Gaudete 3019 (Racconto di Natale)


Gli scrittori regalano racconti. Ed ecco il mio racconto di Natale. Lo trovate con molti altri - e quali altri! - nell'antologia Notti di Natale a cura di Luca Leone (Psiche e Aurora Editore). Buone Feste, cari Lettori. 

Caterina non si illudeva, ormai, che sarebbe sopravvissuta.
Era uscita per la pesca tra le Secche Bolognesi, aveva urtato nel cornicione o la terrazza di un condominio. La sua barca era affondata ch'era il tardo pomeriggio a duecentotré chilometri dalle Isole Appenniniche; lei, con un giubbotto di salvataggio, galleggiava all'imbrunire tra la sporcizia del Pandriatico.
Una corrente la trasportava con tonnellate di latta e plastica verso i banchi di veleno che suppuravano a sud-sud-est; tra una selva arrugginita di antiche antenne televisive, di parabole, pannelli, pale eoliche incrostate, che affioravano dall'acqua nei riverberi serali. Nei fondali limacciosi, di conchiglie e di cemento, si sgretolavano verdi d'alghe gli edifici di Faenza, di Cesena e di Forlì; granchi neri negli alberghi lungo i viali di Riccione, l'antica Rimini degli amarcord che scompariva nel fango scuro. Le rovine di un'Italia inabissata da mille anni.
Caterina era allo stremo, dolorante ed assetata. Con il fuoco sulla pelle, con il sale nella gola. E la puntura di atroci crampi nei polpacci e nelle spalle. Calò il sole, venne buio. Soffiò garbino dall'occidente. Era un giorno breve e fresco sul finire di dicembre. Lei tremò del vento umido maligno che increspò la superficie di un orizzonte già pece e nubi; l'acqua salsa, fredda e sporca le appiccicava i vestiti addosso. Era gelido. Tremendo. Tra i pensieri febbricitanti che le affollavano la mente esausta, le nebbie del dolore, ricordò i racconti folli di certi anziani di Porto Modena: sui lunghi inverni davvero ingrati del Mondo Prima e sul mito della neve - quando era mai caduta? - e le impossibili temperature dallo zero ai meno nove.
«Ma va là», scrollò le spalle, «chi le avrebbe sopportate?»
Già lì adesso, batté i denti, le sembrava di morire. Perché a breve - si incupì - sarò il pasto di verdesche.
Cielo e mare si sfumarono in un nulla vuoto e nero; molto in alto, troppo in alto, luccicarono le stelle. E all'eterno sciabordare si alternarono i gloglotti, lo sbatacchiare di bottigliette, lattine e taniche tra l'immondizia. Caterina chiuse gli occhi nell'angoscia della fine.
Il suo cadavere sarebbe stato un'immondizia tra le immondizie nell'universo deteriorato che degradava da dieci secoli, quelle vestigia imbecilli e sozze di un'estinta civiltà. Sempre che - lì maledì - poteva dirsi "la civiltà" fare sommergere e attossicare la Terra e lasciare ai propri eredi sale, plastica e petrolio. Lei, la sua tribù, nell'Arcipelago dall'Alpi all'Etna, sopravvivevano su rocce nude a tsunami di rifiuti, sotto nubi di anidride che scrosciavano d'amianto. Quale stupido poeta poteva avere sognato, un giorno, che il pianeta - quando, altrove - aveva avuto foreste verdi? Cosa sono, le foreste? E, se esistevano incantesimi taumaturgici, quel suo popolo sconfitto ne aveva persa la conoscenza. Si sentì stampata addosso una data di scadenza: 24.12 del 3019.
L'orologio da subacqueo rintoccò la mezzanotte.
Questa notte.
Affonderò.
Ma fu scossa, all'improvviso, da uno scoppio e un ululato. Poco lontano, di fronte a lei, corse in cielo un razzo rosso, che sbocciò in un fuoco intenso a illuminare un barcone piatto. Il tossito di un motore echeggiò sul mare buio, la investì l'alito caldo e il boato di un ugello. Un magnifico ragazzo con il volto e corpo eburneo, tratti olimpici e sottili su un torace lottatore, fendé la notte, calò dall'alto e le sorrise di non temere:
«Sei salva.»
