Recensione di Giorgio Smojver dal sito Heroic Fantasy Italia
Nel 1301 Filippo Minutolo, arcivescovo di Napoli, fu seppellito coi suoi ricchi paramenti e al dito un anello con un rubino che valeva oltre cinquecento fiorini d’oro. La notte stessa due diverse bande di ladri di tombe aprirono il sepolcro. Ma poiché i membri di una di esse, benché ladri incarogniti, esitavano a scendere nella tomba, il prete che li guidava disse «Che paura avete voi? Credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangiano gli uomini».
Fosse nato a Thanatolia non avrebbe potuto dirlo.
Ho citato questa che avete certo riconosciuta come la quinta novella della seconda giornata del Decamerone di Giovanni Boccaccio (se non la ricordate, andate a leggerla in biblioteca, è uno dei testi più divertenti della letteratura italiana), solo per sottolineare quanto illustre e di quale interesse letterario sia la professione dei ladri di tombe.
In effetti, da quando i governanti presero l’abitudine di arricchirsi a spese dei governati, che, pare, non hanno ancora perso, e i re Sumeri, Cinesi ma soprattutto Egizi hanno pensato di portarsi i loro tesori nella tomba, esiste la nobile schiatta dei tombaroli. Cito due esempi ancora calzanti dalle antiche letterature: quello che è forse il primo romanzo storico della letteratura occidentale, la novella di Re Rampsinito e del ladro che ne saccheggiava il tesoro sepolto, narrata da Erodoto: è una vera gara d’astuzia tra il re e il ladro, e se manca l’elemento soprannaturale vi sono teste e braccia tagliate a piacere. E il romanzo egiziano del principe Setne Khamwas, che violò la tomba dell’antico mago Naneferkaptah per rubare il magico libro di Thoth e fu colpito da una maledizione e sedotto da una bellissima Lamia che lo spinse a uccidere i suoi figli. Niente da invidiare ai moderni.
Il clamore del rinvenimento della tomba di Tutankhamon nel 1922 e la maledizione che colpì gli scopritori spinse la giovane arte del cinema a creare il primo classico del genere, La Mummia del 1932 con Boris Karloff. Lovecraft e Howard, ciascuno a suo modo, usarono il tema, ma il vero re delle tombe, tra gli autori fantastici, è Clark Ashton Smith col suo mondo di Zothique, dal sole morente, le distese desertiche e le necropoli perse tra le sabbie. Nei suoi racconti c’è già quasi tutto: audaci guerrieri inviati da viscidi re a violare antiche tombe (Il tessitore della cripta), avidi mercanti di gemme che fanno pessimi incontri in necropoli diroccate (Nato nella Tomba), superbi negromanti che si illudono di poter disporre dei morti a piacere (L’impero dei Negromanti), persino una città completamente dedita al culto dei sepolcri (Il dio dei Morti).
Ma nemmeno Clark Aston Smith raggiunge l’audace concezione alla base del progetto di Crypt Marauders Chronicles, pensato da Alessandro Forlani e Lorenzo Davia: un intero continente che non è altro che una spaventosa, infinita necropoli, una distesa di ceneri soffocata da gas venefici e percorsa da saprofagi, animali o umani o metà e metà . Perché a Thanatolia tutti gli altri continenti scaricano i propri cadaveri (se vi chiedete perché basta leggere il primo, formidabile racconto di Mauro Longo), e ogni cosa, economia, arte religione è basata solo sulla sepoltura e sul saccheggio dei sepolcri. Thanatolia è un continente che si nutre di sé stesso: non ha attività produttive, i suoi abitanti non coltivano e non allevano se non poche capre (salvo i Mandriani del Mare delle Messi di Domenico Mortellaro, giustamente considerati barbari dai cittadini), non hanno materie prime (salvo il legno dei boschi per le bare, tagliato da disprezzati e sfruttati taglialegna, si veda Di mille secoli il silenzio di Atzori). No, la gente civile, sacerdoti, mercanti o guerrieri, vive solo del saccheggio delle tombe. L’intero continente, incapace di idee nuove, inabile al vero lavoro, improvvido del futuro, privo di iniziativa e lungimiranza, non fa che divorare il proprio superbo passato (ogni affinità con l’Europa attuale è casuale).
Il limite di questa ardita concezione è il rischio di ripetitività , dato che quasi ogni racconto tratta di saccheggi di tombe e movente quasi unico (ma non unico) dei personaggi è l’avidità . La sfida per gli autori, sfida per lo più vinta, è giungere all’originalità con lo stile personale.
Originalissimo è senz’altro il racconto di Mauro Longo La versione di Margutte. Longo prende il personaggio del mezzo gigante Margutte dal poema di Luigi Pulci (per chi non fosse fresco di studi, ricordo che era amico e agente del Magnifico Lorenzo De’ Medici e praticante di magia nera). Longo ne fa la voce narrante, con un linguaggio splendido e inventivo, sboccato, popolano, picaresco. Margutte è all’altezza del suo modello quattrocentesco, rozzo e intelligente, spontaneo e ironico, capace di ogni furfanteria non per malvagità , soltanto perché è così che si sopravvive. E Longo usa tutto il suo talento nella descrizione della sua banda di scampaforche che pare uscita da un quadro di Hieronymus Bosch. Naturalmente c’è anche un vero eroe di Sword & Sorcery, lo Sparviero, con tutta la sapienza dello stregone e l’eleganza dello spadaccino, e il lettore ci crede, ecco, è lui il vero eroe, ma non c’è da fidarsi di Longo.
