Levias
sbatté il foglio sotto il naso di quel bestione, contò sull'abaco
d'ossa umane dipinte a cercare di persuaderlo per ormai la terza
volta:
«È
la tua croce, la riconosci?! Fummo d'accordo, quando partisti: devi
sommare, devi sottrarre... sei fortunato che dallo zero che
non ti devo non ti trattenga equipaggiamenti, muli, la
ferratura, biada, munizioni e le spese per i funerali dei tuoi dodici
compagni!»
«...
ché ne avreste tutto il diritto», Ser Moretto puntualizzò.
L'animale
lo guardò sbigottito e omicida, gli prudettero le mani attorno al
manico dell'ascia. Lui ammiccò ai gorilla sulla soglia dell'ufficio
che accompagnassero quel grosso idiota a sbollire l'ira da un'altra
parte. I quattro uomini sfoderarono pistole e spade, lo circondarono:
il campagnolo li assecondò:
«...
ma questa me la paghi, pidocchio d'un mercante!»
«È
un verbo che in vita mia non ho mai coniugato», rise. Levias
si dispiacque di aver perso l'occasione di concludere altri affari
con quel giovane talentuoso: una bipenne fa sempre comodo.
Un'occhiata alla lunga fila di aspiranti predatori, al banchetto
dell'arruolatore per la prossima spedizione, lo consolò che la
manodopera non gli sarebbe mai mancata.
«'Sti
ragazzi son permalosi, se la prendono per un nonnulla», il leguleio
si lamentò; riarrotolò pergamene e codici fra i risvolti della
toga; «se studiassero le leggi, se imparassero a stare al mondo...»
«...
non avrei di che stipendiarvi.»
Ser
Moretto si azzittì e inghiottì.
Due
servitori vennero madidi e trafelati dalla rampa che dal cortile
saliva al piano di rappresentanza, gli consegnarono le grosse chiavi
della camera del tesoro.
«Scaffale
sedici, vossignoria: troverete la merce lì: ci è sembrato che
fossero...»
«Sono
tutti gioielli?!»
«Ci
è parso sì, vossignoria.»
«Signorina
Rebek Mont'Oro!», Levias chiamò impaziente: una ragazza dagli occhi
bianchi e l'incarnato malato e pallido, con le labbra, le gote e le
palpebre macchiate di rossetto, di polvere ed henné, venne a
tentoni, scarmigliata e vestita a lutto, da un ufficio adiacente
dell'operosa segreteria. Le offrì la mano e abbracciò le spalle:
lei si lasciò condurre nel viavai del personale che salutava con
sguardi assenti, le fremevano le narici, le rispondevano con pena e
un'effettata gentilezza; «ho bisogno delle tue doti.»
Attraversarono
il peristilio che guardava alla Necropoli. Le tombe e i mausolei, le
recinzioni dei sepolcreti, si incendiarono della canicola di un
torrido mezzogiorno, un olezzo di putredine esalò dall'orizzonte.
Stormi necrofagi e sciami neri raccapriccianti sorvolavano una terra
di venefici vapori, branchi magri si rincorrevano sulle spianate
grigie e aride cosparse d'ossa e ciottoli e scavate dalle fosse.
Tesori ed infezioni suppuravano nelle cripte: la lugubre e lucrosa
vastità di Thanatolia. Un avvoltoio tornò al nido sulle porte
cittadine sopra la lapide di marmo bianco QVAM DIV MORTEM
PECVNIAM, che esprimeva la morale
dei cittadini di Handelbab; spartì il piede di un cadavere fra i
pulcini che strillavano.
Levias
aprì ansioso le due grosse serrature, portò dentro Rebek, serrò
l'uscio alle loro spalle e la guidò fra i forzieri, le anfore, le
statue e i fasci d'armi stipati alla rinfusa nella stanza del tesoro.
Sullo scaffale etichettato XVI scintillarono - un po' sozze di
umori - le ricchezze che il grosso idiota con l'ascia enorme gli
aveva riportato dalla recente spedizione: un cimitero per i
cannibali, gli sembrava che avesse detto...
