La
lettura di Anniversario Fatale di Ward Moore, ormai mesi fa, mi ha
portato a riflettere (ci ritorno ogni tanto) sulle grandi opportunità e
difficoltà di un romanzo di fantascienza scritto in prima persona.
Il
lavoro di Moore mi ha molto colpito: l'America Unionista sconfitta raccontata
nei minimi, sofferti dettagli dal giovane Hodge è tanto più credibile quanto il
protagonista appartiene alla microstoria. Non è la prospettiva di un Lincoln
deposto che detta le sue memorie da una Sant'Elena americana, bensì di un
contadino senza mezzi la cui massima aspirazione è quella di studiare.
Soprattutto mi ha lasciato ammirato l'abilità dell'autore nel definirne la
forma mentis: Hodge non divaga sui “se” e sui “ma” che avrebbero potuto (com'è
successo in realtà ) determinare la sua esistenza di cittadino di un Nord unito,
vittorioso, ricco ed industriale; prende atto della propria condizione e la
vive qual è. La conosce qual è e non altrimenti. Moore non cade nella
trappola suggestiva di immaginare e raccontarci il turning point distopico,
perché è Hodge che sta narrando, sono altri i suoi problemi. L'ipotesi
fantastorica sullo scontro di Gettysburg vinta dai Sudisti, persa dai Nordisti,
viene presa in considerazione secondo opportunità . In questo ho trovato Anniversario
Fatale persino superiore al Fatherland di Harris, dove un tour di
Berlino diventa un infodump; o alla Svastica sul Sole, di Dick, dove un
ricordo di Joe Cinnadella, sulla Guerra alternativa in Africa, scade, a tratti,
un po' troppo nello “spiegone”.
Uno dei problemi del raccontare in prima persona, forse il
più difficile da affrontare, e virtualmente impossibile da risolvere, è la
scelta del narratore. Ovvero: se volessi per esempio un marinaio
protagonista, sarei capace di esprimermi come lui? Non solo in termini di gergo
e competenze (quelle, forse, potrei acquisirle quel minimo che è necessario
consultando un prontuario; studiando un manuale di nautica o leggendo qualche
romanzo di mare), quanto, piuttosto, in termini culturali, sintattici e linguistici:
che incidono più di quanto si creda sulla trama e sull'ordine degli eventi.
La mia prosa, il mio modo di esprimermi come autore in
terza persona, è formato dalle letture e dagli ambiti che frequento (con
“letture”, come sempre, intendo anche i film, il teatro, la musica eccetera): posso
cogliere e riportare un certo gergo, imitarne di altri; restituire
atmosfere, caratteri e linguaggi sulle solide fondamenta del cosiddetto
immaginario condiviso. Non è difficile, per un autore professionista, scrivere
un militare, uno studente universitario, un barista, una prostituta, un
manager, un artista, una qualsiasi “categoria” del presente e passato in
maniera plausibile per un pubblico di massa: soprattutto se osservati
dall'alto, e lontano, e le storie che li coinvolgono procedono per tappe. I
“luoghi comuni” (o chiamateli archetipi) lavorano per noi: anzi il lettore è
spesso contrariato se “di solito non è così, che si esprime e/o si comporta un
...”. Ma se cercassi di riportare quelli di un marinaio, al livello più
profondo, autentico ed esteso che è richiesto da un romanzo raccontato “in
soggettiva”, la parola suonerebbe falsa; non potrebbe sostenerne l'intera
architettura.
Il linguaggio determina anche il modo di pensare, definire,
percepire e rapportarsi alle cose; di conseguenza le azioni di un
personaggio. E le azioni sono i ciottoli sulla cima del monte che rovinano a
valle nella frana del plot. Se il profano fa distinzioni (nella sua mente e
comportamento e vocabolario; nelle scelte presso i bivi della trama) solo fra
“barca”, “nave” e poco più, il marinaio sa bene – e si comporta di conseguenza
– che navigare su una “goletta”, “corvetta” o “fregata”; remare su un
“canotto”, in mare può fare un'enorme differenza. Per un broker il gergo della
Borsa determina il lastrico, oppure la fortuna; un tecnico (in qualsiasi
disciplina) è a tal punto abituato ai termini del mestiere che quelli che
riteniamo sinonimi gli appaiono errati, e riferendo delle proprie esperienze (raccontando
di sé, delle proprie vicende) di certo li eviterebbe. Ascoltate un avvocato
argomentare le proprie tesi, e scoprirete che la sintassi, al contrario della
Legge che egli serve, non è uguale per tutti; accennate ad un biologo
alle “emozioni” degli animali e quello vi guarderà sconcertato, convinto che le
bestie non abbiano che “istinti”.
