A chiunque stia leggendo, subito dico: sbaragliate eventuali pregiudizi e non esitate ad acquistarla subito, ma subito eh, perché è un vero gioiello. E del tutto inatteso, se devo essere sincera. Non c’è nessun intento di far cassa mettendo insieme pezzi di voci più o meno altisonanti che per l’occasione tirano fuori dal cassetto (o dal cassonetto) qualcosa di mediocre (come purtroppo capita in non poche sillogi di fantastico, soprattutto americane).
Le storie sono davvero ottime, tutte, sia dal punto di vista qualitativo che stilistico, e denotano una maturità narrativa notevole.
Nella prefazione (già il fatto che ci sia una prefazione, oltretutto eccellente, dovrebbe far intuire il valore dell’opera) si spiega come la raccolta abbia alla base un progetto preciso, benché non sia stata fatta alcuna forzatura agli autori. Il risultato è comunque che “i racconti che leggerete hanno legami invisibili tra loro, che non sono stati mai voluti né decisi”.
Uno degli aspetti che mi hanno colpito è proprio il fatto che tali legami, talora esili, altre volte un poco più evidenti, sono assolutamente presenti, forse oltre le aspettative dei curatori stessi.
Racconto dopo racconto, si rafforza una sensazione quasi straniante, che tutta l’antologia sia un’unica lunga storia ove cambiano i volti, le situazioni, le voci narranti, lo stile, ma in qualche modo i protagonisti via via si reincarnino e trasformino in un’altra loro possibile identità , su un altro probabile piano spazio-temporale, ma di base rappresentino sempre le diverse sfaccettature di un io unitario, o, meglio, ciascuno sia latore di un messaggio corale ma indivisibile.
Diciotto scrittori e scrittrici avrebbero quindi elaborato − individualmente ma per lo stesso fine, in modi differenti, con proprie peculiarità e a seconda della sensibilità individuale − un concetto antico ma sempre dibattuto e attuale, ossia un’interpretazione della condizione umana vista tramite gli occhiali di un verosimile presente o un immediato futuro, resa di storia in storia attraverso una sorta di mempsicosi fantascientifica.
Credo questo punto sia davvero significativo, in primis perché evidenzia che ci sono voci del fantastico italiano che sanno interpretare la realtà e trasmetterne le tensioni con una maturità che fino ad alcuni anni fa era sporadica o si era persa in annacquate rivisitazioni passatiste.
In secondo luogo, questi racconti sanno rappresentare nell’accezione di più ampio respiro, ma anche nel modo più pregnante e ricco, cosa sia la fantascienza: uno strumento conoscitivo dell’uomo e delle sue possibilità , un mezzo per interrogarsi sull’universo e sulla condizione umana attraverso il quadro della storia, facendola rivivere come un oggi alternativo o un domani ipotizzabile, porre l’uomo di fronte a una consapevolezza, a una scelta, e alle sue conseguenze.
Inoltre, non vi è più quella netta demarcazione uomo versus tecnologia, dal momento che gli autori sanno che il passaggio all’uomo cibernetico è già iniziato, anzi, lo vivono come tutti noi quotidianamente. In queste storie l’uomo agisce in uno scenario imprescindibile dalla tecnologia, ma non sa ancora fino in fondo come gestire questo innesto che silenziosamente è diventato parte ineluttabile di sé, vuoi per motivi vitali che futili – se ne è lasciato travolgere, lo ha dato per scontato, lo soppesa ancora con sospetto, lo studia voracemente.
In un presente in cui la tecnologia dà grandi possibilità e accesso immediato a milioni di dati e informazioni, vengono però a mancare le risposte basilari. In un tempo in cui la scienza tanto riesce a spiegare, dubbi atavici gettano lunghe ombre su possibilità che la rigida razionalità deride e rinnega.
