Li avevo persi tutti (mi furono rubati): poi, all'improvviso, oggi un amico mi ha regalato questo piccolo tesoro; mi ha soprattutto restituito una parte fondamentale della mia splendida, nerd ed eroica adolescenza (quale adolescenza, in effetti, non è tale?). Per l'occasione ho deciso di pubblicare su queste pagine un vecchissimo trattamento (un tentativo del remoto 2001: leggetelo con clemenza!), in cui cercai di esprimere che cosa fu per me, per noi ragazzi degli anni '80, avventurarci con dadi e penna nelle tenebre dei dungeon.
PIENNEGI’
(Personaggi
Non Giocanti)
1
“Mi
si chiede di consegnare la spada, altrimenti sarei stato tratto in
arresto. Dal barbacane vedo affacciarsi sei balestrieri…” Enrico,
eccitato, racconta la sua ultima avventura. Mima fendenti, parate,
assalti d’Orchi.
“Abbassa
la voce! ci prenderanno per scemi!” Stefano gli corre accanto
imbarazzato. Domanda scusa a mezza voce e con gli occhi bassi agli
studenti che l’amico va urtando: lui, neppure se ne rende conto.
“Medioevo
da telefilm, figuriamoci! – scherza Tommaso – Figurati se
all’epoca, ad ogni cavaliere che entrava in una città, intimavano
l’arresto o la consegna delle armi. La spada era un’insegna, uno
status symbol. Sei balestrieri, poi! Macché! Il balestriere era un
soldato specializzato, un uomo d’elite! Lasciamo perdere!”
Cultore della materia, lui, presta sempre la maggior attenzione al
particolare. Con Enrico è il più appassionato del gruppo.
“Che
ci sarà da entusiasmarsi tanto!… Non vi capisco!” Marco li
segue, li ascolta discutere di cose fantastiche senza comprendere
quasi, scuote la testa, ma si diverte: soprattutto sono i suoi amici
più cari.
Una
ragazza, appoggiata alle colonne del cortile della Facoltà, li vede
passare e salire le scale e sorride: “Quei quattro matti dei giochi
di ruolo – dice a un’amica – ragazzi strani, stranissimi!…”
2
E
quella sera pure, come ogni sera, si ritrovano a casa di Enrico
attorno al tavolo a giocare, fino a tardi. Rotolano i dadi preferiti
e strani – ad otto, dieci, dodici e venti facce – custoditi
gelosamente come reliquie in sacchetti di velluto ricamati di rune.
Ognuno con la propria Scheda del Personaggio: un taccuino che
registra nome, notizie, elenchi di armature e talismani ed armi;
tabelle e diagrammi che esprimono in cifre l’identità dei loro
alter ego nel mondo fantastico. Enrico è un Paladino, un guerriero
prediletto dagli dei, Stefano è un saltimbanco e furfante di razza
elfica. Tommaso questa notte è il Master, il Narratore. Attorno al
tavolo, sotto la luce ocra e calda della lampada, fra le bottiglie di
Coca Cola e birra, le volute del fumo azzurro delle sigarette, nel
silenzio come incantato del cucinino, le sue parole innalzano torri e
montagne, evocano tenebre, nemici, segreti. Enrico lo incalza, lo
provoca, lo sfida, aggiunge particolari al racconto; lancia i dadi
trattenendo il fiato, esulta, maledice. Cancella dalla sua scheda
cifre e di seguito prende nota di nuovi dati. Stefano più volentieri
ascolta – pensa a sé stesso come a un eroe di poche parole –
raramente lancia i dadi, teme il rischio, segue Enrico. Immaginano di
combattere, di viaggiare, di soffrire e di trionfare. L’orologio
segna l’una di notte.
“Basta
così. Continuiamo la prossima volta” – dice Tommaso raccogliendo
matite e manuali. Stefano sbadiglia.
“Perché
la prossima volta? – protesta Enrico – Dài, mezz’ora ancora!”
Vedono,
dalle finestre, un’auto ferma con lo sportello aperto innanzi casa.
Il guidatore si affaccia, fa un cenno di saluto.
“Marco
è arrivato – avverte Stefano – scendiamo.”
3
Al
solito pub, a quell’ora, non c’è più nessuno; le cameriere
hanno meno da fare e, più cordiali, capita a volte che si
trattengano a chiacchierare. Carine. Marco, Stefano, Tommaso ed
Enrico se la concedono ogni volta che possono quest’ora insieme a
fumare e bere. E’ un’ora pirata, filibustiera, rubata allo studio
che non è mai abbastanza rubata al sonno alle lamentele dei
genitori: “Non sarebbe meglio tornassi a casa un po’ prima?”.
Insomma è un’ora intensamente loro.
“Ragazzi,
dopodomani c’è l’assemblea, ve lo ricordate, si?” – Marco li
guarda negli occhi, severamente.
“Ah,
certo, si… L’assemblea…” – è evidente che lo avevano
dimenticato. Non gli interessa, e Marco lo sa. Ma ci prova.