Indossava - benché il freddo - solo un paio di bermuda. Ed un prototipo di zaino-razzo gli ruggiva sulle spalle. Gli occhialoni da aviatore gli proteggevano gli occhi grandi, chiari, luminosi, di una strana, seducente, spaventosa fissità. I capelli lunghi biondi, luccicanti d'acqua e luna, gli scendevano alle spalle sulle cinghie dell'ordigno.
Le tese il braccio, lei l'afferrò: ma troppo debole lasciò la presa. E ricadde tra i rifiuti come un incubo angoscioso.
Perché è questo che dev'essere - pensò - sto delirando.
Il ragazzo, più veloce, le strinse il polso, la tirò su. Con lo sguardo divertito. Senza fare alcuno sforzo. La abbracciò, riprese quota, volteggiò sull'onde nere. Quasi lei, col giubbotto e i vestiti gonfi d'acqua, non avesse nessun peso.
«Sono morta.»
L'altro rise.
«Sto sognando.»
«Starai bene. Sei esausta, un po' confusa. Ma è normale, con quello che ti è successo.»
«Tu chi sei, della Marina?»
«Sì... Non proprio... Sono solo un messaggero.»
«Bell'aggeggio, questo jet-pack.»
«L'abbiamo tutti.»
«Ma tutti chi?»
«Vai curata, adesso.»
«Grazie.»
«Sarà meglio che ti posi.»
«È il Pandriatico, non puoi lasciarmi...»
«Ci sono loro. Ti puoi fidare.»
Le indicò la grande chiatta che incrociava innanzi a loro, un barcone di migranti che dormivano sugli assi. Centinaia di persone da altri posti, tutti i posti, che navigavano sul Niente Oceano verso un'altra apocalisse. La Catastrofe è di tutti, le insegnavano i proverbi. Tra le donne coi bambini sotto coperte di lana grezza, gli ampi teli di incerata che rimbombavano al vento forte, si accucciavano a ronfare capre, asini e vitelli; con i fagotti del poco e nulla che stringeva quella gente. Caterina vide a poppa la cabina improvvisata: un rifugio di cassette, di lamiere e copertoni dove nei cerchi di torce elettriche discutevano tre vecchi, dall'incarnato di sabbie e sole e i caftani iridescenti. Il ragazzo atterrò là. La adagiò su sacchi morbidi di iuta dal profumo raro e inteso; la stordirono di sacro. Grani porpora di incenso e una resina perlacea. Tra le iute scintillava, alla luce delle torce, una ciotola di legno che traboccava di oggetti d'oro: vere, ciondoli, bracciali e medagliette.
I tre vecchi erano curvi su una cartina del Mare Italico scarabocchiata ad inchiostro rosso di indecifrabili strani segni: stelle e croci inscritte in cerchi con maiuscole insensate. Caterina, come tutti, sapeva leggere le carte nautiche: quella, tuttavia, le riusciva incomprensibile. Acqua in pentola bolliva su un fornello da campeggio, e in un angolo notò teli candidi e imballati.
Non sembrarono stupiti del loro arrivo.
«Melekh, Belshatzzar, Khazandar», li chiamò quel ragazzone.
«Gavriel, salve», gli risposero ossequiosi.
Si strinsero la mano. E seguirono il brillio del razzo rosso nel cielo nero: che scendeva lentamente, bicaudato di vapori, ad affondare nell'immondizie tra le onde all'orizzonte.
Caterina si distese in suffumigi di narghilè, di resine e di spezie. Si voltò verso il ragazzo. Lo interrogò con lo sguardo ansioso, stanco ed offuscato dubitando di quei tre, di quel carico bizzarro. Roba d'oro, sì: gioielli. Ma anche denti, le sembrava. Mirra, incenso, forse droga; la tratta infame dei disperati che dormivano sul ponte. Guardò ai pentacoli tracciati in rosso: sospettò che fosse sangue. Restò in silenzio, ma lui comprese:
«Devi credere», rispose, «certi orrori sono ciechi»; azionò lo zaino a razzo e scomparve nella notte.