Ne emerge un’umanità intrappolata in un universo – caratterizzato da un moltiplicarsi stordente di piani reali o potenziali, attuabili o impossibili, quale il più folle quadro di Escher – indifferente alle sue sofferenze, alla sua volontà . Tale “universo” non è necessariamente un altro mondo, bensì è il contesto socio-culturale in cui i personaggi si muovono, che per qualche motivo si è ingigantito divenendo una cacotopia alienante, in cui l’individuo si trova gettato e smarrito. L’ultimo ostacolo alla liberazione sembra paradossalmente l’essere vivi o proprio l’essere umani, quasi che nella morte o nella trasformazione in qualcosa di inumano si possa accedere a uno stato di pace, di accettazione.
È davvero così? Queste storie mi sembrano suggerire di no: essere umani, rimanerlo almeno nell’essenza, diviene una forma di resistenza. Per quanto dolorosa.
Questo è un’altra peculiarità che mi ha colpito, quante volte in tutta la raccolta compare il termine “dolore” o vocaboli semanticamente affini: almeno una in ogni racconto. È dunque il dolore la conditio sine qua non dell’uomo?
Sì, dolore e timore: di queste emozioni primordiali pulsa ancor oggi il cuore dell’umanità , ma esse non sono un fine o una risposta, bensì un passaggio di trasformazione per comprendere (il più possibile, dal momento che il tutto ci è negato), per essere consapevoli.
Mentre la realtà vacilla e muta, nell’istante di vulnerabile titubanza in cui ci si pongono domande quali “cos’è l’uomo? cosa ci fa qui? e questo “qui”, cos’è?”, si incunea lo sconcerto per lo sconosciuto, l’inafferrabile, che fa sussultare la ghiandola pineale allo stesso modo del primo essere vivente. L’ignoto oggi è la sensazione che tutto ciò che sembra così chiaramente palese e dimostrato, in realtà non lo sia, che qualcosa svicoli, che l’hic et nunc sia solo una delle eventualità compiute e che il domani possa diramarsi in svolte inquietanti, estreme, paradossali.
Che si osservi la (pseudo?) “realtà ” con ironia, sarcasmo, compartecipazione, passione, afflizione, il cuore della nostra umanità si trova (ancora) smarrito.
In tutto questo c’è anche una grande solitudine del singolo, che annaspa cercando un contatto autentico con un suo simile, mediato spesso, ancora una volta, da mezzi tecnologici, ma per lo più si trova solo in mezzo alla folla, all’incomprensione degli altri o al ricordo intangibile di qualcuno che ha perduto. Sguardi vacui, che attorniano, ma che non comprendono, o non vogliono intendere, né compartecipare.
Non tutti i personaggi riescono a non soccombere, dolore e paura sono in evidenza, ma quanto traspare dalle diciotto declinazioni differenti dei racconti non è disperazione assoluta, anzi: è l’eroismo della narrativa stessa, espressione così fragile e purtroppo flebile dell’essenza umana, che diviene il vero messaggio della raccolta, poiché essa ha la responsabilità di indagare queste due emozioni, farsene portavoce e divenire opportunità di non affogare nell’angoscia esistenziale, nell’incoscienza del mero sopravvivere, di svegliarci e di aprire gli occhi dinanzi a quanto sta accadendo prima di varcare l’ultima soglia, quella del totale smarrimento di sé e dell’abulia dell’esistere, raccontando affabilmente il sottile confine tra probabile e accadimento e il potere che noi abbiamo per farlo essere o una o l’altra cosa.
L’improbabilità del titolo è il tiro di dadi che non abolirà mai il caso (come diceva Mallarmé): la combinazione che può uscirne è l’ignoto che incute timore, la realtà che non ti aspettavi. E allora è necessario essere vigili e consapevoli, grazie anche alla propulsione di questi racconti, che gettano il seme del dubbio a energia inerte ma costante perché venga raccolto e fatto germogliare.
Si rivela quindi l’altro aspetto dell’essenza dell’umanità che deve resistere: quello del narrare, appunto, sotto qualsivoglia forma artistica o matematica.
Ed è perciò evidente il valore di una sinfonia di voci come quella di questa raccolta: nella fragilità e confusione della vita dell’uomo odierno, si erge come una ginestra sul liminare dell’abisso, perché domani vi sia un ponte, o un volo, non una caduta.
My rating: 4.5-5/5