«I
servitori non si sbagliavano», lui si emozionò, «sono solo
gioielli!»
Affondò
le mani avide in quel mucchio di monili, e godé per lunghi istanti
gli scivolassero fra le dita le perle candide dei collari e gli
intrecci d'oro di bracciali e torque; i diamanti dei diademi e
l'ambra verde delle spille.
«Gli
amuleti, i grimori, le armi antiche e le mappe interessano
soprattutto gli stregoni e gli avventurieri, gli antiquari, i
rigattieri e collezionisti del continente: ma quella roba al mercato
estero si vende al quadruplo del valore, ché se ne adornano le
ricche dame delle nazioni al di là del mare che disprezzano la viva,
banale volgarità dei loro mondi solari e diurni che
aborriscono la morte... Credo di avere toccato tutto», disse a
Rebek, «vuoi valutarli?»
La
ragazza sfiorò il tesoro:
«Sì»,
rise malevola, «non c'è più traccia d'altre emozioni, solo la
brama di vossignoria: che è più intensa dell'omicidio, la paura e
sofferenza di millenni.»
«...
poiché l'uomo dimentica prima la morte dei genitori che la perdita
del patrimonio... ma insomma: quanto valgono?»
«...
questo ha tremila anni: duecentomila astragali; questo ne ha
settecento, la fattura è squisita: novemila astragali; questo
bracciale milletrecento...»
Rebek
fissò il prezzo di quello splendido ben d'Iddio che le scorse fra le
dita e sui sensibili polpastrelli; l'iridi bianche, fredde e fisse al
vuoto le tremarono di oscure storie di quegli ori e quelle pietre.
Levias sfogliò il taccuino, prese nota e calcolò: grugnì d'accise,
gabelle e assicurazioni ma gongolò per i molti zeri che risultarono
dall'addizione...
«Questo,
però», lei gli mostrò un anello, «è un fondo di bottiglia, è
ciarpame, non vale nulla. Dovreste sbarazzarvene.»
«Uh?
Sei ammattita? So riconoscere lo zaffiro e la purezza dell'oro
bianco, so apprezzare le antichità: posso venderlo a ottantamila.»
«Fareste
meglio a buttarlo via.»
«Non
mi importa se il precedente proprietario è morto della più orribile
delle morti», lui sfregò il gioiello sul panciotto di velluto, che
tratteneva a bottoni d'oro il disfacimento del grasso ventre,
«'spetta un po': te lo scarico, mi dirai se non ho ragione!»
«Non
ha negatività, non percepisco emozioni: quell'oggetto è del tutto
vuoto, è perciò che mi spaventa.»
Levias,
con un sospiro, le cinse i fianchi e intascò l'anello. Inciamparono
nei bauli, nei barili di monete e le mobilia funerarie di chissà che
civiltà. Chiuse la porta, serrò i lucchetti e ritornarono al
peristilio .
«Non
metto in dubbio le tue doti, Rebek, ma... c'è un sacco di
paccottiglia qui, puoi esserne confusa. Quel tesoro, mi hanno detto,
era sepolto in un brutto posto, ed è costato parecchie vite. Ti sei
stancata, probabilmente: hai valutato un bel po' di roba.»
«Novemilionitrecentomilaseicentoquindici
astragali: dovrebbero bastarvi, sbarazzatevi di quell'orrore.»
«Io
non posso, per principio!, rinunciare a ottantamila cocuzze!»
«Datemelo
dunque, se ho diritto a una ricompensa.»
«Non
vali così tanto. Puoi tornare al tuo lavoro.»
Venne
una domestica a riportarla in segreteria. Levias, restato solo, si
sedette ad una trifora:
«...
non ho mai visto Rebek in quello stato: neppure la volta che esaminò
i manufatti su quei cadaveri non-umani del tumulo di Dunwikka...»