“Per
le modifiche al piano di studi. Riguarda tutti. E più si è, più è
probabile che la spuntiamo. Al comitato ci diamo da fare per
raccogliere gente. Io voi tre vi voglio in prima fila.”
“Non
cambia nulla, assemblea o non assemblea. Il Rettore fa poi quello che
gli pare. Si sa.” – dice Enrico.
“Non
mi piacciono le mobilitazioni.” – dice Tommaso.
“Purché
non si resti in piedi per ore… “ – dice Stefano.
“Ci
tengo ragazzi. E’ un favore… personale, capito? Vi prego.” –
Marco non se ne accorge, ma sta quasi gridando. La sua voce sta fra
l’ira e la disperata fiducia.
“D’accordo
– promettono gli altri assonnati – Se vuoi…”
“Andiamo
a dormire – dice Enrico – mi si chiudono gli occhi.”
Si
salutano facendo a botte per finta. Ridono, fischiano, fanno baccano.
Le ragazze del pub li guardano uscire con tenerezza: “Quei quattro
ragazzi che ogni sera sono qui. Sono un po’ strani – sussurrano –
Carini…”
4
In
Facoltà due giorni dopo una piccola folla riempie i portici, il
cortile, le scale e i corridoi. Alcuni, di passaggio soltanto,
annusano l’aria; qua e là domandano che succede, danno un’occhiata
alle bacheche, ascoltano, se ne vanno. Li riconosci invece, quelli
del Comitato Studentesco, dalle cartelle i quaderni le circolari che
portano. Organizzati, informati, documentati. I primi davanti alle
porte o già dentro alle aule. Spiegano, invitano, ordinano i
colleghi, intrattengono i docenti, indirizzano le matricole. Marco è
in testa al gruppo, indaffaratissimo. Sperava ci fosse gente e ce n’è
tanta. Però non vede Tommaso, non vede Enrico, non vede Stefano. Ci
contava. Ci credeva. Gli dispiace.
5
Stefano
in realtà è già là da un’ora. Fra quelli che camminano rasente
il muro e sollevano di tanto in tanto lo sguardo oltre le teste
ammassate. A farsi un’idea, a vedere chi c’è o chi non c’è, a
indovinare se è un mattino inutile o una giornata che al contrario
promette bene. Interessante. C’è confusione, e a Stefano la
confusione non piace. Accanto a lui, da almeno mezz’ora, una
ragazza che avanza di un passo e ritorna indietro. Troppo bassa per
scrutare oltre le teste. Troppo esile per farsi largo a spallate.
Vorrebbe e non vorrebbe, smarrita, indecisa. Una matricola lontano un
miglio, c’è da scommetterci.
“Scusa
– gli chiede – ma non c’è lezione?”
“No
– spiega Stefano – Assemblea questa mattina. Per decidere sui
piani di studio. Un casino.”
“Capito.
Durerà?”
“Tutto
il giorno immagino. Sicuro. Magari anche domani. Chissà.”
“Accidenti!
Mattinata sprecata. Che faccio?”
“Fatti
un giro. Hai già preso il caffè?”
“No.”
“Offro
io. Matricola, vero?”
“Clara.
Si vede?”
“Stefano,
terzo anno, Economia. Un po’ si vede, si. Ma solo un po’…” –
simpatica soprattutto, pensa. Veste un po’ strano, ha i capelli
blu. Però simpatica.
Nell’atrio
c’è sempre più gente, un baccano del diavolo. A Stefano la
confusione non piace. Neppure a Clara? ma guarda un po’! Esami,
esami, anni in corso e fuori corso. Loro due se ne vanno
chiacchierando di tutt’altro.
6
Tutti
quanti che chiamano Marco, cercano Marco, vogliono Marco. Marco è
lì, al microfono, sul podio dell’oratore. Apriamo i lavori
dell’assemblea. L’aula magna è gremita, di più: studenti seduti
per terra, seduti sui tavoli, in piedi. Marco scruta i volti e non
vede Stefano, Enrico e Tommaso. Sapevano che ci teneva. Lo hanno
ferito.
7
Stefano
e Enrico arrivano tardi, già tardi, e certo non camminano in fretta.
Di lontano scorgono le porte della Facoltà e gli studenti che fanno
la ressa per entrare. Il palazzo ha le finestre aperte, dall’aula
magna echeggiano giù nel cortile e la strada, la piazza, le voci dei
relatori amplificate dai microfoni. Le parole quasi indistinguibili:
brusii monotoni, interventi lunghi e probabilmente noiosi.
“Che
casino, che palle! – sbuffa Enrico – detto fra noi: tu hai
proprio voglia di entrare?”
“Le
solite parole d’ordine e di circostanza. Le solite risoluzioni a
metà. Le solite facce, i soliti esagitati.”
“Se
tu vieni me ne vado.”
“Tanto
non riusciremmo neppure a entrare… Credo.”
