in un mondo suo
di bianchi & neri e così & cosà , tante mura - come fuori -
a separare le sue nitide convinzioni dal marasma delle cose. Shit
doesen't
happens, punto e basta.
«Ti
dispiace sparecchiare? Mi metto a scrivere. Ci provo, almeno.»
«Che
cosa scrivi?»
«Non
te lo dico.»
«Ti
dai al porno.»
«Persino
peggio.»
«Ti
dai al porno.»
«Ãˆ
un'idea del mio agente: fantascienza distopica. Con i tedeschi...»
«Coi
nazi, quindi.»
«...
che nel millenovecentottantanove decidono di abbattere il Muro di
Berlino.»
Chiara
rise:
«'cazzo
dici.»
«Fan-ta-scien-za»,
Laura sillabò.
«Ma
un lavoro?»
Le
fece una pernacchia, fuggì in camera sua. Si incastrò scomoda tra
letto e tavolo curva e assorta alla consolle, con una block notes
tenuto accanto per appuntare le idee volanti. Il nitore e l'esattezza
della pagina di Word la intimorivano quanto il foglio sotto i tasti
della qwerty: preferiva digitare solo testi in bella copia. La
finestra aperta al mare - e più in là scorci di Muro - la
consolavano dei quaranta metri quadri di soppalchi e cartongesso che
dividevano l'appartamento. Lei scriveva, Chiara faceva zapping sul
suo minuto diciotto pollici: non si parlavano per tutto il giorno o
settimane di malumore.
A
ciascuna una parete. Soffocate intimità .
Pensò
ad un incipit. Non lo trovò. Fissò l'intonaco a mente vuota.
Il
telefono la scosse dallo stato catatonico. Le pantofole di Chiara che
strisciava all'apparecchio. Ripetuti «sì, chi parla?»; poi «va
bene, gliela passo»; bussò allo stipite, smorfiò perplessa e le
porse la cornetta.
Una
voce femminile mite e stanca. Sofferente:
«Laura?»
«Sì.»
«Non
mi conosce», l'accento elettrico e spigoloso di una slava o una
tedesca, «sono la madre del mascalzone che ieri sera l'ha derubata.
Ho trovato il suo recapito in una rubrica nella sua borsa. Vorrei
restituirgliela. Vedrà , non manca niente.»
«Ma
come?!...»
«Lo
so, lo so: ha ragione. Mio figlio è un imbecille, ma creda: non è
un ladro. Ha amici cretini. Fanno scherzi cretini.»
«Signora,
mi ha aggredita.»
«Ha
avuto una lezione. L'ha avuta, eine lektion»: lo disse in
crucco aspro, né pena né indulgenza; da mamma col grembiule a kapò
col manganello, «la prego, non denunci: è ancora minorenne. Ich
schwöre, er wird das nicht mehr tun.»
«Non
la capisco.»
«Non
farà un'altra volta una cosa simile», promise lapidaria, «né lui
né quell'altro delinquente. Conosco la famiglia, ich habe mit seinem
vater gesprochen... Parlato con suo padre.»
Le
mise una gran strizza:
«D'accordo»,
le concesse. Quelle teppe, all'improvviso, le suscitavano simpatia.
«Vorrebbe
incontrarmi oggi? Ci tengo molto, comprenderà .»
«Da
questa parte però, le spiace?»
Il
narciso fatalismo dell'autore di romanzi, che si persuade che il
proprio libro sia il bidè dell'universo, era in conflitto con
l'inquietudine di incontrare la sconosciuta: una straniera che per
quel nulla che ne sapeva proveniva da un contesto di disagio niente
male, con un figlio adolescente che per noia rapinava. Conosceva il
suo indirizzo: dove vivo, dove dormo... ma è tedesca!; Laura
si eccitò: in coincidenza di quell'incarico di un racconto berlinese
cui per ora, a dire il vero, non aveva in mente un rigo. Camminava
anzi fluttuava a braccetto con Ray Bradbury, Lovecraft, Frank Herbert
e un'altra filza di miti morti: che era commossa la guardassero da un
empireo di stelle letterarie allineate su di sé.
«Tu
sei fuori», Chiara le aveva detto.
Passeggiava
avanti e indietro su un tappetto di foglie rosse nel parco. Scarpe
basse, trench tabacco, camicetta e chignon doppio. Da qualche parte
doveva esserci il Destino con una Leica che la eternava nel bianco e
nero dello scatto alla Scrittrice.
Pensò
che questa volta la maiuscola ci stesse.
Lo
sguardo fisso e triste della donna in piedi al palo, accanto alla
pattumiera - guardava proprio lei - la spinse a ruzzolare dal Parnaso
fino a lì, un fazzoletto di tamerici in un recinto di mattoni. Si
avvicinarono: l'altra annuì. Laura si stizzì, di stringerle la
mano.
«Britta
Seidel. Lei è...»
«Sì.»
«Guten
tag. La sua borsetta. Voglio pregarla di controllare che sia come
l'ha... perduta.»