Non inferiore è il secondo racconto, Chi di spada ferisce di Alessandro Forlani. Anche qui è l’eroe a determinare lo stile del racconto, dato che Forlani ne assume il punto di vista. Malqvist può sembrare lo stereotipo del barbaro con l’ascia, ma è complesso: tutt’altro che invincibile e ben cosciente di non esserlo, sa contare i nemici (sulle dita della mano) e se le dita non bastano sa che sono troppi per lui. È autoironico, ruvidamente cordiale, dotato di un’etica non frequente nello Sword & Sorcery: rispetta il lavoro altrui e non ruba mai, neanche per bisogno. A somiglianza del protagonista, lo stile è secco, veloce, ironico, acrobatico, ma a volte con lampi poetici (“Un giovane di bell’aspetto e che splendeva di nobiltà , con un volto più terribile della spada che impugnava” o “Decise che il destino di quella testa imbellettata di nobiltà , sarebbe stato un segreto atroce fra lui e i cani in un sottoscala”). La sorpresa finale è tranciante.
Fabio Andruccioli con L’arena e La nave maledetta si libra nell’azione pura e rapida e nella descrittività barocca e allucinata dei classici Weird Tales.
Albero Henriet ci dà un saggio del suo talento in Nikolai il negromante, un personaggio interessante, ma incompiuto per la brevità dell’agile racconto, che speriamo abbia ancora molto altro da dire. (L’autore sta sviluppando un’opera tratta da questo racconto N.D.R)
Più elaborato è Domenico Mortellaro, nei suoi tre racconti. Gli aspetti più vividi, a mio gusto, sono il terzetto di due sorelle e un fratello de La prima volta: una demoniaca e due assassini, che pure dimostrano un affetto e una cura l’uno per l’altro rara nell’ambiente cinico di Thanatolia. E la fierezza della Teppa ne Fosse solo un cerchio di ferro: “nessun diritto, nessuna bandiera!”
È un dibattito antico se la pittura debba ricreare la vita; in Ritratto del tombarolo da giovane, di Lorenzo Davia la pittura crea la non-vita. Che la pittura abbia un lato diabolico è cosa nota al lettore di letteratura fantastica, ne hanno scritto i grandissimi, Poe, Wilde, H.G: Wella, M.R. James, per non parlare del terribile Il Modello di Pickman di Lovecraft. Ma non ricordo un racconto così divertente sull’argomento. Il pubblico dei presunti intellettuali frequentatori di inaugurazioni di mostre è superbamente ritratto nel finale tagliente e graffiante, nel senso letterale, e chiunque sia stato costretto ad assistere a un vernissage per motivi di lavoro o amicizie non può che gioire vedendo i quadri divorare gli invitati.
L’unica donna della mortifera compagnia, Laura Silvestri, è anche l’unica a darci una vera dinamica di gruppo. La formidabile squadra formata dalle avventuriere Narantuya e Kesika, il novellino Baizan e l’esperto spadaccino Shikidai convince non solo sul piano dell’efficienza contro le minacce soprannaturali o sottonaturali, ma anche su quello della dinamica dei sentimenti. E con molta abilità Laura varia il narratore/narratrice nei due racconti. (Rileggerete presto Laura Silvestri in un romanzo che approfondirà le avventure di Narantuya e Kesika, Baizan e Shikidai. N.D.R.)
L’eroe più ricco di umanità è quello del commovente e terribile Da mille secoli il silenzio di Andrea Atzori. Finalmente si vede un’ascia impugnata non dal solito barbaro, ma da un comune taglialegna. Se nulla è più straziante del dolore di una madre per un figlio, quello di un padre per una figlia è ancora peggiore perché avvelenato dal senso di colpa: nessun istinto è forte nell’uomo quanto quello di proteggere la propria figlia, nessun fallimento più amaro del vederla morire. Quando scopre che il corpo di lei viene usato per uno dei rivoltanti riti di Thanatolia, il dolore descritto sin lì con sobria prosa da Atzori diventa collera fiammeggiante e muta un calmo boscaiolo in un uccisore inarrestabile; giusta collera che coinvolge persino l’imbroglioncello Artemio, trasformandolo in un uomo decente e un amico. Il tutto è narrato con stile limpido e preciso, senza ombra di retorica.
Chiude l’epopea Luca Mazza, col suo stile sregolato, elaborato e barocco. Il suo formidabile Veltro è maestro di armi di ogni tipo, sottile stocco cinquecentesco e revolver a tamburo, misericordia e lame retrattili, dispone persino guardiani high tech e all’inferno la coerenza con un’epoca che gli altri hanno descritto appena di pistole e schioppi a miccia, dato che è natura di Mazza fregarsene delle regole. Il suo racconto lungo cinquanta pagine è un odissea e un concentrato degli orrori di Thanatolia, oltre che un ribollente calderone di acrobazie linguistiche.
Chiudo quest’articolo, nato da sincero divertimento, con un’epitome del già citato Luigi Pulci, poeta e negromante del Quattrocento : In principio era buio, e buio fia.