“Hai
preparato la mappa del Tempio dei Troll per la missione di giovedì
sera?”
“No.
Ho studiato.”
“E
adesso che fai? Torni a casa a studiare?”
“Questa
mattina? Figurati! Ormai…”
“Ti
aiuto a scrivere la missione per giovedì. Disegniamo le mappe e
decidiamo i particolari. Masterizziamo a due. Ti va? Ho il manuale e
il Libro dei Mostri qui nello zaino.”
“Si.
Figo. Andiamo.”
“Mi
dispiace per Marco, ma…”
“E
Stefano?”
“Bhò?!”
Girano
i tacchi e se ne vanno in fretta. Come colpevoli.
8
“Perché
non c’eravate?!”
“C’era
gente, hai visto… Praticamente non siamo riusciti ad entrare. Ma è
andata bene, no?”
“Si,
è andata bene… C’erano tutti tranne voi, direi!”
“Ma
ti ho spiegato. E poi…”
“Cosa?!”
“Io,
per me, sono sincero. Ero entrato. Fra i primi.”
“E
allora?”
“Ho
conosciuto una ragazza. Sai com’è: “chi sei”, “chi non sei”,
“che fai”, “che non fai”, “Qui c’è casino: andiamo a
prendere un caffè?” “Volentieri!” E ho disertato.”
“Bravo!
Fregatene! Complimenti! E voi due?”
“Marco,
ascolta: non ci andava. Non ne avevamo proprio voglia. Per niente.
Io, avrei voluto anche studiare quel mattino…”
“Non
avremmo combinato nulla. E all’assemblea non avremmo detto nulla.”
“Che
avete fatto per tutto il giorno, allora?!”
“Abbiamo
scritto la missione per giovedì sera.”
“I
giochi di ruolo?!”
“Si.”
“Siete
stati tutto il giorno come due cretini a perder tempo con i giochi di
ruolo?!
“Saranno
pure fatti nostri, ti pare?”
“Se
non altro, perché lo avevate promesso a me!”
“Uff!…
Adesso non farne un dramma, su!”
“Andate
a fare in culo. Ci si vede.”
Marco
se ne va, rovesciando la sedia, il bicchiere vuoto, sbattendo la
porta. Stefano, Enrico e Tommaso restano lì a lungo in silenzio. Non
hanno il coraggio di guardarsi negli occhi.
9
Uno
squillo, due squilli, tre squilli. Stefano corre al telefono sperando
– chissà? – che a chiamare sia lei. Gli farebbe molto piacere
che fosse lei.
“Pronto?
C’è Stefano?”
“Sono
io.”
“Ciao
Stefano. Clara. Che fai questa sera?”
“Sono
a casa di amici – poi esita. Un po’ si vergogna a dirle del suo
hobby. O meglio: si vergognerebbe a spiegarle, in realtà. Così
difficile, con chi non gioca e non sa! Imbarazzante. Quindi ma si,
chi se ne frega, decide. Perché nasconderlo? – Sono a casa di
amici a giocare di ruolo.”
“Curioso
– dice Clara. La voce le sorride. Neppure un attimo di esitazione.
E Stefano si sente pervadere da una sorta di infantile gaiezza –
Potresti invitare anche me? Mi piacerebbe…”
10
Più
tardi sono a casa di Enrico. Stefano presenta Clara agli amici:
“Vorrebbe provare… a giocare con noi.” Tommaso là per là non
sa che dire, è stupito. Una ragazza? A giocare di ruolo? Macché! Un
nuovo membro del gruppo. Soprattutto l’idea lo diverte però. E’
contento: “D’accordo!” La invita a sedere le mette in mano
scheda, dadi, matite, manuali. Enrico è meno cordiale, anzi,
scorbutico: “Vedremo…”; accoglie Clara con un ghigno sfottente.
Attorno
al tavolo inventano affronti, incantesimi, battaglie; di dietro la
maschera dello Stregone e del Cavaliere si confessano sentimenti e
timori che altrimenti non avrebbero senso. Comprendono l’odio, la
lealtà, la nobiltà d’animo, il coraggio. L’ore trascorrono, le
foreste si fanno più fitte; le catacombe più profonde ed oscure e i
mostri più terribili e verosimili. Giocano, e non cessano di
stupirsi delle loro verità.
Clara
però non comprende, non si immedesima, non coglie nulla nelle voci
dei ragazzi. Le paiono ore che trascorrono senza scopo, non indovina
la meccanica, la logica; non coglie in tutto questo né un utile né
un divertente. Lancia i dadi quando Stefano le dice di farlo,
svogliatamente. Sbadiglia. E’ mortalmente annoiata. Tommaso seguita
a guardarla e nei suoi occhi puoi leggere delusione, disinteresse. E
pazienza tuttavia. Enrico è infastidito, scostante. Stefano è
mortificato: nei confronti di chi? Degli amici o di Clara?