Lei
sperò che avesse usato quell'espressione solo perché magari non
conosceva granché la lingua. Sì, comunque: tutto a posto. Pensò
alle urla, le sberle e le lacrime rovesciate nella Fendi con il resto
del pattume: un dolore familiare per due bollini del supermarket, il
cartoncino del cineforum, un cartoccio di Fisherman's e un rossetto
smozzicato di colore troppo acceso.
Non
valevano una ruga, di quel viso color calce.
«Mi
dispiace che lei pensi che siamo cattive persone.»
«Ãˆ
stato un bel gesto restituirmi la borsa.»
«Eine
dumme. Ragazzate.»
«Ne
ho fatte tante. Capisco.»
«Ha
figli?»
«Non
ho manco il fidanzato.»
«Non
ce lo avevo neppure io.»
Passeggiarono,
più calme, sul marciapiede rasente il Muro.
«Da
dove viene?»
«Berlino.»
Eddà ì!
Laura cacciò d'istinto una mano nella tasca, dove ormai le
stropicciavano il diploma del Premio Urania, Nebula, Robot e l'Hugo.
E il biglietto da visita di Emiliozzi, rise, restò solo una stagnola
di mentina nella grande cornucopia che le mescevano le nove muse; se
questo non è un segno!...
Non
lo avrebbe detto a Chiara, però: no.
«...
ma è molto tempo che siamo qui. Qui in Italia, intendo dire.»
«Vorrei
fare la scrittrice», non poteva più tacerlo!, «e sto scrivendo di
quando il Muro...»
«Ero
lì. C'era anche Thomas.»
Che
dev'essere il teppista.
«...
che aveva... uhm, sei anni.»
Quindicenne
e già carogna.
«Non
ve lo siete fatti toccare, eh?»
«L'avrei
distrutto con le mie mani.»
Britta,
in una vampa di rabbia antica, scoprì i denti e graffiò il vuoto
come scavasse caliche secco, scatarrò e sputò marrone sui lastroni
di cemento. Un piccione spiccò il volo da quell'argine sbreccato. I
tondini arrugginiti, nelle crepe sulla cima, infilzarono il cielo
terso del pomeriggio che a lei, per un istante, sembrò falso,
surreale.
«Ãˆ
il vostro simbolo.»
«Non
era il mio. Sono nata quando i vopos ti sparavano alla
schiena. Molti amici dei miei genitori sono morti sul confine.»
«Era
davvero così difficile attraversare?»
«Ti
uccidevano, le ho detto.»
«Si
sparava ai delinquenti, forse... e lo capisco.»
«Nein.
A tutti.»
«Credevo
fossero... leggende urbane; il passato si esagera, non è così? Come
insomma l'olocausto: sei milioni di ebrei morti. Non è possibile. Un
muro è un muro. È normale, ce n'è ovunque. Anzi», disse Laura,
con un colpetto affettuoso alla parete, «Ã¨ una certezza, si sta al
sicuro.»
«Da
mio figlio und seine freunde...»
«...
per esempio», lei scherzò.
«O
da persone con certe idee spaventose cui die Mauer impedisce di
vedere.»
«Vuole
offendermi?»
«Ãˆ
stato un dramma per noi, comprende. Ho lasciato la città . L'anno
dopo la Germania unificata»: pronunciò quella parola con
rancore e con veleno, «ho emigrato qui in Italia. Muri a Milano,
Torino, Genova...»
«Tutto
il mondo li ha adottati. Ne avevate solo uno. Ma già Napoli ne ha
tre; credo Los Angeles ne conti nove.»
«Sono
molti, molti più.»
«Qui
in provincia abbiamo solo questo.»
«Ho
visto l'est e l'ovest, le destre e il socialismo. Ho insultato
finocchi e negri che mi chiamavano puttana e kraut. È un muro
essere donna e essere sola con un bambino. È un muro essere
straniera. È un muro non parlare né comprendere la lingua. L'Italia
intera mi sembra un muro, se posso dirle la verità . È un muro non
dialogare col proprio figlio. È un muro che ci si eviti e non
riuscire a capirlo più. È un muro il suo non essere come gli altri
e che loro ergano muri. E' un muro il lato opposto della strada. È
un muro il posto in treno, al cinema e al ristorante. È un muro la
propria casa, la propria stanza, la propria porta. Pelle e sesso sono
muri, siamo muri anche noi due. E siamo entrambe tenute fuori.»
«Chiuse
dentro!», lei gridò; ma che mi prende?!
C'era
qualcosa negli occhi afflitti di quella donna che non voleva guardare
più, non riusciva a sopportarlo:
«Devo
andare», le mentì.
«Ja.
Auf wiedersehen, arrivederci.»
Perché
dovremmo. Speriamo no.
Se
ne andò senza voltarsi con il groppo nella gola; camminò col capo
chino, con i brividi, veloce. Tornò a casa. Tirò il fiato: Chiara
è uscita, per fortuna; raccontarle quell'incontro la avrebbe
ancora turbata troppo. Ma perché?; provo a pensare: preferì
non farci caso. Una persona solo sgradevole che avrebbe presto
dimenticato.
Tornò
a scrivere. Si inizia.
