Tempo fa partecipai a un concorso che imponeva l'inedito. C'era in premio un consistente gruzzoletto, ma... non si può vincere sempre, e infatti non ho vinto. Si trattava di raccontare un anno nella storia d'Italia: mi assegnarono il 1955 e produssi ciò che segue. Godetevelo voi! Torno a scrivere fantascienza, ché è meglio...
"Lascia
o raddoppia?" è
stata la TV italiana che nasceva in un Paese che nasceva. C'era lo
stesso carico di sogni, di speranze, di buone intenzioni.
Vittorio
Veltroni
Giorgio
gironzolava a testa in su nelle sale, con la giacca su una spalla e
l'altra mano affondata in tasca; si scrollava dai mocassini il
truciolare, la polvere, quell'intonaco color ocra
scartavetrato dai laterizi. Su una scala abbandonata sotto il sole di
luglio, che filtrava da una bifora di quell'ex-monastero, riposavano
gli attrezzi di imbianchini in pausa pranzo: i cappelli di
cartastraccia, quasi sciolti di sudore, e i grembiuli rappezzati con
le gocciole di vernice. La De Palma cantava L'ombra da una
radio a transistor, che echeggiava chissà dove in quell'antico
edificio.
«Ho
ragione o non ho ragione?», ripeteva Michele: che quasi lo
trascinava, sottobraccio, paonazzo, per le sale di impalcature e
forniture imballate, seggiole nel cellophane e lampadari in bambagia.
«Sì,
è molto bello», lui lo accontentò, «ma quanto ti è costato?»
L'altro
si rivoltò le tasche vuote dei pantaloni, si strinse nelle spalle;
gli sorrise di un sorriso incosciente o con la smorfia d'un
disperato.
«Per
me, sono sincero, era meglio l'idea del bar.»
«Giorgio,
anche tu: bisogna che guardi avanti. La gente ci ha i milioni, ormai
fa i soldi facile. E la sera li vuole spendere al ristorante, mica in
quelle bettole dove stavamo coi nostri amici.»
«Dico
che eri furbo, se ci restavi anche te.»
«Due
mesi, il tempo di sistemarmi», l'amico contò sul dito indice e il
medio, «poi, mi vedrete parcheggiare al "Teresa" con la
Spider Giulietta.»
«Ché
altrimenti ti vediamo nel cellulare dei questurini.»
Michele
lo abbracciò con uno sbuffo paterno, la pazienza affettuosa che si
deve agli stupidi. Proseguirono la visita ai saloni medievali: che i
pennelli, le regole, le cazzuole da muratore, restauravano alacri in
un locale di lusso.
A
sì e no dieci chilometri di sterpaglie, e canicola, la città si
arrampicava sui maggesi, in collina: a inghiottire le cascine
sforacchiate dalla Guerra; casolari di sfollati, e di intere famiglie
morte, e cedui sradicati da fondamenta di fabbriche. Gli operai che
si accampavano con i panini e le fiasche, lì in cortile sui tronchi
d'albero, su un lenzuolo a quadrettoni, guardavano diffidenti, con
certi grugni di bove e di ciuco, la campagna dei loro padri che ormai
non conoscevano.
Uscirono
dall'abside in uno spiazzo sterrato, già adibito a parcheggio degli
autocarri coi materiali. Giorgio salì in sella alla Lambretta, si
avvoltolò la sciarpa gialla alla gola, si grattò del pizzicore di
un cotone da quattro lire: finché mamma gliele tesseva così, gli
toccava di sopportarle. Spinse sul pedale con lo sguardo al
campanile: quelle tegole romaniche scagacciate dagli uccelli,
sormontate da un antenna, lo lasciarono interdetto. Cristo,
arrugginito, era negletto fra i ciuffi d'erba; con i tondini da
edilizia ritorti e pneumatici dismessi.
«Sei
sicuro che si può fare?»
«Si
deve: sei matto, ch'è un ristorante e non c'è la tele?»
Giorgio
mise in moto:
«Ti
auguro davvero che questa impresa ti vada bene: solo, fossi in te, ci
avrei paura di fare debiti; è un salto senza rete.»