Applicato a un universo fantascientifico o fantasy, che
abbia la pretesa di riuscire credibile, la prima persona è ancora più
difficile. Ai problemi cui sopra si aggiunge, infatti, il collocare il
narratore-protagonista in un mondo (o tempo, o realtà alternativa) che seppure
poco discosto dal nostro di fatto non esiste; cui occorre definire i
dettagli preoccupandosi degli effetti sul carattere del personaggio. E quanto
più sarà intima e vicina la voce narrante al contesto narrato, tanto più questi
dettagli incideranno profondamente.
A un autore di storie di fantascienza potrebbe persino
sembrare paradossale: ma curare questo aspetto di un romanzo “in soggettiva”
significa, a volte, rinunciare a quelle pagine fascinose che si crede erroneamente
che ne siano la forza. La narrativa lo ha scoperto con il trascorrere dei
decenni, ed è un errore che i dilettanti commettono di frequente. Le
descrizioni immaginifiche di Marte dell'ufficiale John Carter di Burroughs, per
esempio, sono meno potenti degli scorci di caverne percepite dai ciechi di Universo
senza luce; perché Galouye ha saputo mostrarci, e farci soprattutto percepire
da talpe, non più in là dei pochi metri dove scorgono le sue talpe.
L'abitudine ad una forma di governo, o convenzione sociale,
presenza o tecnologia sulle azioni ed i pensieri di un personaggio raccontato
in terza persona riescono efficaci in quanto, dall'esterno, l'autore e
il lettore riflettono ad ogni passo sullo stato o condizione del personaggio
medesimo: così ci spaventiamo dell'Inghilterra di Orwell o dei roghi di libri
di Fahrenheit di Bradbury. Nel racconto in prima persona, al contrario,
racconto non solo ciò che conosco (più o meno indirettamente), ma anche
e soprattutto ciò che sono; non vedo, non conosco “da fuori”. E' ciò che
rende Un'arancia a orologeria, di Burgess, l'autentico capolavoro di
fantascienza e di linguaggio che è.
Nel racconto di fantascienza o fantastico, come in parte
nel romanzo storico, e ambientato in contesti cui l'autore non appartiene (è impossibile
che vi appartenga) esiste un impedimento di ordine epistemologico alla piena
condivisione del vissuto dei personaggi; quindi in teoria non è possibile un Io
Narrante. L'eccezionale Brigadiere Gerard di Arthur Conan Doyle è ben
riuscito perché è “sopra le righe”; Doyle - che pure fu soldato nel secolo XIX
- non poteva condividere ed esprimere fino in fondo il sentire e l'esperienza
di un ussaro napoleonico. Posso fingermi la Sentinella di Brown (che non
è in prima persona, ma molto ravvicinata!), ma mi accorgo che quel racconto
ci impressiona da sempre perché il mostro si consuma di un angoscia tutta
umana; non ha quell' “l'intelletto vasto, freddo e ostile” che Wells
attribuisce agli alieni da altri mondi.
L'ideale sarebbe un Io Narrante il più possibile a nostra
immagine e somiglianza: ma non tutti siamo Hassel e McNab, non abbiamo
quell'avvincente bagaglio. Se siamo solamente autoruncoli, forse, è meglio
lasciare perdere... Avete presente quei romanzi sugli scrittori, quei film sul
cinema di moda anni fa? Quell'antipatica sensazione di assistere dal parcheggio
ad un party in terrazza cui non siamo invitati... Se non volete, come
Baudelaire, che il lettore vi sia nemico, suggerisco di non tentare di
raccontarvi su Marte. Soprattutto: quanto è plausibile che potremo
assomigliarci nel 3313 in un'altra galassia?