Neppure
è suonata ancora la mezzanotte e lei chiede: “Per favore, mi
riaccompagni a casa? Domani mi sveglio presto, ho lezione…” Ed è
evidente che è soltanto una scusa. Stefano infila il cappotto e va
via. Tommaso ed Enrico lo salutano con un cenno, imbronciati. A mezza
voce, mentre scendono le scale: “Dio, che palle! – gli domanda
Clara – Spiegami, ora: che ci trovate di tanto divertente?”
11
Soli,
gli altri due rassettano la stanza: raccolgono dadi, matite,
quaderni; buttano nella pattumiera bottiglie vuote e bicchieri di
carta e cenere e cicche.
“Serata
sprecata. Serata andata male! – dice Enrico – ed io che a questa
missione ci tenevo! Vaffanculo cazzo, sarei passato di livello.”
“Eh
via, non prendertela – dice Tommaso – Ci ha provato. Non è detto
che riescano tutti ad entrar nello spirito…”
“Stefano
faceva meglio a lasciarla a casa quella lì. Ma chi è?”
“Probabilmente
gli interessa. Gli interessa molto.”
“Se
ha intenzione di portarsela dietro anche alla prossima…”
“Credo
di no. Piuttosto, di qui in avanti, sarà a noi che darà qualche
bidone.”
“Non
vorrei ci rovinasse le partite, ecco. Tutto qui. Senti: molliamo
Stefano e mettiamo su qualche altro gruppo, che ne dici? Giocatori se
ne trovano, in giro e in Facoltà. Ne conosco.”
“Perché,
per te è una questione di gioco soltanto?”
Enrico,
poi, torna a parlare di draghi e di livelli e di armi magiche.
Tommaso, all’una, decide di tornarsene a casa. Cammina per le
strade deserte e ripensa alla serata, a Stefano, a quella ragazza, ad
Enrico e a sé stesso. Trova a terra una lattina vuota e la calcia
con rabbia.
12
Stefano
e Clara si frequentano ancora. La serata “sbagliata” a giocare di
ruolo è dimenticata. Lui si sentiva in colpa per averla invitata,
lei si sentiva in colpa per esserci stata. Ora sono a passeggio, o
sono al cinema, o prendono il tè. Sono insieme in biblioteca a
studiare. Hanno in comune un sacco di cose, si divertono. E’ una
splendida amicizia.
Tommaso
studia, la sua Storia Medioevale, e la materia lo appassiona. Trova
il tempo fra un esame e l’altro di approfondire argomenti minori ma
interessanti. Si esercita a scrivere brevi articoli critici e li
propone e i professori apprezzano. Lo invitano a partecipare a
qualche convegno.
Enrico
trascorre pomeriggi e nottate a giocare di ruolo con vari gruppi di
appassionati. Persone che conosce appena di nome. Non appena ha
qualche soldo in più compra un manuale, fanzines, materiali di
gioco. Quando può si siede in poltrona e ripassa le regole; la sua
scrivania è ingombra di fogli a quadretti su cui disegna mappe,
labirinti, stemmi araldici e creature mostruose. Più spesso ha nello
zaino dadi e schede che non libri. Trascura lo studio, gli esami.
13
Un
mattino, per caso, sotto i portici della Facoltà, Enrico incontra
Tommaso. “Accidenti! – considera – saranno mesi che non ci
vediamo… Mesi…” Vuol salutarlo. Chiedergli come va, che si fa.
Tommaso sta parlando con un docente. Piuttosto intento. Non lo ha
veduto. Enrico attende. Il docente alla fine se ne va. Saluta Tommaso
come fosse un collega. Lui è raggiante, soddisfatto. Magari un po’
stanco, questo si, sembra un po’ stanco. Ma il suo sorriso la dice
lunga, eccome! Enrico a questo punto si fa avanti:
“Tom!”
“Enrico!
Chi ti ha più visto?”
“E’
un secolo in effetti… Tutto bene?”
“Mi
hanno appena offerto un dottorato… Direi di si!”
“Ah.
Complimenti. Io, invece, sono ancora in alto mare…”
“Ma
non avevi quasi finito gli esami, scusa?”
“Gli
esami? – sorride – E chi ha più studiato?”
“Come
mai?” – Tommaso è confuso. L’amico non è di quelli che ha mai
fatto particolare fatica a tirare avanti all’università.
“Dimmi
– chiede Enrico – tu faresti ancora il Dungeon Master? Ho un
nuovo gruppo…”
14
Stefano
ha riaccompagnato Clara. Ormai come ogni sera da un mese si salutano
qui, sulla soglia del portone di casa di lei. Oggi è stata la volta
del cineforum: “Storia di fantasmi cinesi”. Ha subito pensato di
invitare lei e non altri, quando ha vedute le locandine. E non si è
chiesto se potesse o meno piacerle, sapeva di si.
“Bella
serata mi auguro. Magari il film…”
“Serata
splendida, grazie. Come ogni volta che esco con te.”
“A
parte i giochi di ruolo, naturalmente…”
“A
parte quelli.”