«'Sto
mese ho ventun'anni, devo darmi una mossa. Tu pure...»
«Di',
mi fai la predica?»
«Sei
a spasso tutto il giorno, e lo so che ti rode. Qui, penso, se
ti andasse di aiutarmi, c'è da fare per tutti due.»
«Non
ho i quattrini per diventare tuo socio.»
«T'assumo:
abbiamo fatto le stagioni in hotel da che eravamo due bocia;
sai gestire il personale.»
«Avrai
già da saldare i buffi: come paghi anche me?»
«Ohi,
stordito: lo vedi Mario Riva?»
«Ne
ho vista una puntata ch'ero a casa con mia madre.»
«Duecento
al secondo: è così, con 'sto ritmo, che ormai si fanno i soldi.
Tac, duecento lire», gli brillarono le pupille, «tac-tac:
quattrocento, seicento, ottocento... La faccenda sta a questo modo:
cosa fai, con certe cifre in saccoccia?»
«Fossi
in loro, godrei la vita.»
«Bravo.
E noi guadagneremo sull'indotto.»
«Grazie,
Michele», Giorgio si arrossì; calzò il casco e si infilò le lenti
scure, «ma non è vero che sono a spasso; non te l'ho detto, ma
insomma... sto aspettando una proposta. Sono molto fiducioso.»
«Ehi,
t'ho offeso?»
«Stai
tranquillo, sei un amico. E se le cose mi andranno come spero, che è
probabile, mi vedrai tutti i giorni qui da te con Agnese.»
La
Lambretta accelerò su un sentiero di ghiaino, e gli offuscò di una
cortina di sassolini, di polvere, Michele là impalato che si
sbracciava in un ciao.
«...
duecento al secondo, poveraccio», sputò per terra, lo
compatì, «e il brutto è che ci crede...»
Si
passarono la sigaretta con gli occhi fissi al soffitto bianco,
circondati da ogni lato dai sorrisi di Chuck Berry, Bo Diddley,
Little Richard, Elvis Presley, Claudio Villa e Radio Boys. L'uno
posava il capo sui piedi nudi dell'altra, e Agnese sopportava le sue
piante arrossate che odoravano di partite, spugna lisa e di tacchetti
da calciatore. La sua pelle, al contrario, profumava di borotalco.
Un
alito di autunno si insinuò dalla finestra.
«Leggilo
un'altra volta», Giorgio la supplicò, «Dio, che coglione!»
Lei
sfogliò il "Carlino" fino la pagina di cultura, l'arrotolò
in un manganello di fogli: lo colpì, gli fece male; s'alzò dal
letto e saltellò alla scrivania, per schiacciare il mozzicone nel
posacenere del Campari.
Un
articolo riferiva della polemica in Parlamento sul che costringere
un uomo anziano, un padre di
famiglia, a mettersi carponi ed abbaiare, è cosa che non solo non fa
ridere, ma che suscita un senso di viva indignazione: le
penitenze dei concorrenti in
Duecento al secondo.
«Hanno
sospeso quel gioco a premi di Mario Riva.»
«Ãˆ
perfido, è vigliacco che ridi di Michele: ti rendi conto di cosa ha
perso?»
«Ha
avviato un ristorante: gli andrà bene lo stesso.»
«Non
è una trattoria: sperava che le cose girassero in tutt'altro modo.»
«Ormai
la gente è ricca: lo ha detto la tivù.»
«Non
sfotterlo, ti ho detto: sei meschino.»
«Che
cosa ci posso fare? È un imbecille, è da comica.»
«Ci
ha provato, però, a guardare di là dal naso.»
«Che
fesso.»
«Avevi
detto la stessa cosa di me.»
«Daì,
ché è diverso: tu, innanzi tutto, avresti avuto un'occupazione; ti
avrebbero presa a lavorare nei telequiz... mica che abboccavi che
regalano i milioni.»
«Ma
è finita allo stesso modo.»