Tentò
un paragrafo di vaste folle con le mazze e coi picconi; canti, urrah,
bandiere, birra e uno slancio universale verso mondi di domani. Una
Berlino da technicolor - da acquarelli di Adolf Hitler - e le note
dei Pink Floyd tra i grattacieli della Postdamer. E magari i Power
Rangers.
Tirò
un rigo. Accartocciò.
"Una
donna era seduta con la faccia contro il Muro"...
Emiliozzi
la attendeva sul marciapiede di neve sporca sotto i rami spogli e
neri contro il cielo fumo e latte, tra una folla intirizzita nei
cappotti e nelle sciarpe. Taxi in sosta, spurghi d'auto, la condensa
dei saluti, volti rossi raffreddati con il berretto di lana blu. Il
rollio delle valigie dal selciato al marmo grigio, il ronzio di porte
elettriche, i crepitii dell'altoparlante, la voce robot filodiffusa
che dettava norme e dati. Schermi piatti e manifesti alle pareti di
travertino, spot lisergici e Big Babol nella hall stile littorio. Due
polfer con lenti nere nella fredda luce neon, che trascinavano in un
ufficio un magrebino tremante e muto. Porte opache a vetri verdi
semichiuse sui locali; rom, cinesi e pakistani su una panca
sverniciata. Disinfettante, sudore, orina; metallo e sangue nel naso
e in gola. Le lancette di orologio si affrettavano alle 10.00. Udì
il rimbombo degli intercity, sui tre binari al di là dei blocchi,
che correvano ad Ancona o viceversa Forlì e Bologna.
«Hai
tu i biglietti.»
«Andiamo»,
Laura vidimò.
La
stazione, come tutte, era protetta da un proprio muro: un mosaico
verde acqua con il logo FS, su una linea ininterrotta di mattonelle
scarlatte e bianche. Il nevischio si scioglieva su quell'argine
affilato, oltre il quale scoppiettavano nel cielo pallido
nuvoloso l'asse, i cavi e le aste dei convogli. Più lontano
sfrigolavano le antenne e le parabole, svaporavano i camini,
rintoccavano campane, tossiva il traffico di tutti i giorni contro i
lastroni della parete.
A
lei dava da sempre una strana sensazione superare quei tornelli per
salire sui vagoni: una ragazza col foulard rosso ti salutava con
apprensione; fuori, sui cancelli - la linea gialla, la piattaforma -
c'erano il doppio di giacche verdi e personale di polizia. Pochi
controlli per chi partiva, tante domande per chi arrivava. Emiliozzi
passò oltre presentando i documenti: non li vollero vedere, «vada
pure, andate pure»; con la pazienza per i due fessi che
intralciavano il passaggio. La parete era inclinata verso l'esterno,
da fuori era evidente: più ripida ed ostile.
I
passeggeri sedevano ai loro posti in educata e taciturna
riservatezza, abbassavano i braccioli, si incaponivano ai cruciverba
o ostinavano gli sguardi al paesaggio nebbia e neve, nel silenzio
opalescente di quel cielo di febbraio.
Sistemarono
i bagagli nella rete sottotetto, tra le pile scrupolose delle scatole
e le borse. Il controllore forò i biglietti in un rosario «buon
viaggio, grazie»; con la tesa in celluloide sulle folte
sopracciglia.
«Non
mi credevi, ma hai pubblicato», Emiliozzi la accusò.
«Ti
chiedo scusa.»
«Bel
risultato.»
«Ma
come hai fatto?», Laura tornò a chiedergli. Non si sarebbe stancata
mai di fargli ammettere la verità : una qualunque, se le piaceva.
Purché lui finisse sempre per risponderle che sì, è successo, è
tutto vero: ho pubblicato per Mondadori.
«Ho
contatti, è il mio lavoro.»
«Non
ci speravi neppure tu»: fino a ieri, poveretto, piazzava versi di
casalinghe.
«L'idea
distopica è eccezionale.»
«Ho
scritto il libro.»
«Ma
è quello è il meno», lui sbuffò seccato, «sei mica l'unica...»
«Mi
rappresenti.»
«Perché
sei brava.»
«Ma
brava in che?»
«Perché
sai scrivere.»
«Ma
come tante.»
«Cani
e porci...»
«Grazie.»
«...
ahimè. Tu sei più brava, perché ti seguo.»
«Quindi
insomma è tutto qui.»
«Dici
poco. Io mi sbatto.»
«E
il mio lavoro?»
«Daccapo.
Insisti?»
«Vaffanculo»,
lei scherzò. Lo pensava per davvero. L'importante era che ora stava
viaggiando verso Milano. La aspettavano: sì, lei. Attendevano
il suo libro. Chissà in quanti. Centinaia. Ore diciotto, via Della
Palla, sala incontri della Fnac.
Anche
Chiara, questa volta, aveva spento il diciotto pollici per
ascoltarla:
«Fnac!
La Fnac!», le aveva chiesto per quattro volte; «Fnac! La Fnaaac!»
«Sembri
una capra che soffre d'asma.»
Le
tirò il suo libro addosso. La sua copia autografata. Il suo libro
con il suo nome. Con il logo di Segrate.
«C'era
Barbicchio lo scorso mese, alla Fnac!»
«Ãˆ
Baricco, casomai.»