Affinando questo genere di riflessioni, si dovrebbe
rinunciare a un romanzo di fantascienza scritto interamente in prima persona:
il che sarebbe una sciocchezza accademica, un ottuso dettato da barbogi
dell'ateneo.
Benelli
ed O'Reilly indossarono i caschi, si caricarono i martelli termici in
spalla, si presero a tracolla gli astucci di batterie ed entrarono
nel discensore che affondava nel pozzo. Digitarono 34 e
s'aggrapparono ai corrimano. Il modulo s'avvio con un barrito, uno
strappo, stridette nel castelletto; Benelli imprecò: le scintille
dell'arcata e dell'argano, l'odore di ruggine e di polvere di
metallo, gli crepitarono fra gli stivali e gli invasero i filtri; la
brodaglia sorbita a cena gli salì fino in gola:
«Dioporco»,
O'Reilly si segnò, «un
giorno o l'altro quest'affare si schianterà .»
«L'hanno
detto per una vita tuo bisnonno e tuo nonno.»
«'cazzo
aspettano, a sistemarlo, i lavativi dell'officina?»
«Se
l'è chiesto finché è campato la buonanima di tuo padre.»
«E
tuo nonno e tuo padre!», l'irlandese abbaiò.
«Lascia
perdere, appunto», sbadigliò l'italiano, «non cambia mai un cazzo,
resta tutto com'è.»
L'altro
gli indicò la targhetta di ottone sporco con gli estremi di portata
e di capienza dell'abitacolo:
«Un
chilometro di caduta, novecentosessanta chili di colpo, dodici morti:
magari tu ed io.»
«Non
ne crepano ogni giorno a decine? E tu ti senti vivo, laggiù?»
Si
strinsero nelle spalle, annuirono sconsolati.
O'Reilly
cavò di tasca un involucro di chewing-gum annotato a matita
con una serie di nomi, li lesse e accartocciò il foglietto e lo
pestò dentro una grata del pavimento. Appannò lo scafandro con un
sospiro di irritazione:
«Ce
lo sapevo, che era un turno di merda. Uno non lo conosco, dev'essere
un novellino; gli altri, Wedekin, Makhmalbaf e Akutagawa, sono
stronzi inaffidabili»,
picchiò su una parete.
«Ah.
Quei tre. Che li trovano sempre sbronzi. Toglili la bottiglia.
Prendili a calci in culo.»
«In
tunnel si impasticcano per reggere alla nottata.»
«Si
impasticcano tutti.
T'ho visto, anche a te, con quelle pillole color limone.»
«Cosa
c'entra», arrossì, «il Cialis è per scopare.»
L'ascensore
oscillò di nuovo, gemettero le funi in ferro, il sibilo dei pistoni
echeggiò nell'oscurità . Lui e l'irlandese sbatterono l'osso sacro,
ritornarono ritti in piedi vomitando bestemmie. L'inverter sfrigolò,
ripartirono con uno schianto, trascorsero tre minuti in angoscioso
silenzio.
Poi
sorrisero dell'allegro scampanellio che annunciava il livello zero ed
i numeri negativi; ora l'abitacolo rugliava al meno dodici,
rallentava sensibilmente, scendeva lungo il pozzo con un quieto
barrito. Le lampade della cabina diminuirono di intensità , e
avvolsero il discensore in un chiarore grigiognolo.
«Ãˆ
andata», pensò Benelli, «anche per oggi non ci si schianta.»
Nell'ovale
dello scafandro, a quella triste luminescenza, il volto del collega
gli apparve un'icona funebre:
«E
a te», riprese O'Reilly, «chi è toccato stavolta?»
«Non
ho preso nota. Duarte, mi ha detto, ha lasciato una lista; è appesa
in bacheca all'ingresso dei tunnel.»
O'Reilly
s'aggrottò:
«Non
ti interessa davvero mai
sapere prima con chi lavori? Ti invidio, a me mette l'ansia.»
Lui
gli indicò le quattro cifre e le lettere stampate sulle tute sotto i
logo dell'EsoMining:
«Siamo
un codice alfanumerico, che vuoi me ne freghi?»