E
in effetti, quell'anello, era proprio un brutto
oggetto: il cerchio d'oro era cesellato a somigliare a
una catena, attorcigliata da un viticcio o verme irto
di spine ed aculei e chiodi. Lo zaffiro incastonato fra le punte
acuminate era un cubo
dai riflessi blu di sgradevoli proporzioni, sembrava spegnere i
raggi diurni in insondabili profondità:
«Santi
déi! C'è... qualcosa lì dentro!...»
Un'ombra
inquieta si dibatteva dentro la pietra quadrangolare, Levias guardò
meglio: all'improvviso rabbrividì, e un olezzo di putrido gli
mescolò le budella. Lo
circondarono le quattro mura di una sala senza uscite,
una triste e fioca luce gocciolava da una grata. Si trovò
rannicchiato, nudo, in un angolo di quel carcere,
stordito dal terrore e
la vertigine del luogo.
Dalla
penombra malata azzurra di fronte a sé gli strisciò contro
un'orripilante e patetica creatura: era lo spettro di un uomo anziano
mummificato che bestemmiava il dolore eterno di una feroce
mutilazione, la mano destra stillava icore dall'anulare mozzato; era
avvolto nei logori, sozzi stracci di lino che furono una tunica di
mago o sacerdote. Uno stregato fuoco celeste gli scoppiettava negli
occhi morti.
«Hai
la chiave! La chiave!»
Levias,
terrorizzato, scansò l'abbracciò di quell'orrore, fuggì carponi a
un altro angolo della cella e urtò lo zoccolo e il treppiede d'ebano
di un pesantissimo leggio; un tomo
enorme lo stese a terra sotto pagine di oro puro, centinaia
di ampli fogli di metallo cesellato.
L'orrido
vecchio gli serrò il collo con grinfie gelide e ischeletrite:
«Sei
qui per questo! Ti manda lei!»
«Si
sente bene, vossignoria?»
Si
sentì scuotere, pizzicare: riconobbe una cameriera con l'espressione
un po' istupidita; lo scaldò la luce torrida, maleodorante del
mezzogiorno e una folata del Sepulchrale che soffiava da sud-est.
Riascoltò
i rumori alacri che venivano dagli uffici: dei cassetti, le bilance,
i campanelli e grattare i fogli. Ritrovò gli archi e le trifore del
piano nobile e la galleria:
«...
che cosa mi è?...»
«È
da un bel pezzo che è imbambolato qua al davanzale, vossignoria: mi
ha fatto preoccupare. Mando a chiamare il messer cerusico,
abbisognate dello speziale?»
Lui
frugò un centesimo nelle tasche del mantello: la ragazzina gli baciò
la mano, le arruffò i ricci, la allontanò; mandò a dire che Ser
Moretto si incaricasse dei vari affari:
«Nel
pomeriggio riposerò.»
Salì
le scale per le sue stanze con lo zaffiro nel pugno madido, gli
tremavano le gambe e non riusciva a placare il cuore: e non sapeva se
per la fifa, rise, o al pensiero del libro d'oro...
Ordinò
che lo disturbassero fra tre giri di clessidra, e che gli inviassero
il meno furbo fra gli scimmioni testé arruolati. Fece tutto come i
preti - da bambino - gli insegnarono al catenécrosi: la preghiera
"noli me tangere" e un olocausto di sale e sangue,
l'orazione "nox perpetua", un posto a tavola e la sedia
vuota, e il triangolo di gesso disegnato sul pavimento. I turiboli
fumarono.
L'energumeno
aprì l'uscio con un cazzotto ferrato, si piantò là sulla soglia
con la spingarda infiammata in spalla:
«Ti
saluto, Levias Aurotene! Sono Girolo da Byrintia: l'Uccisore di
Mostri, il Razziatore di Madri, L'Alto Eroe del Mio Paese,
l'Emulatore dei Grandi Automi, il Lottatore contro Makistes e il
Campione di Plautonia, che giammai si sottomise alle Casate dei
Grandi Heyditor!»