«Seta,
insomma: troppo bello. Non l'ho finito, ma ho pianto tanto. Dovresti
scrivere certe storie. La tua mi piace: però...»
«Che
cosa?»
«Ãˆ
l'idea. DÃ un po' fastidio.»
«Spiega
meglio.»
«Cazzo,
il Muro», le aveva detto guardando fuori. Mordicchiandosi le unghie
e stringendosi le spalle, quelle scapole da zombi in uno scampolo di
canottiera; «se lo togli, cosa resta? L'ho immaginato, mi manda in
panico.»
In
cinque mesi è cambiato tutto. Convinzioni, aspettative. Look,
colore e taglio dei capelli.
L'intercity
infilò il varco nei confini comunali, la barriera bianco-nera con le
sbarre e i contrappesi. Lungo il Muro pencolavano le impalcature di
manovali con mattoni, impastatrici, gabbie e travi di metallo; tute
azzurre e giacche arancio contro il morso dell'inverno.
«Vedi?
Quello è faticare, mica noi», inghiottì Emiliozzi.
«Quello
è duro. Cosa fanno?»
«Manutenzione.»
«Non
credo.»
«Ovvero?»
Le
sembrava che aggiungessero alla cima un altro metro o metro mezzo di
calcestruzzo. Li superarono troppo veloce:
«Niente,
è solo un'impressione.»
Accelerarono
attraverso i campi, la neve sporca, la terra nera; macchie rade,
magazzini, capannoni abbandonati, bruni cumuli di gomma di copertoni
di tir e d'auto, sabbia e ghiaia da edilizia sotto teli di incerata.
Le colline in lontananza dei confini regionali: la striscia scura di
un altro muro che spezzava un'autostrada. Lastre grigie in un maggese
che incrociavano un canale, sbocchi stretti rasoterra per i rii
d'acqua gelata. Vecchie ville e casolari sbriciolati sul percorso,
quella linea sorda e brutta parallela all'orizzonte. Più vicino alle
città - prima Rimini, Cesena; l'aria fetida a Faenza - la barriera
biforcava, triplicava, si intersecava nei labirinti di grate e mura
tra le fabbriche e le case. Il paesaggio circostante era insieme un
entro e oltre; qua, di là , abitato o desolato;
le fioriere sui terrazzi e degrado rugginoso. Selve fitte di segnali
di pericolo e divieto; gente in fretta a piedi e in bici che passava
dai cancelli.
«Era
da tanto che non viaggiavo», Laura si stupì, «ma è sempre stato
così... serrato?»
«Che
io ricordi, più o meno sì. Avranno avuto problemi loro. Certi guai
li tieni fuori. Vedrai Bologna: è un monolite.»
«Le
altre due presentazioni sono andate...»
«Molto
bene. Gran successo.»
«'Cazzo
dici? È stato un fiasco. Cinque persone la prima volta; sei o sette,
la seconda. Devi sempre esagerare.»
«Devi
sempre sminuire. Quante credi che saranno là , stasera?»
«Venti...
trenta», si trattenne.
«Fammi
ridere: alle sei. Di un pomeriggio lavorativo. Attraversare mezza
Milano per ascoltare parlare te. Fantascienza, Miss Nessuno.»
«Tanto
vale...»
«No,
è così: sono questi i risultati.»
«Ma
è Mondadori.»
«E
chi sei, tu?»
«Saremo
mica in difetto noi?»
«Scrivi
bene. Ci so fare. È la gente, in generale, a cui non frega e capisce
un cazzo. Da' la colpa sempre agli altri, dammi retta, ché non
sbagli.»
«Che
cosa pensi che debba dire, oggi?»
«Mah,
solite cose: benvenuti, grazie, grazie, sorrisino, occhioni azzurri.
Sorso d'acqua, tono serio. Il Muro abbattuto come metafora di un
mondo che va allo sfascio, di un'Europa che si spacca, e Berlino
unificata come amalgama del caos; come luogo o non-luogo di persone
che non hanno un loro luogo. Suona bene, figo, no? È a questo che
serve la scifì: diamo loro un'ipotesi su cui riflettere.»
«Le
bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki immaginate da Philip Dick in
The woman in the high temple, mi danno da riflettere.
Non queste cazzate.»
«Ãˆ
il tuo romanzo. L'hai scritto tu.»
«Va'
a cagare.»
«Sì,
in effetti.»
Lui
si alzò. Guardò la porta. Seguì deciso il segnale verde che
indicava la toilette.
Masticarono
panini. Laura, gonfia, si assopì. Dormì profondo, si svegliò a
Parma: un girone di cemento. Ma Milano le apparì come un groviglio
di muri e reti. Il convoglio si infilò nei lunghi fossi antracite e
bianchi che si innalzavano da entrambi i lati per almeno dieci metri,
il cui argine brillava in quel fioco mezzogiorno di affilati cocci
verdi incastonati in catrame e malta. Edifici beige e gialli dalle
tegole annerite, biciclette nei terrazzi, panni stesi, secchi appesi;
tetti irsute dalle antenne, parafulmine e ferraglia che guardavano a
binari con finestre chiuse e cieche, volti lividi e malati dietro
tende e zanzariere. Sulla stretta passatoia parallela alla rotaie -
mezzo metro ma neppure di bottiglie, cicche e topi - erano sparsi i
misteri cupi di una scarpa da bambino, una bambola di pezza, una
fiala, jeans stracciati. L'alone bruno, materia sciolta e carboni di
un incendio. Lei sentì le grida di qualcuno, nella notte, che
graffiava la parete per fuggire a quei terrori; voci umane disperate
che imploravano un aiuto.