Certo,
si veste strano, ha i capelli blu. E neppure ha mai contato quanti
orecchini. Però è simpatica, intelligente. Carina. Le giornate sono
sempre più grigie quando non c’è: banale, banalissimo e melenso,
però è esattamente così.
Certo,
è un imbranato, è timido da non crederci. Ha una fissa per quei
giochi assurdi. Sperare gli passi crescendo? Macché! Se poi davvero
mai crescerà. Però è sensibile, è dolce, è intelligente. Non è
banale. E carino. E in effetti si diverte è serena solo con lui:
sciocco, vero, però è esattamente così.
Si
stringono. Si baciano.
15
Da
giorni intendono parlargli a quattr’occhi, di più: da settimane.
Da mesi. Enrico se n’è accorto da un pezzo, ma ha sempre evitato
di essere lui, a parlare per primo. Questa sera è la resa dei conti
però, senz’altro. Sono a cena tutti e tre insieme – e non capita
spesso – ed è l’ora del tiggì, sicuro, ma guarda caso la
televisione è spenta. Questa sera non può evitare di affrontarli.
Suo padre è già seduto a braccia conserte. Sua madre sta colmando i
piatti col mestolo, distrattamente. Lo stanno fissando – sicuro! –
con una strana espressione; è un sorriso affettuoso e spaventato.
“Enrico
– chiede mamma – sbaglio o è un po’ di tempo che non ti sento
dire che hai esami?”
“Eppure
– nota papà – questo è il periodo… O no?”
“Mancano
ancora due settimane agli appelli.”
“Quanti
ne hai in programma?” – incalza mamma.
“Di
che?”
“Di
esami: di che stiamo parlando?”
Già.
Enrico trae un profondo respiro. “Nessuno – ammette – non ne ho
in programma nessuno.”
“Forse
con quel tuo gioco ti distrai troppo – dice papà. E’ irritato –
Hai preso… un po’ una fissa, mi pare, per quelle cose. Ti vedo
sempre con quei manuali in mano.”
“L’università
costa Enrico. Se non ti va, se non ti piace, se pensi di non essere
capace considera di ritirati e punto e basta. Non c’è da
vergognarsene, non c’è nulla di male. Ti cerchi un lavoretto e…”
“Io
sto studiando mamma – è una menzogna, e lo sa – Non darò esami
in questa sessione, e va bene, ma sto studiando.”
“Allora
stai studiando poco Enrico – dice papà – Perché gli esami
quando è ora bisogna darli. E tu, invece, stai in giro tutto il
giorno a giocare a quei giochi di ruolo.”
“Che
ne sapete, voi, di come studio e quanto studio io?! Chi ci va
all’università?!” – Enrico, senza neppure accorgersene, alza
la voce, o meglio grida. Un grido isterico quasi in falsetto. E’ in
piedi con i pugni sul tavolo. Sta tremando. Mamma e papà rimangono
esterrefatti dalla sua reazione. Violenta e improvvisa. Papà
vorrebbe replicare. Mamma subito lo azzittisce. “Farà un po’ lui
– sussurra - Ha ragione. Sono fatti suoi. Basta così.”
E’
una tregua. Enrico ne approfitta. Sgattaiola in camera e chiude a
chiave la porta. Trema ancora. E’ confuso. “Tranquillo – va
ripetendosi – Tranquillo. Ma che succede?” Vede sul letto il
Manuale dei Mostri e dei Tesori, il Manuale del Personaggio, i fogli
bianchi esagonati per meglio disegnare le piantine dei labirinti. E
all’improvviso si sente più quieto. Lo pervade quasi un’ottusa
calma. Si siede e legge. Papà e mamma, in cucina, discutono ancora.
Belle le regole relative ai Necromanti. Discutono. Non gliene
importa. Si siede e legge. Discutono. Non gliene importa.
16
“Ciao
Marco.”
“Ciao
Tommaso… Come va?”
Da
mesi non si vedono più non si cercano più non si parlano più,
neppure al telefono. “Dalla sera della mia scenata per
l’assemblea”, pensa Marco. “Dal mattino che me ne sono fregato
dell’assemblea”, pensa Tommaso. Gli altri studenti sciamano loro
tutt’attorno, vanno di fretta, corrono, discutono, scherzano, si
arrabbiano ad alta voce. Marco e Tommaso restano immobili sotto i
portici, imbarazzati; sospesi fra un incerto rancore e la contentezza
per l’essersi ritrovati. Persino i convenevoli si scambiano a
fatica. Poi è Marco a dimostrare più coraggio:
“Certo
che te dove potevo trovarti, se non qui? La solita secchia: ormai,
scommetto, ci dormi pure in Facoltà.” Ride quindi. E tutto quanto
all’improvviso è più semplice.