Il
termometro segnò trentotto gradi, il modulo si arrestò a
destinazione. Le porte si spalancarono su un atrio sotterraneo
scavato per chilometri nei cristalli dell'ischorlite, puntellato
d'acciaio, rischiarato da alogene di un'asettica luce bianca. L'aria
era insalubre ed afosa, e il suolo e la superficie rocciosa
essudavano una condensa nauseabonda, scarlatta: le gocciole di
quell'umore appiccicarono le loro scarpe, insozzarono le loro tute
appena entrati nella caverna. Un olezzo di sudore penetrò negli
scafandri:
«Ãˆ
peggio ogni volta», l'irlandese inghiottì; guardò schifato certe
vene di minerale, o forse infiltrazioni,
radici, che si intrecciavano scarlatte e lucide nel grigio
nero delle pareti:
«I
geologi sono convinti che non si tratti di perdite, è un icore della
roccia. Non dovrebbe compromettere la tenuta dei tunnel.»
«Hanno
ammesso che non sanno di che si tratti. I botanici non raccapezzano,
teste d'uovo del cazzo. O li pagano cento volte noialtri per non
dirci che cos'è, quella viscida merda.»
Tutt'attorno
si spalancarono altre porte di discensori, e squadre di operai si
raccolsero nell'atrio. Si inoltrarono per gallerie numerate sui
binari di carrelli che scendevano nel buio.
Benelli
sgomitò fra la folla all'ingresso del tunnel contrassegnato dal
venticinque:
«Stanotte
mi aspettano al condotto sessantasei», O'Reilly lo salutò, «ci si
vede domattina a mensa, se entrambi saremo vivi.»
Si
palparono gli attributi e si strinsero all'avambraccio, l'amico
scomparve fra le teste d'amianto. Lui si fece largo fin un pannello
di legno incastonato ad una parete sotto l'imbocco del corridoio: fra
annunci scarabocchiati e sfottò, circolari dirigenziali sbiadite,
locandine accartocciate e ammuffite, post-it intraducibili e olofoto
di pornodive, riconobbe un appunto, più recente degli altri, con una
lista di cognomi in stampatello minuscolo ed il tratto familiare del
responsabile del personale. Benelli intascò:
«Duarte
s'è ricordato, non ci avrei mai scommesso.»
I
vagoni per il trasporto dei minatori, che si alternavano a quarti
d'ora sui binari incrostati, ragliavano al completo nei recessi del
tunnel: le ultime tre squadre, con gli attrezzi a tracolla, ne
attendevano il ritorno per scendere a loro volta. Lui riconobbe le
strisce rosse da capogruppo sull'uomo a capofila dei tre crocchi di
cinque: tre squadre già al completo, non erano i suoi ragazzi.
Attivò
l'amplificatore del casco, cavò di tasca il foglietto dell'argentino
e lesse ad alta voce i cognomi che aveva in sorte:
«Robinson,
Gimenez, Kafele ed Ulaj.»
I
quattro operai, sdraiati su una draisina, abbandonata nell'oscurità ,
fra i piloni del tunnel, si levarono in piedi a obbedirgli storditi:
«GiÃ
stanchi, reclute? Vergognatevi», li scrollò,
«sono il vostro caposquadra, e stanotte vi voglio in forma. DÃ i,
che si incomincia: raccogliete i vostri attrezzi, buttatevi su un
carrello.»
Il
mongolo, l'indio, l'enorme australiano, il nero minuto con il viso
ustionato, trascinarono sui binari i martelli e li gettarono con
fracasso nel vano carico di un veicolo.
Benelli
impallidì del frigolio delle pile che alimentavano gli utensili a
calore: tanto piccole, potenti e pesanti quanto instabili e a rischio
di esplosione:
«Cosa
siete, coglioni?!»
La
squadra abbassò lo sguardo, balbettarono e si azzittirono. Tacitato
il crepitio delle pile, a accertatosi che non fumassero, né
perdessero umori tossici, lui si accomodò su un sedile, schioccò
che lo seguissero, ma gli uomini non si mossero:
«Dite,
voialtri: che cos'è che non va?»