Omicidi
nei cortili, stupri, botte nei garage: eco morte e ammutolite contro
l'argine di sasso, la barriera degli sguardi che volgevano di là .
Sopra i muri, attorno i muri, si chiudevano altri muri; altre cerchie
attorno a quelli dietro i lucchetti di cancellate. L'intercity
strattonava, si fermava, ripartiva; file accese di semafori e luci
rosse di interdizione; saracinesche abbassate, alzate e che
ragliavano nelle guide. Fino alle volte della Centrale e l'acciaio in
art déco. Sharon Stone di dieci metri leopardata sull'architrave, le
cifre d'oro di Christian Dior nel fumo grasso di rosticceri.
All'uscita
li fermarono tre agenti in armi e kevlar. Tre cancelli di controlli
poi salirono un taxi.
«Via
Della Palla.»
«...
che è via Torino.»
«Alla
Fnac», disse Emiliozzi.
Era
grigio, quasi buio benché fosse pomeriggio. Il tassista fece partire
il tassametro. Guidò in silenzio, senza autoradio: solo la voce di
trasmittente dei colleghi sulla strada. Lei volle alleviare quel
silenzio di sigaretta, dopobarba, cuoio liso e di riverberi di
specchietto con le sciocchezze sul brutto tempo, la stagione e i «sa
com'è». Il barbuto le rispose molti «eggià », tanti grugniti.
Emiliozzi, spazientito, le tirò una gomitata:
«Cazzi
nostri, cazzi suoi», le sussurrò.
L'altro
approvò.
Venti
minuti di muro e strade; più di muro, Laura si intristì.
Blocchi, sbarre, basculanti e passerelle. Polizia municipale ferma in
auto ad ogni varco, cabinotti presidiati da impiegati del Comune.
Trasandati, metallari, neri, asiatici e barboni che attraversavano
perquisiti o che venivano spintonati; punkabbestia, gabber, skinhead
che insultavano gli agenti. Gli stornelli rap e hip hop sui birilli
del Potere.
«Ãˆ
un po' pesante.»
«Milano
è grande.»
«Però
gli sbirri di qua e di là ...»
«Quella
sera, a te, per esempio, non ti sarebbe successo nulla.»
«Questo
è vero.»
«Via
Torino. Diecimila», disse il tassista tirando il freno; «se ce li
ha spicci, ché non ho il resto...»
«Mica
è poco.»
«Sa,
è Milano.»
Gli
scaffali e espositori di riviste e di romanzi, le piramidi
bestseller, cartonati degli autori, si alternavano alle grucce di
t-shirt, k-way e felpe; collezioni di matite, portachiavi, spille e
tazze sui ripiani colorati delle cover novità . I ritratti in bianco
e nero di Borges e di Calvino, della Dickinson, l'Oriana, Eco,
Tolkien, Shakespeare, di Baudelaire con corsivi seducenti di aforismi
letterari: che cos'è leggere, che cos'è un libro, che cos'è una
libreria; chi è lettore è sognatore: proprio tu;
meraviglioso. Ineluttabile santino chic - alla parete più illuminata
- Oscar Wilde con la pelliccia nella lente di Sarony, e una frase
tanto stronza da appagare ogni cliente. Quella fila là alla
cassa coi sacchetti e il marchio F; tutti colti tutti uguali di
industriali unicità . I fruscii dei premi nobel come quelli dei menu,
i leggii con libri aperti come tavoli di bar. Le parole che dai fogli
scivolavano negli occhi, come sorsi di Bellini, spritz, Campari e
Cuba libre. Dido e Frozen di Madonna che echeggiavano tra i
fari, sotto volte postqualcosa di navate di design. I divanetti
confessionali.
Il
locale le sembrò un'idea nuova di labirinto sulla pianta di moquette
di una nuova cattedrale; un percorso di costume verso un semplice
concetto: la scrittura da ipermarket, fast-literature, book
food; la lettura take away per un pubblico a venire, un cicaleccio da
parrucchiera nelle quiete Facoltà ; altri luoghi-libreria che da
noi, per esempio, altrove - nelle piccole città - diventeranno
caffetterie. Chiuderanno come mosche.
«Non
lo credi?», chiese Laura.
Emiliozzi
si grattò:
«Io
mi riciclo. Sarò pierre. Tu che scrivi sei fottuta.»
La
titolare sembrava un patchwork di riviste femminili: "Grazia",
"Vogue", "Marie Claire", "Donna Moderna"
in un unico ritaglio che si intonava con quell'ambiente. Volò vespa
tra le sedie, tra i microfoni, il palchetto, le bottiglie di Acqua
Lete sopra il tavolo di legno; copie in pila del suo libro, penna
aziendale per firmacopie, e - mio Dio!: le bruciò di gioia
il cuore - il suo volto da Scrittrice in manifesti settanta-cento.