Insieme
passeggiano per un lungo tratto. Fianco a fianco attraversano il
cortile; scendono, chiacchierando, con calma, le rampe di scale degli
edifici universitari. Tornano insieme a quel bar ch’era di sempre,
vanno a sedersi, di nuovo, allo stesso tavolo. Tommaso chiede un
succo di albicocca, come al solito; Marco una birra piccola chiara,
come al solito.
“Novità
in questi ultimi mesi? Belle notizie?”
“Per
me si. Mi hanno offerto un dottorato.”
“Complimenti!
Ma da te non mi aspettavo di meno. Hai accettato?”
“E
come no? Non appena discussa la tesi.”
“Si
capisce. E dopo?”
“La
lunga, tortuosa strada della carriera universitaria. Terra incognita.
Terribile. Ma ho tutte le intenzioni di provarci. E tu?”
“Nulla
di così definitivo. Per ora. Soltanto… Sto collaborando ad alcune
attività di Amnesty International. Mi impegnano molto. Poi si
vedrà.”
Tre
ragazze si siedono al tavolo accanto al loro. Matricole. Le tasche e
gli zaini pieni di opuscoli, brochures, cartelle. Tutte intitolate
più o meno “Guida a…”. Disordinate, vivaci. Si guardano
attorno con gli occhi che folgorano di entusiasmo, curiosità. Mirano
il bar, gli altri tavoli e gli altri studenti come fossero un
affresco della Sistina.”
“Carine!
Quella mora con i capelli a caschetto in particolare, non trovi?” –
dice Marco.
“A
me sembrano molto… ragazzine. Appena uscite dal Liceo. Si vede.”
– dice Tommaso.
“Hai
ragione – sospira Marco – Proprio piccine, si… Piccoline.”
Per
un istante i due amici riescono a vedersi, ad intuirsi anzi, ben
oltre i minuti che trascorrono insieme a quel tavolo, ben oltre gli
studi. L’uno di fronte all’altro come adulti.
“E
gli altri?”
“Stefano,
credo, da qualche tempo esce con una ragazza.”
“Buon
per lui! Enrico, invece?”
“Molto
dedito ai giochi di ruolo. Molto. Troppo forse.”
“Nel
senso che?”
“Lasciamo
perdere. E’ meglio…”
17
Stefano
è a passeggio con Clara. Una donna di mezza età, dall’aria
assorta, preoccupata, esce da un negozio di abbigliamento si accorge
di lui e lo saluta in silenzio. Un cenno appena del capo, della mano:
però, poi, resta immobile sul ciglio della strada. E seguita a
fissarlo indifferente alla porta del negozio, che ha lasciata aperta,
indifferente alle auto che passano. Uno sguardo severo e supplice
allo stesso tempo.
“Un
attimo, solo un attimo – dice Stefano a Clara – c’è laggiù la
madre di un mio amico. Vado a salutarla.”
“La
madre di chi?”
“Di
Enrico. Ricordi? Quella sera a giocare di ruolo a casa sua, quando…”
“Ah,
si.” – lo interrompe Clara. E quel ricordo è come se la
infastidisse.
La
madre di Enrico è sempre lì ferma a fissarli. Davanti alla vetrina
del negozio. Clara e Stefano attraversano la strada. La raggiungono:
“Buonasera Signora: come sta?”
Neppure
il tempo di presentarle Clara. Subito la donna si confida, racconta.
“Vedi ancora Enrico, Stefano? No? Da quanto tempo?” Suo figlio
ultimamente è chiuso, scontroso, nervoso. Esce poco, e soltanto per
giocare di ruolo. Il resto del tempo sta chiuso in casa, in camera
sua, a leggere e rileggere fanzines, manuali; a disegnare
mostriciattoli, labirinti, mappe fantastiche. A scrivere storie. Non
studia più. Non ha più dato un esame. “Se puoi, per favore, fagli
una telefonata, si? Dillo a Marco, dillo a Tommaso pure. Invitatelo.
Uscite a mangiare una pizza. Al cinema, perché no? Così, per
distrarlo un po’! Ciao! Mi raccomando, eh?” E neppure le ascolta,
le ragioni di Stefano. Se ne va con gli occhi bassi senza voltarsi.
18
“Poi
non dirmi che non ho ragione – dice Clara quando la donna è
lontana – a pensare che il vostro sia un passatempo per
sciroccati.”
“Ma
che ne sai, tu? – dice Stefano. E forse per la prima volta da che
lo conosce Clara avverte fastidio nella sua voce, rabbia, sdegno.
Lui, dal canto suo, ha ancora addosso le parole confuse della madre
di Enrico, quello sguardo spaventato ed angoscioso.
“E’
un gioco, Stefano. E voi vi ci dedicate in modo… morboso: scusa il
termine ma è proprio così. E’ inquietante come vi appassioni.”
“Ora
esageri.”
“E
il tuo amico? Hai sentito che cosa ha detto sua madre?”