Lo
fissarono inebetiti, arrancarono su un carrello. Benelli raccomandò
che si allacciassero le cinture. Tirò le due leve, il pedale
d'avvio, e il veicolo precipitò nelle tenebre:
«...
e O'Reilly si lamentava d'uno sbarbino e di tre drogati!...»,
smorfiò sconcertato.
Alla
luce delle lampade che pencolavano lungo il tunnel i volti dei
quattro, nel plexiglas dei caschi, gli sembrarono del tutto immobili,
grigi, inespressivi. Non inghiottivano di fastidio per i sobbalzi
sulle rotaie né strizzavano le palpebre ferite dai lampi elettrici.
Non muovevano un muscolo. Si ostinavano, soprattutto, a non
rivolgergli la parola; l'evitare di fraternizzare lo faceva
incazzare:
«Non
ho mai visto le vostre facce», Benelli azzardò, «e mi dispiace, ma
per i nomi non ho memoria: non ho mai coordinato la vostra squadra,
ho ragione? Tranquilli ragazzi, non sono un mastino, e se nessuno
farà cazzate ritorneremo per colazione.»
«Tutto
a posto, non c'è problema», farfugliarono i sottoposti.
«...
e se oggi è la prima volta qui sotto, per voi, festeggeremo con una
birra: non è del tutto male...»
«Ãˆ
l'inferno», pispigliarono.
«...
Sì, ci assomiglia, ci si fa l'abitudine. Da quando vi hanno assunto?
Bel guadagno, v'accorgerete! Un pianeta che porta il nome d'un mostro
egizio; un ippopotamo o coccodrillo o leone che si nutriva dei cuori
morti: così mi hanno detto.»
«Ãˆ
così.»
«Prospettiva
allettante. A me è bastato un anno per convincermi che questo posto
è il lurido buco del culo dell'intero universo, ma lo stesso ho
firmato un'impegnativa fino al duemilacinquecentodiciotto. Mi son
fatto fregare, come i miei genitori: ci credete che stronzo?»
«Che
stronzo», annuirono.
Benelli
si incupì, si accanì sulle leve, stroncò la conversazione
accelerando la corsa. Proseguirono per un quarto d'ora in un ostile
silenzio. Nei recessi della miniera il carrello fermò, raccolsero
l'equipaggiamento e proseguirono a piedi. Si calarono per una rampa
in un dedalo di gallerie, gremite di capisquadra che abbaiavano
ordini e feriti ed intossicati distesi sulle barelle,
ausiliari-robot; centinaia di minatori ingobbiti dalla fatica nel
fischio doloroso degli attrezzi da scavo, nel grido lancinante dei
carrelli sulle rotaie e nel boato dell'ischorlite sbriciolata dagli
esplosivi. Il vapore dei martelli termici saturava le grotte, e gli
uomini sfocavano fra le nubi velenose; vagolavano come larve nella
polvere e nel fumo e morivano di silicosi di tossito in tossito. Il
barbaglio dei grumi di calamina e pirite, di blenda ed allume,
lignite e galena, rischiarava al raggio freddo delle lampade la
caligine cenerognola, tossica, densa.
Il
suolo era un pasticcio di ciottoli, di blister di pastiglie e di
involucri di snack, di limo scivoloso, di polvere di pietra; l'umore
appiccicoso insozzava ogni cosa:
«In
fila dietro a me per uno e non perdetemi di vista mai;
aggrappatevi allo zaino del compagno che vi precede: se il gruppo si
scombina», Benelli raccomandò, «c'è una multa che mica cazzi, e
la infliggono a tutti e cinque. Non voglio pararvi il culo con i miei
soldi.»
Gli
uomini gli si accodarono, martelli termici in spalla; per niente
impacciati dagli attrezzi e gli scafandri e affatto storditi dal
caos nelle caverne. Lo seguirono senza esitare nel profondo dei
pozzi. Lui si ricredette:
«Agili,
pratici: quasi meglio di me», constatarlo non gli dispiacque, si
sentì rassicurato.
I
colleghi li indirizzarono ad un angusto budello: rotoli di cavi
elettrici, lampade e tralicci riposavano negli imballaggi fra
accumuli di puntelli, un'idrovora, un compressore; l'antro era buio.