Come
gli altri. Come Wilde. Come Hemingway e Follet.
Quello
scatto imbarazzato del suo fotografo di quartiere, poco meglio di uno
schifo di fototessera, così grande e illuminato sembrò vero:
era perfetto.
«Sono
io.»
«Photoshoppata»,
Emiliozzi la stroncò.
Qualche
timido lettore arrivò alla spicciolata. Si sedette - così
presto?! - si guardò attorno e sgranchì la schiena. Prendeva a
caso volumi a caso disposti a caso sugli scaffali - ma da quelli che
riusciva, senza alzarsi dalla sedia - e si aggrottava e arricciava i
labbri nella menzogna lo interessassero. Sfogliò un erotico
capovolto, poi un libro per bambini, un catalogo di utensili da
giardinaggio e qualche pagina di Magris e Tabucchi.
«Ãˆ
arrivato un'ora prima. Anche quello. Anche quell'altro», disse
Laura, sottovoce, e evitando di fissarli.
«Guarda
bene: scarpe, giacche e pantaloni. Anzi: annusa.»
Lei
si schifò:
«Che
cosa cazzo...»
«Tre
barboni, non ti accorgi? È un'occasione per stare al caldo. Per
sedersi. Per dormire. Senza spendere un quattrino.»
«Li
dovremmo... allontanare?»
«Tre
presenze. Dì, sei matta?»
Affluì
il pubblico vero, finalmente. Li contò: dieci facce pensionate,
qualche sguardo imbambolato. Gli occhi acquosi ed infoiati sulle sue
gambe di seta nera, il crop-top e la scozzese che i ventott'anni le
permettevano.
Blabla
romanzo, blabla distopico, blabla Muro. Di Berlino.
D'improvviso
- dai due lati di quello spazio allestito per l'occasione - si
insinuarono in fila indiana, torvi e zitti, due gruppi di ragazzi.
Poco più che diciottenni, avrebbe detto: fu felice.
Si
sedettero. Vicini. Fianco a fianco, a fare massa. Facce scure e
sguardi cupi che luccicavano d'odio cieco.
La
titolare sembrò più pallida. Voltò le spalle. Tornò alla cassa.
«Scusi»,
chiese uno dei sette nuovi arrivati: chiodo nero con le toppe su
un'improbabile camicia bianca. Orecchino al lobo lungo sotto il
cranio spazzolato, spille rosse-bianco-nere con la svastica, le
parve; «Ã¨ lei l'autrice di questo libro?»
Ne
aveva già una copia. Gualcita ed annotata.
«Certo,
sì», lei balbettò.
«La
ascoltiamo, dica pure», disse un altro dei ragazzi. Barba sporca
fino al petto, scarpe sfonde senza lacci, berrettino arcobaleno fatto
a mano in lana grossa. Fazzoletto C.S.A. - LEONCAVALLO - MURO BOITO.
«Hai
capito cosa sono?», Emiliozzi sussurrò.
«No.»
«Fascisti»,
indicò i calvi; «gli altri, autonomi di sinistra.»
«Come,
insieme?!»
«Li
capisci, tu? Stai calma, resta vaga. Vai avanti.»
«Hai
problemi? Parla, parla», l'unica femmina la provocò.
Laura
proseguì nel raccontare la sua storia, certi fatti disturbanti che
non erano accaduti: un McDonald's al Cremlino, Mandela libero,
massacri etnici, e una guerra nel Golfo Persico contro l'Iraq di
Saddam. Obiettarono ogni frase con aggressivi «non è così»;
«quindi pensi»; «quindi affermi».
«Ãˆ
un romanzo di fantascienza.»
«Ma
ammettiamo che sia vero.»
«E
chi lo dice che non è vero?!», quella Erinni la incalzò.
«A
Berlino il Muro c'è.»
«Tu
lo hai visto?»
«Qui
ne abbiamo.»
«Sono
muri nella mente.»
«Che
idea del cazzo buttarli giù», grugnì il nazi, «vuoi disordini, lo
speri?»
«Ãˆ
solo fiction.»
«Parli
inglese con qualcun altro, signora.»
«Quel
coglione imperialista di Bob Dole.»
«Qui
in Italia, l'italiano.»
Battipiedi
sulle sedie. Toni gravi ed arrochiti. Aria elettrica, feroce. La
tangibile violenza. I presenti, gnorri gnorri, abbandonarono quella
zuffa. La titolare fulminò i dipendenti di fare finta che non ci
fosse nessun problema; spostò libri, gadget e giornali per
rimetterli dov'erano tali quali li trovava. Alzò il volume dei
LunaPop e Ricky Martin dalle casse ai quattro angoli della sala. Un
commesso, con la mano sulla bocca, mormorò ad una cornetta «pronto,
sì... la polizia...»
Emiliozzi
salutò:
«Grazie
a tutti», ma nient'altro.
I
balordi se ne andarono.
Anche
loro, «ma alla svelta. Varca il muro, chiama un taxi, scendi in
metro. Per l'albergo». Si infilarono in un vicolo. Ché chissà ,
alla chetichella, se li avrebbero evitati.