Clara
non può, non potrà mai comprendere – pensa Stefano – che
significhi stare attorno a quel tavolo raccolti sotto la luce di una
lampada; in quattro, in cinque, in sei e non di più, come iniziati
ad un sottile segreto. Tutta la notte ad ammaliarsi di parole, a
vicenda, parole sole e lanci di dado e immaginazione. Un linguaggio,
un incanto potente ma prima ancora caro forse, affettuoso, familiare.
Clara che ne può sapere di lui, di loro e di quelli come loro?
Tenuti a balia dai primi barocchi cartoni animati giapponesi, da
giocatoli - mostro, dalle serie fantascientifiche in televisione da
“Guerre Stellari” e “Indiana Jones” al cinema, dai fumetti
della Bonelli Editore da Tolkien letto e riletto come un Vangelo.
Poca mamma, poco papà e tanta tivù. Ecco ciò che ha nutrita
l’anima loro: non la politica, non l’utopia, non la musica; non
la guerra, la povertà, non il lavoro. Fragili, disillusi,
disimpegnati. E quegli Orchi quei Basilischi quei Beholder sono i
terrori che non hanno affrontato, le battaglie che non hanno
combattute gli oppositori che non hanno avuti. Quei Paladini quegli
Arcimaghi quegli Eroi i grandi uomini che non sarà loro dato di
essere mai.
“Clara
– vorrebbe spiegarle – E’ una questione di identità…”
19
Ora
è tesa l’atmosfera in casa, ormai da settimane è così. Con papà
come possono si ignorano, ché papà non è affatto paziente e vede
bene che trattiene l’ira a fatica: vorrebbe affrontarlo, fermarlo
in un angolo, alle strette, e gridare, gridare, gridare; dirgli tutto
e più ancora di tutto. Mamma invece non gli risponde che a mezza
voce; è nervosa, timorosa, distratta.
Tommaso
va concordando la tesi. Spesso è in biblioteca in Facoltà. Il
professore suo mentore, quello che gli ha offerto il dottorato, lo
manda a chiamare e gli chiede se, per caso, nel pomeriggio non gli
dispiacerebbe interrogare lui qualche studente in esame: “Via, una
domanda sulla parte generale. Sono tanti, così chiudiamo prima, Le
pare?”
Enrico,
poi, questa sera ha da batter cassa purtroppo. Accidenti. Eppure a
giorni è il pagamento delle tasse. Seconda rata. Deve. Se potesse
eviterebbe di chiedere, certo: ma al momento non ha in tasca un
centesimo. Speso tutto: materiali di gioco.
“Dovreste
darmi cinquecento Euro.”
“Per
che ti servono?” – grugnisce papà. Con tanta rabbia che a mamma
vengono i brividi.
“Ho
da pagare le tasse universitarie.” – scandisce Enrico.
“Enrico,
non ci prendere per il culo! Non hai più voglia, tu, di studiare!
Non ti sei fatto più vedere, tu, all’università! Sempre con quel
cazzo di giochi! Ma credi che non ci accorgiamo, tua madre ed io, di
come ti sei ridotto con quelle stronzate?! Non fai più un cazzo
dalla mattina alla sera! Ti sei rincoglionito! Rincoglionito!
Rincoglionitooo!”
Urla
papa, urla sempre più forte. Mamma si è rannicchiata in un angolo.
Piange. Le manca quasi il respiro.
Saranno
soli. Per l’intero fine settimana. A casa di lei. Stefano e Clara
siedono al buio sul letto, in silenzio. Si sfiorano appena le dita.
“Ma
saranno affari miei!” – dice Enrico a denti stretti. Ed ecco:
vorrebbe tacere ed andarsene. Chiudere lì. Ma non può. Ora
all’improvviso gli duole la testa. Sente qualcosa avvampargli
dentro. Terribile. Ora vede tutto sfocato. Grida. Ha paura. Davanti a
lui vede suo padre, atterrito, coprirsi il volto con le braccia,
arretrare. Cosa succede? Non capisce perché. Sente i singhiozzi e
gli strilli più acuti di mamma echeggiare tutto attorno, ma non
riesce a vederla.
Tommaso
si siede in cattedra, apre il libro. Di fronte a lui c’è un
piccolo gruppo di studenti. Poco meno che suoi coetanei, immagina. Lo
fissano. Aspettano che rivolga loro domande. E hanno il terrore di
non conoscere le risposte, si vede. “Che strano – continua a
pensare – che strano.” Volge lo sguardo al suo professore, a
destra, e il professore gli strizza l’occhio e sorride.
“Mi
parli del mundio…” – principia.
Mamma
strilla, piange ancora. Dov’è? Ecco: sta parlando al telefono. La
vede appena con la coda dell’occhio. Con chi, sta parlando al
telefono? Quando è squillato, il telefono? Suo padre gli gira
attorno gesticolando, grida. Grida? Grida, si, ma non lo sente
gridare. Suo padre sta cercando di stringerlo, di trattenerlo.
Perché?
Ha
i capelli blu. E li ha contati: quattordici orecchini. E guarda là
che camicia strana ha indossato stasera. Però in quella penombra la
trova splendida.