E
Agnese aprì l'anta del guardaroba a parete per riflettersi, intera,
nello specchio allo sportello. Si alzò sulle punte: strinse il seno,
le natiche e la vita per misurarsele pressapoco e confrontarle con i
poster, le decine di cartoline e di ritagli dai rotocalchi; si
imbronciò insoddisfatta di va' a capire che chilo in più:
«Che
cosa mi manca a me, rispetto alle vallette di Mike Bongiorno?»
«Per
me sei meglio te, dell'Edy Campagnoli»; Giorgio, voluttuoso, le
baciò le orecchie e il collo. Lei lo spintonò a rovesciarsi sul
letto, lo fulminò con occhi freddi e irritati che gli smorzarono
quell'improvviso appetito.
«Non
mi ci hanno voluta; m'hanno fatto i provini, ma...»
«Oh,
ma è lo stesso che ragionare con Michele!»
«Che
cosa intendi dire?»
«Sei
tu che hai bazzicato quell'ambiente: non t'accorgi che è
tutto un giro, si raccomandano fra loro? È impossibile entrare e
lavorare in quell'ambito; sono favole che se ci arrivi sei famoso fai
soldi facili.»
Agnese
si riaccostò alla finestra, lasciò entrare gli spifferi di
settembre e si accese un'altra Lucky; tirò lunghe boccate.
«E
invece è costruttivo, ed è stare coi piedi a terra, sputare le
sentenze ed arrabbiarsi con tutto e tutti.»
«Che
ne sai se ci ho un progetto?»
«Non
ne dovremmo parlare insieme?»
Si
guardarono lunghi istanti, in silenzio, sul ciglio d'una lite.
Giorgio se ne andò senza ammanco salutarla, e sbatté
intenzionalmente la porta perché andassero in malora i Marlon
Brando, James Dean, le curve della Allasio e gli occhi azzurri di
Virna Lisi.
C'era
un tappo di Tassoni che luccicava sul marciapiede, lo calciò per
tutto il tratto che percorse immusonito: fino un fosso per la posa di
condutture nel cortile transennato di un condominio dell'UNRRA. Due
bambini di tredici anni coi pantaloni al ginocchio, che tiravano le
biglie dentro i tubi arrugginiti, lo guardarono dribblare e
insistettero:
«Tira!»
Giorgio
fece finta di lasciar loro il giocattolo, svicolò per calciare e lo
buttò nella fossa. Si godette le loro facce; voltò l'angolo della
via dove abitava e fischiò sul tintinnio delle palline nei tubi.
Ogni
volta che rientrava dalle inutili passeggiate, accidenti!, al
quartiere s'era aggiunta un'altra casa in costruzione, il catrame e
l'asfalto fresco lungo il vicolo parallelo; un cancello, un portone,
una facciata, che scintillavano di vernice e di un pomolo di ottone.
Gli sembrava che si smaniasse di vivere e strafare.
L'imbrunire era un concerto di cardellini e di tordi, di nonne sui
terrazzi e di friggere di padelle: dentro, però, nelle cucine e le
sale, gli appartamenti si azzurravano di tivù; del buonasera di
Nicoletta Orsomando cui milioni di persone rispondevano a mezza voce.
E
le nuvole e le note di un finale di Rossini.
Giorgio
sbirciò nella cassetta delle lettere, sussultò del lembo giallo in
carta lucida di una di quelle buste che accumulava da mesi.
La
ventesima, almeno.
Si
frugò nei pantaloni: ma 'affanculo la chiave piccola, troppo in
fondo alle tasche; e infilò le dita ansiose nella fessura di zinco:
tirò. Sull'indirizzo dattiloscritto e cancellato di pioggia - il suo
nome e cognome, la strada, il codice di avviamento della piccola
cittadina - lesse Via Teulada, Roma e le tre lettere RAI.
«...
ché stavolta è quella buona», salmodiò ossessivamente, «faccio i
soldi, sono ricco! Mi vedranno tutti quanti in tivù!»
Strappò
un angolo e spiegò la velina: le poche righe notificarono, come il
solito, ci dispiace, che non era stato ammesso fra i
concorrenti di Lascia o Raddoppia.
«Eh,
pazienza», la accartocciò nella giacca, «devo solo spedirne
un'altra, aspettare: è questione di tempo. Mike, li surclasso!
Scucimi i milioni!...»