«Sono
qui», Laura tremò.
I
tre skinhead apparirono a fondo strada, i quattro autonomi sbucarono
dall'altro lato. Volti tesi, pugni stretti, caschi in testa, kefiah
in faccia, le bretelle e i dottor martens, i jeans larghi e le
t-shirt. Un rasato mulinava una catena luccicante; la ragazza con i
rasta, scatarrato alla parete, sfoderò una chiave inglese dalla
giacca sbrindellata.
«I
muri tengono, puttana rossa.»
«Che
cazzo abbatti, fascista stronza?»
Li
aggredirono. Cazzotti. Calci, sputi, pugni in faccia. Emiliozzi
lasciò a terra la sua borsa scamosciata, si sfilò il cappotto
scuro, lo gettò contro un nazista, gattonò, si rialzò in piedi,
barcollò fuori la rissa. E scappò gridando aiuto tra i passanti
spaventati. La lasciò sola. La lasciò lì. Sotto i tacchi e le
sprangate. Le frustate di catena le spaccarono le labbra, le
tagliarono la fronte, la stordirono, sfregiata. L'occhio pesto,
cieco, gonfio sotto un destro inanellato, gli scarponi nello sterno,
la testata contro il naso; fiotti rossi, croc, dolore e
cartilagine sfracellata. Stesa al suolo, agonizzante, sull'asfalto,
orina e sangue, Laura vide la ragazza china e urlante su di sé: calò
la chiave, le spaccò il cranio.
«Puttanatroia,
che cazzo hai fatto?»
«Via,
compagni!»
«Camerati!»
«Porcamadonna,
porcamadonna!»
Fuga.
Buio.
Le
sirene.
Aprì
gli occhi ad Emiliozzi con un cerotto sul sopracciglio.
Il
suo bel paltò di lana che puzzava di benzina.
C'era
Chiara, accanto a lui: per una volta truccata bene, con un golf e una
camicia dall'armadio di sua madre.
Le
punse il naso l'odore chimico di anestetici e tinture, la accecò il
nitore verde delle pareti di un ospedale. Il linoleum, le piastrelle
e lo zinco dei catini scintillavano dei neon nelle grate sul
soffitto: bianco, basso ed opprimente su un immenso dormitorio.
Le
cui finestre di vetri spessi si spegnevano su un muro.
Tende
bianche attorno ai letti. Visitatori avviliti e curvi. Seduti scomodi
a confessarsi con i pazienti sulle seggiole di legno come
quelle degli asili.
Quei
silenzi. Quegli affanni. Quegli ansiti penosi.
«Ti
sei svegliata», sussurrò Chiara. Tirò col naso. Quegli occhi
rossi.
«Da
quando... dormo?», lei balbettò. Le parole le riuscirono difficili
ed incerte: dubitò di aver parlato e del loro significato. E i
pensieri un po' fumosi che che le bruciavano nella testa - tanta
nausea, Dio, che fitte!; quale strana sensazione - le
sembrarono incoerenti con quel dialogo e i suoi sensi.
«Da
un po' di ore», Emiliozzi si grattò il naso, «ma ti ricordi cos'è
successo?»
Lo
rivide in lontananza. Che telava. Che strillava.
«Sei
un figlio di puttana.»
«Sì,
sta meglio.»
«T'è
andata bene.»
Le
costò un dolore cane sollevarsi sul cuscino. Afferrarlo alla
giacchetta, salivare e sputargli in faccia. Cercò uno specchio, un
bicchiere, un piatto. Qualunque cosa che riflettesse. Tutta plastica
arancione. Gliela tolsero, comunque.
«M'hanno
distrutta.»
«Stai
calma, no: qualche bozzo, un po' di punti», sorrise Chiara. La
accarezzò; «Ã¨ meno peggio di quanto credi. Tu sei figa, resti
figa.»
«...
e il romanzo vende un botto.»
«Ma
sei scemo?»
«Guarda
avanti. Sii ottimista. Ah: gli stronzi li han beccati. Messi in
carcere, hanno detto. Lei, però, resterà dentro per un bel
pezzo. Era tossica, tra l'altro.»
«Lei...
chi è?»
«Lascia
perdere. E' passata.»
«...
siamo a Milano....»
«Riposa,
adesso. Torniamo a casa.»
Due
figure un po' sfocate affiorarono alla porta, e percorsero la sala
che sembrava sconfinata. Dopo istanti dilatati si fermarono al suo
letto: da vicino riconobbe - le sembrarono, piuttosto... - una
materna carabiniere e un grasso medico trasandato. Biro in tasca,
stetoscopio e una cartella di fogli in mano:
«Come
andiamo, come andiamo?»
Non
le riuscì neppure di salutare.
Il
dottore prese da parte Chiara ed Emiliozzi: nel brontolio di quelle
formule di circostanza lei sentì insinuarsi concetti atroci, da
disperare; li ascoltava, li capiva e però non li capiva.