“Sai
perché mi sono decisa solo stasera? – sussurra Clara – Non
ridere… E’ la prima volta.”
“Non
ridere, – sussurra Stefano – anche per me.”
Enrico
è stordito, ha le vertigini, sta urlando e non capisce perché. Ha
sempre addosso suo padre. Stringe i pugni quindi, e gli sembra di
aver urtato qualcosa. Sua madre si è gettata immobile su una
poltrona, gli occhi sbarrati la bocca aperta in un rantolo. Ha le
gote tutte rigate di lagrime. Papà gli sta davanti, schiena la muro,
col naso rotto e la bocca piena di sangue. Gli sembra di udire
gemere, fuori, la sirena di un’autoambulanza. Sviene.
20
Tommaso
torna a casa felice, emozionato. Percorre il vialetto e sale le scale
di corsa, entra, spalancando il portone, chiama sua madre per
raccontarle. Non vede l’ora. La sua prima interrogazione in
Facoltà. E neppure da laureato. Fantastico.
C’è
un ospite in soggiorno. La madre di Enrico. E’ più che seduta. E’
distesa. Sta sul divano come a riprendersi da uno sforzo. Stringe in
mano una tazza fumante. Camomilla. Ha gli occhi arrossati e i capelli
arruffati.
“Ciao
Tom.” – dice la mamma.
“Ciao
mamma. Buonasera signora. – e teme di aver già intuito. Anzi: ora
vorrebbe non glielo dicessero, ora vorrebbe non sapere con certezza,
ma… - Cos’è successo?”
“Enrico,
Tommy: – spiega l’ospite con la voce roca, a fatica – ha avuto…
ha avuto una specie di crisi isterica. E’ in ospedale. Ha aggredito
suo padre…”
Poi,
poveretta, non riesce a continuare. Piange. Singhiozzi acuti,
terrificanti. La tazza bollente le cade di mano e si spezza in terra.
Tommaso si sente trafiggere. Lo stomaco, in particolare, la gola.
“Voglio
avvertire Stefano e Marco. Devo avvertire Stefano e Marco.”
Telefona.
21
“Che
si fa?” – chiede Tommaso
“E’
esaurito – dice Marco – E’ fuso. E’ depresso.”
“Che
si fa?”
“Si
va a trovarlo – decide Stefano – in ospedale.” E mentre lo dice
affonda in tasca la mano e sente qualcosa. Che tintinna.
22
Lo
trovano in uno stato pietoso. Enrico è solo in una camera vuota
sotto la luce di un neon freddo ed azzurro. Accanto al letto un
armadietto e una bottiglia d’acqua. Un bicchiere. Ha chiesto che
abbassassero le tapparelle. Fuori piove. Può stare in piedi.
Potrebbe alzarsi e infilare le pantofole e fare un giro, ma non
vuole. Si gira da un lato. Respira profondamente. Si rannicchia sotto
le coperte e nasconde la faccia profondamente nel cuscino. Gli amici
salutano. Sottovoce. Lui non risponde.
“Dorme
forse. – l’infermiera dice – Gli abbiamo dato qualche
tranquillante.”
Loro invece sanno
che è sveglio. Ma ha paura. Ne ha come loro ne hanno. E ha vergogna.
Tommaso resta in piedi a un metro dal letto. Immobile e zitto con le
braccia conserte. Se parlasse, la voce gli uscirebbe di gola
spezzata. Ed ora proprio non vuole che Enrico lo senta così.
Marco
cammina avanti e indietro sbuffando. Seccato, batte piano colpi
contro la porta, la parete, i mobili. Vorrebbe essere il più lontano
possibile da quella stanza: è un luogo perduto, per lui.
Stefano
avvicina al letto una sedia. Si sistema dal lato del comodino.
Enrico, fra le coperte, gli volge le spalle. Lui, piano, fruga in
fondo alle tasche. Qualcosa tintinna. Tira fuori un sacchetto di
velluto e ne rovescia il contenuto sul comodino. Un dado a venti
facce, uno a dodici, uno a dieci, uno a otto, uno a sei ed uno a
quattro. Enrico, con il viso affondato nel cuscino, per un istante
trattiene il respiro.
“Vittima
di una vile e misteriosa maledizione – sussurra Stefano – il tuo
Paladino giace nella sua torre e i Maghi di Corte discutono sul da
farsi. Li ascolti, e ti sembrano degli stupidi. Che dici?”
Enrico
si rigira fra le coperte. Alza la testa dal cuscino e lo guarda.
“Il
mio Chierico entra nella stanza – dice Tommaso con la voce che gli
trema – Provo un test di Autorità per vedere se riesco ad
allontanare dal suo capezzale questi stolti!” Prende i dadi e li fa
rotolare sul piano di formica.
Enrico
ride, ride forte di tutto cuore. Così anche Stefano, Tommaso, Marco.
Con gli occhi lucidi. Giocano. Tutta la notte.
FINE
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