C'era odore di cordite e di zolfo. L'icore stillava dalle radici
rossastre che brillavano viscide rischiarate dai loro fari:
«C'è
tutto da fare, la grotta è recente: installare le lampade e
puntellare la volta, asciugare quant'è possibile il suolo e
sgombrare la galleria dai residui di minerale. E quindi darci dentro
con i martelli», spiegarono i minatori già all'opera; augurarono la
buona notte e scomparvero nei corridoi.
Lui
raccolse un levachiodi dal suolo, lo scrollò dall'umore rosso ed
appiccicoso e attaccò gli imballaggi ed i fasci di puntelli:
«D'accordo,
ragazzi: ci hanno detto che cosa fare.»
Attoniti,
lenti, infaticabili e zitti, Robinson, Gimenez, Kafele ed Ulaj
si misero al lavoro nelle tenebre del cunicolo. Benelli, interdetto,
bussò sugli scafandri:
«...
ma voialtri non le accendete, le lampadine dei caschi? Come fate a
vedere al buio?...»
Girarono
gli interruttori con un gesto infastidito. E al lampo improvviso non
socchiusero gli occhi.
La
sirena annunciò la mezzanotte, uomini e macchinari tacquero
all'improvviso. Le voci dei capisquadra echeggiarono nei tunnel:
«C'è
il rancio, ragazzi! Mezz'ora di pausa!»; il tinnio delle ciotole,
dei boccali in metallo, scrosciò dentro i pozzi con gli ansimi degli
esausti. Gli operai si stravaccarono sui ponteggi e le casse, si
accamparono per squadre nei container svuotati; si sdraiarono a
terra, sui sedili dei carrelli, sotto i fasci di sostegni e le
arcate traforate. Si tolsero gli scafandri, tossirono ed
espettorarono; si sciacquarono il viso dal sudore e la polvere,
svuotarono i polmoni dai residui di minerale.
Benelli
si accucciò con i suoi uomini in un tratto di cunicolo giÃ
puntellato ed illuminato, si appoggiò contro una trave da lui
medesimo confitta a terra, sotto il cerchio di una lampada che aveva
appesa ed accesa lui: dei pali e dei cavi elettrici installati dagli
storditi non si fidava nemmanco un po', con ci avrebbe pranzato
sotto. Ammucchiò fra sé e Gimenez i martelli e gli zaini; si scalzò
degli stivali, del casco, e li appese ad una vite conficcata nei
tralicci. Si scostò di mezzo metro da Kafele e da Robinson.
Il
mongolo gli si sedette di fronte, e lui si rassegnò, ne sostenne lo
sguardo fisso, il volto inespressivo né
madido né affaticato.
Quegli
ebeti non gli piacevano dal principio, ma dopo tre ore di lavoro in
silenzio, in cui non avevano mai
smesso di sgobbare, adesso era certo che lo facessero
accapponare, e non voleva restare loro vicino né mai più coordinare
la loro squadra. Anzi il mattino dopo avrebbe detto a Duarte che
c'era in quei quattro alcunché di sbagliato: strafatti,
probabilmente. Di una droga davvero forte.
I
robot erogatori di zuppa affondarono con i cingoli nella malta dei
cunicoli, servirono ai minatori le bibite e la minestra. Il brodo di
vitamine, gli integratori salini, le misure d'aceto, di olio, gli
alcolici, gorgogliarono nelle scodelle dalle cannule arrugginite,
sugli addome-serbatoio degli automi vermiformi.
L'icore
carminio delle vene o radici stillava nei loro pasti, vi aggiungeva
del sale:
«Che
schifo, non ci si salva», Benelli sputò; raccolse dalla zuppa
quelle gocciole scarlatte, le scrollò dal cucchiaio. Vuotò dal
bicchiere qualche sorso di Gatorade, quel liquido ripugnante si
sciolse nella spuma. Mescolò nella minestra l'infinito pulviscolo,
sopportò come il solito il fastidio dell'ischorlite. Le particole
dei cristalli gli pizzicarono sulla lingua, gli stridettero fra i
denti, inghiottì.