«Trovati
uno sgabello, fissa questo», lo azzittì: ché ormai riconosceva
quel genere di sbruffoni dalle armi e l'equipaggiamento che amavano
ostentare.
Un
enorme teschio bianco su una lorica musculata, santi déi del cattivo
gusto!
Si
concentrarono sull'anello e sprofondarono nella cella. Nudi.
«...
Santa Sharàpova!...», gemette Girolo.
Lo
spettro li aggredì, Levias spinse avanti il suo tributo sacrificale:
privato dell'armatura, dello schioppo e del coltello il mercenario
del nebbioso nord cadde inerme al suo appetito; la creatura lo
rasciugò, lasciò cadere sul pavimento un fantoccio macabro di
carne e sangue; l'anima - divorata - gli bruciava fra le fauci. Non
sembrò fosse placata:
«Restituiscimi
la mia chiave!»
Le
dita secche ed i denti fetidi lo ghermirono inconsistenti, lo
nausearono, lo raggelarono: innocui, tuttavia.
«Sono
protetto dai riti e le scritture che spartiscono ciò che è vivo da
ciò che è morto e non osi nuocere. Hai avuto il tuo tributo: credo
che tu sia stato un prete, conosci bene codeste cose.»
Il
vecchio si accasciò alle impossibili pareti; trovò il senno, la
memoria e le parole in remote, dolorose e inconoscibili profondità:
«Sono...
stato un bibliomante; mi chiamai... non ricordo il mio nome: sono
l'autore...», stornò lo sguardo dal libro d'oro su quel leggio
quasi che il suo splendore gli ferisse le pupille: quei bulbi secchi
di carne putrida, resina e di larve incendiati dalle fiamme di un
castigo oltretombale; «ho edificato questa prigione perché nessuno
potesse impossessarsene: l'unico accesso, la sola chiave...»
«Ti
riferisci a quel brutto anello.»
«Mi
inumarono da vivo, mi amputarono l'anulare, mi costrinsero a guardare
fisso lo zaffiro e imprigionarono per l'eternità a custodire la
Foris Vera: non ne avrei prodotto copie...»
«Quand'è
successo?»
Levias
trasecolò, la domanda gli morì in gola: riconobbe, nei cenci sudici
del fantasma, le geometriche decorative di certe anfore nei suoi
forzieri. Quei bracciali e quella tiara, la collana di avorio e
argento, appartenevano all'artigianato del cosiddetto Remoto Impero.
«Regna
ancora Carlocamòn II? Fu lui che mi incaricò di redigere il
grimorio.»
«Sono
trascorsi seimila anni di un altro calendario, vecchio: mi
dispiace.»
Ridotto
a un'ombra pallida di pena e d'abbandono, il bibliomante fluttuò al
volume baluginante di azzurro e giallo, sfiorò la grandi pagine che
gli arsero le falangi. Pianse lacrime di ectoplasma di tristezza e di
supplizio:
«...
avrò ottenuto che l'Infeconda non abbia aperto le Porte Buie: ormai
non credo lo farà più...»
«A
proposito», lo interruppe: tolse il tomo dal treppiede e si piegò a
quei chili d'oro, emozionato dalla vertigine del valore di ogni
foglio; «come hai detto che si intitola?»
«Vera
Porta della Notte, nella lingua dei tuoi pensieri.»
Non
stavano aprendo bocca, Levias si stupì: l'ombra azzurra fra i
quattro muri echeggiava di un raschio debole, fiacco, disgustoso;
assomigliava alla grammatica spigolosa degli antichi manoscritti.
Intuì fosse la voce dello spettro mummificato, e comprese che
dialogavano per altre orride facoltà.
«Splendido,
superbo, sublime, superlativo! Ma... », le pagine tracimavano di
pentacoli e diagrammi; fitti paragrafi in alfabeti dimenticati e
incomprensibili trafiletti in sgradevoli geroglifici; incisioni di
botanica e sinistra zoologia; «è un libro di magia: non mi rendono
tanto bene. Sanno tutti che le Arti Nere non si apprendono sui
manuali.»
