Esce oggi in e.book e cartaceo l'antologia 50 Sfumature di Sci-Fi, cui partecipo con il racconto Cambi d'Abito e che potete acquistare sul sito de La Mela Avvelenata. Riporto la prefazione al volume di Giuseppe Lippi (direttore di "Urania"):
Il
racconto è anche un genere
Il XXI secolo è cominciato con un tragico
racconto in presa diretta, ma pur sempre un racconto. L’abbattimento delle due Torri
a New York è un ciclo epico in cui confluiscono centinaia, migliaia di storie
personali e una serie di vicende maggiori che si intrecciano con la storia
dell’umanità , persino con i suoi miti. Uno scenario omerico, se si vuole;
oppure fantascientifico. Questa risonanza è stata possibile perché l’attentato
al World Trade Center è avvenuto nel cuore della più grande rete mediatica del
mondo e nel paese che della comunicazione e dell’immagine ha fatto l’emblema
della propria civiltà . Oggi che questa è diventata “la” civiltà planetaria, si producono
racconti a getto continuo con gli stessi strumenti che servono a registrare il
reale. Chiunque usi internet sa che l’elemento narrativo entra prepotentemente nel
discorso, spesso in forma visuale, come una serie d’ideogrammi. Che siano
pubblicità palesi/occulte o semplici finestre che si aprono per sostanziare un
contenuto, quelle visioni coatte e a volte minimali stilizzano la nostra vita in
una sorta di affresco pompeiano.
In questa situazione, un genere come
la fantascienza non può sottrarsi al compito di dare un contributo originale,
né evitare di assumersi, volente o nolente, la paternità degli scenari più
traumatici. Tuttavia, il romanzo di science fiction tende ad espandersi in una
mole sempre meno contenibile, tanto da doversi articolare frequentemente in
cicli o serie il cui apporto visionario è diluito. È al racconto che spetta il compito
di fare da battistrada, di aprire nuovi squarci nella realtà e ripresentarsi alla
retina dello spettatore con l’immancabile persistenza di un pop-up. Ed è interessante
notare che, pur essendoci ormai poche o pochissime riviste di fantascienza, il
racconto continui ad essere un genere fiorente. Il fatto si spiega con il
proliferare dei siti internet, delle edizioni direttamente in e-book o di
quelle cartacee che ormai seguono a ruota la versione digitale. In questo modo
il racconto conserva una propria autonomia ed efficacia, com’è tradizione del
genere. Nell’antologia che avete per le mani, messa insieme dalla specialista
(e scrittrice in prima persona) Alexia Bianchini, di tradizione in verità ce
n’è poca. Non mancano alcuni luoghi classici né quelli comuni, ma l’occhio è
puntato altrove, alla ricerca di una novità che non sia solo interna a una
forma. Ecco perché, dando spazio agli autori italiani più radicali e a una
manciata di giovani che faranno strada, l’antologia vuole indicare nuovi
sbocchi e persino nuove possibili utopie, invece di cavalcare strade maestre che
si trovino in mediocre quando non in cattivo stato di manutenzione.
Il genere racconto si presta
benissimo a un’esigenza visionaria. In pochi fogli o poche schermate, bisogna
dare uno sguardo sopra un mondo autonomo, ricreato virtualmente ma dietro le
quinte: la brevità della narrazione non consente né descrizioni troppo lunghe
né trame complicate. Le carte che bisogna giocare sono altre: drammaticità , montaggio,
interesse dei personaggi. E naturalmente ci vuole un’idea, una soluzione
narrativa che soddisfi lo scrittore, perché giustifica il suo sforzo, e il
lettore, perché lo appaga e gli dà l’impressione di essersi avvicinato un poco
di più al novum, la novità intrinseca
che sta al centro del genere. Facciamo alcuni esempi tratti dal libro: a
Trieste c’è una colorita espressione, Cossa
nasci?, che significa “che succede?” È quello che si chiede Maico Morellini
in “Adatto”, una storia dove il rapporto tra il soggetto e il mondo è rimesso
coraggiosamente in discussione fin dal primo istante di vita. Oppure, prendete la
traduzione letterale di “Tempus fugit” nel racconto omonimo di Francesco
Troccoli: l’idea di un’accelerazione inattesa e improvvisa del flusso temporale
non solo non è peregrina, ma è perfettamente al passo con gli ultimi cronoprogressi.