Robinson,
Gimenez, Kafele ed Ulaj posarono le gamelle e non toccarono le
bevande: in quell'inferno a quaranta gradi, lui rabbrividì, non
avevano sete. Piuttosto si ingozzarono di quello schifo di brodo
senza usare le posate, succhiarono il rosso. Benelli li
insultò, li calciò negli stinchi:
«Il
cucchiaio, maiali! Mangiate da umani!»
All'indio
cadde il rancio di mano, schizzò sulla parete e luccicò sui
cristalli.
L'uomo
leccò la roccia con un gemito disperato.
L'orologio
segnò le cinque, trillarono i campanelli, le macchine si
arrestarono, i robot si irrigidirono. Gli uomini si abbandonarono,
spezzati dalla fatica, sospirarono di sollievo o ruggirono un urrah.
La voce meccanica, poliglotta all'altoparlante annunciò la fine
turno e la pausa di un'ora. Le squadre raccolsero i martelli e gli
zaini, risalirono i tunnel, si accodarono ai capi sulle porte degli
ascensori:
«Ci
si vede, ragazzi: un amico mi aspetta», Benelli se ne andò, gli
uomini annuirono, accennarono un saluto con il capo ciondoloni:
subito travolti, spintonati dai minatori che bestemmiavano e
litigavano per entrare nei moduli. Lui pregò in cuor suo di non
essere esaudito; non ci fosse un'altra occasione di lavorare con
quegli uomini. Anzi: se anche non lo avessero ascoltato, burocrati
del cazzo, dirigenti di merda, avrebbe inoltrato una richiesta
formale di non avere di che spartire con quei quattro schizzati.
Di
più: licenziarli.
Salì
il pozzo soffocato, con un vuoto alle viscere, strangolato
dall'angoscia e con i brividi di sudore. Si sfregò la fronte e il
collo, gli scappava da pisciare, gli tremavano le ginocchia se
possibile più del solito. Non erano la fatica, l'ascensore e l'aria
fetida; tremò dei compari:
«...
e se fossero infetti, per comportarsi in quel modo; se mi avessero
contagiato?...»
Raggiunto
il pianterreno il modulo si fermò. L'aurora color ocra che penetrava
dai lucernari lo accecò sulle scale dagli ascensori agli spogliatoi.
L'odore di naftalina e disinfettante dagli armadietti, di sapone e
dopobarba dalle cellule-toilette, si mescolò con il caffelatte e le
ceneri dei toast.
Duarte
lo aggredì sulla soglia:
«Dove
cazzo ti sei imboscato, stanotte, coglione? La tua squadra non t'ha
trovato, ha dovuto saltare il turno. Vi accollate una multa, e coi
ragazzi ci parli tu.»
Lui
guardò stupito i quattro uomini imbronciati, con gli occhi
cerchiati, seduti e conserti, con le tute ed i caschi intonsi ed i
trapani lucidi: due li conosceva, Persson e Zhou.
Cavò
di tasca il biglietto gualcito tolto la sera prima dalla bacheca nel
tunnel, lo affisse su un'anta a cazzotti e saliva:
«Ho
seguito le tue istruzioni, vuoi prendermi per il culo? Ti avevo detto
di lasciarmi i nomi dei quattro che mi toccavano, ho lavorato con
quelli; suggerisco un chek-up: sono fatti; malati. Guai
a te, se mi assegni ancora a loro.»
Duarte
incupì:
«Benelli, che stronzate ti inventi? Lo sai che mi dimentico, di affidarvi le squadre: arrangiatevi per conto vostro, quando siete là sotto. Quella è la lista degli incidenti di ieri notte: un negro ustionato, un giallo intossicato; l'indio e l'australiano seppelliti da un crollo. Stecchiti. Sono ancora laggiù, su un carrello dei becchini; sono scesi a recuperarli quando tu sei salito.»
«Benelli, che stronzate ti inventi? Lo sai che mi dimentico, di affidarvi le squadre: arrangiatevi per conto vostro, quando siete là sotto. Quella è la lista degli incidenti di ieri notte: un negro ustionato, un giallo intossicato; l'indio e l'australiano seppelliti da un crollo. Stecchiti. Sono ancora laggiù, su un carrello dei becchini; sono scesi a recuperarli quando tu sei salito.»
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Mini-bio
- Alessandro Forlani
- sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.
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