«Ma
questo è un grimorio vero.»
«Vuoi
darmi a intendere che funziona, eccome no? Come quei pacchi di
fanfaluche del Bionomicon e il De Larvae Secretis.»
«Era
già l'unico allorché lo scrissi. Senza il Foris non si
aprono i cancelli degli oltremondi: non lo potrebbe nemmeno lei;
sono sicuro lo stia cercando da... sessanta secoli», lo spettro
si infiochì, «ed è perciò che ci seppellirono.»
«Di
preciso: dov'è, qui?»
Bussarono
alla porta:
«Sono
trascorse le tre clessidre, vossignoria! La cena è pronta!»
Il
fumo pallido dei ceri umani gli punse le narici: l'odore intenso di
sangue e sale, dell'incenso e di cenere, soffocava la camera e
impregnava le sete. Levias si sfregò gli occhi, si scrollò dallo
stordimento, cercò a tentoni sul materasso - vuoto e freddo vicino a
sé - quel magnifico volume che lo incendiava di desiderio:
«Era
autentico», si convinse, «ma dalla tomba non esce niente... È un
luogo fisico, c'è muffa e polvere, l'hanno murato, l'ha costruito;
veste con gli abiti da Antico Impero, lo stesso stile dei miei
reperti...»
Spalancò
le finestre alla frescura dell'imbrunire, una folata smorzò le luci.
Lui, per un istante, restò a guardare gli stoppini neri, che si
accorciavano e polverizzavano in una pozza di grasso fuso:
«Se
è un libro magico non ne avrà danni...»
Corse
ai magazzini fulminato da un'idea.
Sperò
che il cortile fosse amplio abbastanza: non gli andava di
spender soldi per acquistare un palazzo nuovo. Accese la miccia e ci
infilò lo zaffiro, fece in modo che i barili si specchiassero nella
pietra; corse a acquattarsi dietro le tavole e i sacchi e casse che
aveva accumulato al lato opposto del perimetro. Ser Moretto
piagnucolava appiattito a terra: un alone di orina gli sporcava la
toga; il responsabile dei trenta uomini che aveva scelto per
quell'impresa - un evaso psicopatico sfigurato di cicatrici, con il
vizietto autolesionista di un rasoio nella brache... - lo guardò
livido, con i labbri bianchi e gli chiese sottovoce:
«Siete
pazzo, vossignoria.»
No:
non era una domanda...
«State
giù, chiudete gli occhi.»
Levias
contò dieci, venti: il cortile restò in silenzio; tolse i batuffoli
dalle orecchie né avvertì lo sfrigolio. Si azzardò dalla
barricata, gridò di giubilo:
«Ha
funzionato!»
Il
mercenario ed il leguleio si sollevarono, sbigottirono:
«L'esplosivo
è scomparso... dov'è andato a finire?!»
«Era
una miccia da settanta pollici, ci darà tempo: lo scopriremo.
Radunate i vostri sgherri.»
Si
calzò l'elmetto a punta con il crine di cavallo, trattenne il fiato
a indossare un giaco e infoderò le balestrine. Prese bussola, mappe
e il cannocchiale, montò in arcione ed uscì in strada ad arringare
quei prezzolati. Lo psicopatico con la lametta fra i testicoli, che
sprizzarono sangue nero sulla sella, ebbe l'onore di presentargli uno
squadrone di cavalleria dei peggiori criminali che gli fossero
capitati. Più di tutti lo colpì quella ragazza macilenta, con
tatuaggi di neonati come tacche su una spada:
«Sono
gli aborti dopo ogni stupro, vossignoria», lo prevenne la
tagliagole.
Fece
un cenno al capobanda e gli soffiò all'orecchio mozzo:
«Non
mi sta bene di avere sul libro paga una cagna che in così tanti si
son presi con la forza: vi avevo chiesto dei tipi tosti.»
«È
lei che li stupra e uccide», si arrossì lo psicopatico.