In “Happy Days” di Raffaele Serafini il ciclo di riposo giorno-notte è
invertito perché di notte si può agire, mentre di giorno, in un mondo devastato
dall’olocausto, bisogna “ricaricarsi” alla debole luce del sole.
L’essere umano che dura quanto la batteria
di un cellulare, spaesato o drogato che esce da alcuni di questi racconti non è
un figlio di Apollo ma di Ecate. Deve fare i conti con il tempo esaurito di Federica
Gnomo (“Infinity”) e con la realtà dei suoi dei (“Secondo avvento”, il «mitologico»
di Luigi Milani). Qualche volta è costretto ad ascoltare le agghiaccianti
sinfonie à la Erich Zann che si
diffondono nei racconti connettivisti di Sandro Battisti (“Il sentiero della
spirale”) o nei sotterranei delle città future esplorati da Francesco Verso
(“Flush”), dove la musica è delirio.
Soluzioni che dimostrano come in
pieno XXI secolo la fantascienza possa ritrovare la propria inventiva, tornare ad
essere coscienza latente delle cose e descrivere il complesso mondo tecnologico
in cui viviamo, penetrandone l’illusorietà . I figli di Ecate che popolano queste
pagine non sono disposti ad arrendersi alla notte né alla frammentazione della
vita nel XXI secolo. Pur senza fare proclami o fondare improbabili movimenti di
resistenza antialiena («siam tutti
terrestri, abbasso gli arturiani!»), vogliono intervenire sugli scenari del
nuovo millennio. Scoprire il mito dietro il racconto mediatico; diventare parte
del coro anziché lasciare la musica ad
altri. Ecco perché pochi di loro parlano di resa, sconfitta totale e dolore assoluto.
Il nero, il patetico, il dettaglio psicologico e amaro possono esserci benissimo
nei nostri autori: ma l’obbiettivo è non fermarsi a tale soglia. L’obbiettivo è
entrare nella nuvola nera e osservarla, in modo da capire quale tossico sia
entrato nelle nostre vene e da quale chimica possiamo essere redenti o dannati.
L’approccio scientifico al dolore, faceva
notare anni fa Riccardo Valla, è una conquista letteraria dell’Ottocento: in Delitto e castigo e Memorie dal sottosuolo Dostoevskij fa della psicologia clinica; a
sua volta Dostoevskij aveva letto Poe con i suoi casi abnormi riferiti alla
maniera di testimonianze allucinanti. Maupassant ha descritto il trapasso dalla
sanità alla follia nell’”Horla”, mentre Gogol è arrivato al culmine
dell’osservazione spassionata nel “Diario di un pazzo”, in cui un uomo traccia
il progresso in presa diretta della propria follia. Alcuni racconti di
fantascienza progressista fanno pensare a quei grandi esperimenti: osservano il
male con la curiosità di un botanico alle prese con una nuova specie, di un
astronomo che scopra una nuova stella; e se possono farlo con fierezza e
qualche volta persino con convinzione, è perché di mezzo c’è stata una ventata
di esistenzialismo che ha avuto il merito di divulgare la lezione
psicologico-scientifica dei maestri (e il demerito, a volte, di sottrarre alla loro
visione una grandezza artistica capace far presagire un riscatto, il
ristabilimento dell’equilibrio).
Nei racconti degli scrittori
italiani di cyberpunk e connettivismo, la lezione non è stata dimenticata.
Proprio perché hanno poche pagine a disposizione, poche vite da spendere, poche
carriere da rischiare, autrici e autori osano, senza temere di guardare in
faccia il male, il proprio e quello universale, mettendolo sul piatto della
bilancia insieme agli altri ingredienti della visione. Se riusciranno a
comprenderne le famose Tre Leggi, non si sa; se potranno accontentarsi di
chiamarlo Alien, Droga o Dystopia non è certo, ma finché non se lo
nasconderanno, e fino a quando saranno disposti a percorrerne le lunghe
gallerie, vorrà dire che non si saranno arresi.