«...
avvertire la famiglia... per fortuna trovo voi... ha reagito molto
bene... trauma cranico, lesioni... certo, sì: vita normale... nessun
problema, le stesse cose... eh, magari un po' diversa... con più
calma, più pazienza... brutto dirlo, ma in sostanza... non sarà al
cento per cento... poi chissà ? ci sono casi... »
Nonostante
il fard di pesca, Chiara in faccia era farina. Asciugò il mascara e
il pianto che le scendeva sul volto aguzzo.
Laura
scorse la classifica bestseller del "Corriere della Sera" 5
gennaio 2001: da Harry Potter a Travaglio a La versione di Barney
senza trovare - ma ormai da un anno - la copertina del suo romanzo.
La prima pagina del giornale era tutta per Maroni, Bossi e Formigoni
che baciavano il drappo verde della Repubblica di Padania; PLEBISCITO
esclamativo in caratteri elefante. Berlusconi, imbarazzato, sul
grande palco di Piazza Duomo, che accettava la doppia cittadinanza
come premier italiano ed emerito padano; sullo sfondo - oltre le
guglie, il Pirellone e la madunina - la striscia scura di un nuovo
muro sullo skyline capitale. La politica correva più veloce della
fiction, la negava, la smentiva; seppellisce la mia storia.
Cercò
il Nokia nero nuovo che teneva nella borsa. Nelle tasche. Del
cappotto. Della giacca. Nella borsa. Finché si accorse, «che scema,
sono», che lo stringeva nell'altra mano. Scorse la rubrica dalla A.
Restò interdetta: «l'ho cancellato?»; passò alla E: dove in
effetti trovò EMILIOZZI, poi trattino, poi AGENTE. Le pareva, che in
effetti...
Le
era venuta una buona idea, tutta un'altra distopia: la Lega, anziché
ottenere l'indipendenza del Nord, alle elezioni politiche 2020 va al
governo di tutta Italia - soprattutto del Sud - e governa su un paese
di riti celtici e roghi negri. Quello sì ch'era uno sfascio: mica un
muro buttato giù.
Le
intuizioni fulminanti che le venivano passeggiando - qua e di lÃ
dalla barriera - finché trovava i cancelli chiusi.
In
anticipo.
Alle
20.00.
Nuove
norme comunali.
Le
sembrava, a dire il vero, che ci pensasse da qualche giorno. Che giÃ
ieri questa storia le frullasse nella testa. Di parlarne ad
Emiliozzi. Per proporla a Mondadori. Per tornare su una breccia che
le sembrava si fosse chiusa.
L'ho
già fatto. Oppure no.
Fermò
il pollice su "chiama".
Digitò.
Segreteria.
Spense
il telefono, lo mise in tasca.
Ce
lo aveva ancora in mano.
GiÃ
da mesi quella serpe aveva smesso di contattarla. Cincischiava, «mi
dispiace», un calendario di impedimenti; un altro muro tra i due
quartieri, il centro storico e il lungo mare. La sua casa a fronte
spiaggia desolata dall'inverno.
Laura
si trascinò, un po' stanca e infreddolita, ad ascoltare i blabla
confusi di un'anziana vagabonda:
«Tu
sei l'ultima, per oggi.»
Storie
estreme di geloni, fame, febbre, frutta marce, pasti altrui
rigurgitati da trovare nei bidoni. Noie atroci ed omicide di
bambocci di papà , con le spranghe e la benzina per passare un quarto
d'ora. Ratti, uccelli, malattie. Crampi e fitte agli intestini.
Volontari, preti, sacchi, luci azzurre di ambulanze. Letti di Caritas
e materassi sotto ponti e dentro chiese. Lungo il Muro, in ogni caso;
si finisce sempre al muro. In deliri iridescenti di una notte
o di decenni.
Ma
anche lei, sempre più spesso, confondeva giorni e mesi.
Le
annotò sulla Moleskine.
Centinaia
di post-it.
Le
vicende disgraziate di quella schiuma della città : che di notte si
accasciava stanca morta sotto il Muro, si addormentava contro il
cemento, vomitava sulle grate, sopportava la tortura dei fari arancio
lungo il perimetro. Lasciava i denti sul calcestruzzo, si infettava
con il guano, si avvelenava di smog e polveri.
Ne
morivano, più spesso.
Molti
più di quanti lei potesse scriverne.
Il
mistero era però, quando trovavano quei cadaveri, che i poveracci
crepati qua erano stesi dall'altra parte; e i
disgraziati finiti là erano secchi su questo lato. Il
pispiglio era che morti, in qualche modo, si attraversava.
Senza sbirri né permessi. Non ti fermano i tornelli.
Solo
morti, forse, lei temeva.
E
le sembrava che quel pensiero la ossessionasse da sempre.
Tornò
a casa. Suonò a Chiara.
«Che
sbadata: Chiara è fuori.»
Era
uscita da sei mesi. Con le valigie delle sue cose.
Cercò
la chiave. Non la trovò.
Sotto
il tappeto. Sotto il gradino.
«Guarda
un po'...», scrollò la testa: era lì, già nella toppa.
Sedette
in camera, non si spogliò. A schiena dritta sul letto sfatto. Le
mani pallide sulle ginocchia. L'aria fredda, troppa luce. La finestra
spalancata. In silenzio. Gli occhi vuoti.
Finché
fu sera.
A
fissare il Muro.