Si
assicurò dei contratti in regola e le firme sui cartigli. Li guidò
per le piazze e strade fino alle porte della città: quella masnada
di farabutti - un arsenale alla cintola - non passò inosservata ai
suoi rivali del Fondaco. Nétan Meje si affacciò a una moresca del
suo palazzo, gli augurò buona fortuna con un untuoso salamelecco:
«Grandi
affari messere Aurotene!»
Sparì
subito dal davanzale, pispigliò disposizioni: echeggiò dalla
finestra un concitato calpestio. Da due vicoli laterali, a un vago
cenno di quel serpente, si accodarono ai suoi bravi altri uomini e
cammelli. Prudette a tutti di sfoderare.
L'antiquario
Moshi Turman comandò di seguirlo a altrettanti predoni ben forniti
di attrezzi:
«Se
tu ti muovi, messere Aurotene, c'è da tendere le orecchie.»
Si
fermarono alle porte in almeno un centinaio. Levias, con qualche
pingue difficoltà, ritto in piedi sulle staffe puntò le lenti
sull'orizzonte: il boato di un'esplosione lo ribaltò dalla sella, e
la colonna di fiamme e polvere si alzò visibile ad occhio nudo, nel
cielo insalubre e porporino che opprimeva la Necropoli.
«Fra
le macerie c'è un libro d'oro!», ruggì alle sue canaglie; indicò
loro la nube nera con un'enfasi da condottiero, «prendiamolo,
ragazzi! Vi raddoppio lo stipendio!»
«Doppio
di zero è davvero... tanto!», spronarono gli imbecilli. Le
squadracce dei concorrenti si buttarono all'inseguimento.
La
milizia del barbacane, con megafoni di bronzo, intimò che entro le
mura «c'è il divieto di battersi!»: ma cadaveri trafitti
già cospargevano il levatoio. L'erta pietrosa che dal fossato
scendeva ai tumuli fu insozzata di visceri e ingombrata dai bardotti,
che ragliarono sventrati e azzoppati o crivellati.
Le
fruste lacerarono le groppe dei destrieri e le carni dei cavalieri
che si inseguivano nelle ceneri; le sciabole, le mazze, gli stocchi
ed i machete sibilarono e cozzarono e stridettero rabbiosi.
Come
sempre in quelle mischie, per il capriccio del Dio dei Ricchi,
Levias corse incolume in quello scoscio di palle e dardi; Meje e
Turman, affannati, gli galopparono fianco a fianco:
«Un
litro d'oro!», strillava il nero, «Questo casino per così
poco!»
«Dimmi
perché ti ci impegni tanto», l'antiquario lo incalzò, «se è solo
un bucintoro!»
Levias
fu molto grato che ci fosse confusione.
I
cavalli ed i cammelli si imbizzarrirono fra le lapidi, disarcionarono
e calpestarono i predoni meno svegli. Lo psicopatico godette,
stridulo e effeminato, di sbattere i testicoli su una celtica di
marmo; la ragazza dei feti morti, ritta in piedi su un avello, scavò
un cerchio di budella con la rapida alabarda. Asce e spade e pugnali
e daghe scintillarono di furia, ne morirono inchiodati dalle frecce e
i verrettoni. Combatterono arrancando, nell'imbrunire vermiglio e
cupo, trascinandosi alle rovine della cella nell'anello.
Lui,
Meje e Turman sgomitarono fra i mercenari, camminarono sugli sgozzati
e incespicarono fra gli infilzati. Si lasciarono alle spalle
un'immensa rissa di dissennati, che cadevano avvinghiati morsicandosi
e graffiandosi.
«Non
gli interessa la ricompensa: hanno già l'estasi dell'omicidio.»
I
sepolcreti di Thanatolia si spalancarono ai loro corpi.
Meje
- la buon'ora - dovette arrendersi ai sessant'anni; restò supino con
il fiato corto su una lastra di granito:
«Fottiti,
messer Aurotene!», ansimò tutto sudato, «i tuoi spiccioli non mi
interessano! Che avete da ghignare?!»