La rinfrescarono, «non inghiottire: può farti male»; la medicarono. Le ferite e gli ematomi procurati nel naufragio. E le imposero le mani, colorate di tatuaggi, vizze, magre e brucianti di energia. Si sentì rinvigorire. Si sentì rigenerata.
Chiuse gli occhi alla stanchezza:
«Sono sfinita. Vorrei dormire.»
«Resta sveglia. Ancora un po'», le sussurrarono gli anziani maghi, «sta per succedere. Sei testimone.»
Restò turbata. Non li capì. Tornò seduta sui sacchi morbidi.
Udì un urlo dalla prua. I lamenti di una donna. Pianti, risa femminili che la attorniavano premurose. Occhi vivi scintillanti nella fitta oscurità. Lo sgomento di un ragazzo, con un bordone da pecoraio, che allontanava le capre e gli asini da quel lato della chiatta.
Gavriel calò dall'alto - le sembrò fosse riapparso... - le fiamme azzurre del zaino-razzo rischiararono la scena. Uno scambio concitato tra il pastore e alcune donne:
«È la mia Myrhiam! Sarò d'aiuto!»
«Sei solo un uomo, Yosef, fa' largo», lo allontanarono sbrigative. Tre di loro si affrettarono alla cabina dei guaritori, che le provvidero dei teli candidi e della pentola d'acqua calda.
Ritornarono alla prua. Sgomberarono la folla.
Su un telone in pvc, là, sul fondo della chiatta, era stesa una ragazza che strillava intenta al parto. Le tenevano la mano, le asciugavano la fronte, la pulivano dal sangue che le macchiava le cosce brune ed il grembo, del sudore sulla pelle e su quei folti capelli neri. La consolavano con canti antichi sulla Vita e sulla Terra.
Quella Myrhiam doveva avere sedici anni, forse meno. Era brutta, denutrita, con un abito a brandelli. E gridava in quella notte per l'atroce sofferenza. Ma è bellissima, lei pianse. Si alzò d'impulso - col fuoco dentro - e le andò accanto con l'altre donne. Intrise i teli con l'acqua calda. Sotto gli sguardi impotenti e muti degli uomini là a bordo. Facce dure e volitive. Le pistole al cinturone. Coi coltelli nelle tasche, con la rabbia nelle braccia. Con gli insulti e le menzogne trattenute tra le zanne. Ma che restarono a testa china senza forza né parole.
Davanti a loro la barca piatta fendette i cumuli di sporcizia: sotto gli strati di latta e plastica bollì il bruno del petrolio, e dei viscosi veleni chimici che scivolarono sullo scafo. Quelle macchie assomigliavano a volti verdi di spettri che il riflusso delle onde distorceva di rancore, protestavano alla morte le promesse di trionfo.
Myrhiam, pallida, sudata, insanguinata, strinse i denti e giurò feroce che avrebbe vinto, sarebbe nato. Che né il bambino né loro o il mondo si sarebbero mai spenti.
Belshatzzar portò la torcia perché avessero più luce, e si sedette sul parapetto giusto dietro la ragazza. Il cerchio bianco di raggi elettrici la ammantò, la incoronò.
Tra quelle gambe spuntò la testa. Le vene rosse. Riflessi d'oro.
«Buon Natale, Caterina», le augurò l'anziano mago. Anche Gavriel, spento lo zaino-razzo, si asciugò gli occhi lucenti in ginocchio sulla chiatta. Cantò versi in un idioma che non credeva esistesse più:
«Gaudete, gaudete...»
«Buon... che cosa?», lei rispose, col cuore gonfio di ignota gioia. Levò lo sguardo alle stelle in cielo: le sembrarono perfette.



Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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