Gli
mostrarono, divertiti, che la lapide sulla quale si era steso era
incisa di una volpe e del filare di una vite.
«...
se è prezioso e molto antico», Turman snudò il suo kriss, «il tuo
tesoro può farmi comodo...»
Levias
tirò a una coscia, l'antiquario crollo in ginocchio, menò un
fendente con il pugnale: gli calciò l'arma di mano. Trapassò il
polso con un quadrello e centrò nella clavicola. Incoccò il
caricatore del balestrino a ripetizione divertendosi dei guaiti di
quel coglione di robivecchi:
«Usi
ancora quel coltello! Posso venderti un archibugio?»
L'altro,
sofferente, gli mostrò il medio e zoppicò al cavallo.
A
due-trecento metri di salita davanti a sé, in un campo di bare
aliene dissotterrate e violate, trovò i ruderi fumanti di quel
carcere stregato.
La
cella cubica si sviluppava per molti metri in profondità,
scoperchiata dall'esplosione che aveva infranto la pietra blu
seppellita da sei secoli di gramigna e di terriccio. Il rossore del
tramonto, e una lanterna che calò accesa, non rischiararono fino in
fondo quel vasto abisso di solitudine: ma la fiamma della lampada
riverberò sul tomo d'oro, le due lune di Thanatolia lessero i versi
del Foris Vera.
«Sei
libero, stregone», Levias si imbaldanzì, «ma mi prendo il tuo
tesoro!»
spetta
a me, maschio mortale
Quella
voce lo raggelò. Percepì dietro di sé una presenza
mostruosa e immane: non era certo che fosse fisica e calcasse
il mondo, camminasse nei cimiteri, o fosse un alito più tremendo,
mortifero e glaciale del respiro tenebroso delle cose
dell'Aldilà... Era il sentore di carni e umori che decompongono
per millenni.
Fu
consapevole che fosse femmina. E che sarebbe impazzito e
morto, se avesse osato voltarsi...
Il
bibliomante, di fronte a lui, affiorò dalla prigione: fluttuò
solenne in un fuoco azzurro col grimorio fra le braccia, spalancato a
una figura che bruciava di potere. Il libro magico consumava
spoglie e spirito del vecchio: lui si martirizzava in quel supplizio
definitivo intonando gli incantesimi per un'ultima battaglia:
«...
tu non lo avrai mai, Primeva Prostituta... Vattene, imbecille! Non
guardare, non guardare!»
Levias
vacillò, lo ghermì un terrore puro; ruzzolò dal sepolcreto
delirante e ottenebrato. Sentì l'abbracciò dello psicopatico e un
olezzo di diarrea; il capobanda tremò, e piangeva, con la voce di un
bambino:
«...
è molto brutta, vossignoria! Voglio la mamma, dobbiamo
andarcene!...»
E
le grida degli altri uomini cui esplosero le tempie.
Batté
la fronte contro quei feretri. Svenne.
Aprì
gli occhi fra le macerie su uno strato di cenere: indolenzito alla
nuca e i reni, fra le scapole e all'osso sacro, da qualcosa di grande
e scomodo sotto la coltre di schifo grigio. Spazzò la polvere ed il
pietrisco dallo splendido Foris Vera: l'oro scintillò del
sole pallido, spietato, del tardissimo mattino di un altro giorno sul
Continente.
Qualche
mulo, indifferente dei molti morti, masticava le carrube e i
tarassaco e le ortiche.
Un
vento freddo gli portò un'eco nella lingua degli antichi:
Non
questa volta: entrambi deboli; l'ho ricacciata, ma è ritornata,
rinvigorisce. La tua folle avidità è il migliore nascondiglio.
Nessuno deve averlo.
Lui
gettò ossequioso una ginestra nella tomba, legò il libro sulla
sella di un bardotto recalcitrante. Spese un «amen» per il fantasma
e tornò in arcione e spronò le bestie:
«Ma
chi vuoi che si danni l'anima, per un libro di magia?»
Nonostante
che lo affliggesse un tenebroso presentimento.