Gli scrittori
regalano racconti. Ed ecco - come ormai da nove anni! - il mio tradizionale
racconto di Natale. Di anno in anno dedico queste storie a fatti, personaggi ed
esperienze che ho vissuto o di cui si è parlato nei precedenti undici mesi. In
questo strano 2020 la nostra vita sarebbe stata (anche) peggiore, credo, senza
il contributo dei corrieri: il cui lavoro ci ha permesso di trascorrere la
quarantena confortati da quelle scatole di miniat... ehm, libri, cibi o dvd ai
quali le circostanze sembrava ci costringessero a rinunciare. Buona lettura e
buon Natale, cari Lettori.
Il Melchio era
distrutto, gli dolevano le gambe. E boccheggiava sotto la cazzo di mascherina e
sopportava la pioggia stretta che crivellava l’impermeabile - l’hai comprato
dai cinesi: cosa cazzo ti aspettavi? I lampioni. I fari d’auto. I semafori.
Le luci. Le gocce d’acqua ed il fiato caldo che gli appannavano gli occhiali
spessi. Ho anche l’alito cattivo. Era madido, accaldato. Ma dicembre lo
mordeva a quattro gradi sottozero, gli bruciavano le dita sotto i guanti
sbrindellati. Gli bruciavano le orecchie, le narici, aveva il moccio. Aveva un
cazzo di mal di gola.
Ma è lavoro.
Pedalava.
«Dà i, ché è l’ultima
consegna», ripeteva, «poi, a casa. Poi la doccia. Poi birrino sul divano.»
Lo scatolone di diosacosa
ballonzolava nel portapacchi: logo verde, involto giallo e l’indirizzo
incollato sopra. Aveva preso un bel po’ di buche, aveva preso un bel po’ di
botte. Non gli sembrava si fosse rotto: nessun croc e nessun crac. Quei
rumorini da bestemmiare. Con il cliente che ti urla dietro. E che protesta con
l’agenzia ché lo dovrebbero rimborsare. E ti dovrebbero licenziare:
«Perché cazzo, è il
mio pacchetto!»
Perché è vero - come
no! - che ne usciremo migliori tutti; perché è vero - come no! - che a Natale
si è più buoni.
"Via Capanna 25",
c’era scritto: bella striscia. Altri sei-sette chilometri di buio e gelo da
attraversare. Via Capanna: brutta zona; casermoni deprimenti. Ti ci rapinano.
Ti ci accoltellano. Ti ci fottono la bici. Come torno, poi? Come lavoro? Nigeriani
e gente sfatta inscatolata in cemento grigio.
Ma che ordina da
Glovo. Poi capisci, com’è il mondo?
C’era scritto "Myrhiam T, H" e qualcos’altro: nome e cognome da
tizia araba, magrebina o quelle parti.
Io consegno. Poi riparto.
È un lavoro, Melchio,
dà i.
Imboccò la
interquartieri che sprofondava in periferia, tra vecchie fabbriche e magazzini
che diradavano in campi brulli. Macchie folte di gramigna che infestavano
l’asfalto, guard-rail ritorti, graffiti, tag e reti lacere attorno al nulla. Il catrame
scintillava dei lampioni radi e fiochi che scomparivano alle sue spalle nello
scroscio nero e freddo; pedalare, pedalare, proseguì in un niente buio.
Che sperò fosse la
strada, che intuì fosse un incrocio.
Il ruggito di un
motore echeggiò sotto la pioggia.
Gli sembrò fosse
lontano. Gli sembrò fosse sicuro.
Traversò senza
guardare e lo stordirono quegli abbaglianti, il clacson, la frenata. Scivolò
sull’acqua e il fango, si incastrò sotto la bici. Aprì gli occhi a un
parabrezza. Alle ruote. A un radiatore. Al muso bianco Mercedes-Benz di un
furgone SDA.
Il conducente
saltò urlando fuori dall’abitacolo. Livido. Tremava. Madovecazzomacosacazzomacomecazzoperlamadonna?!,
singhiozzi e porchiddii.
Il Melchio si alzò
in piedi.
Piano.
Ma si alzò.
«… sto bene. È
tutto a posto…»
Anche il suo pacco
sembrava integro.
La bicicletta
purtroppo no: una ruota era contorta.
«… ma sei
ferito?!», insisteva l’altro, «ma la testa?! Ma ci vedi?!...»
«Tutto a posto.
Tutto a posto.»
«Ma la testa?! Ma
ci senti?!»
«Tutto a posto.
Tutto a posto.»
«Ma non ti viene
da vomitare, no?!»
«Tutto a posto.»
«Siedi. Vieni. Un
goccio d’acqua: ti farà bene.»
Gli offrì da bere,
lui declinò. Alla bottiglia non è più il caso…
«Il mio pacco…»
«Sì, il tuo pacco.
Lo carichiamo sul mio furgone, nessun problema. Così va bene?»
Si ripararono nel
Mercedes. Accostarono, «ohgggesù!»; e restarono un minuto in allibito silenzio.
Il Melchio - un po’ offuscato, frastornato, a dire il vero - frugò con gli
occhi stanchi tra le cose del corriere. Quel tesserino GASPARRI R. appuntato
alla camicia; la fototessera scoglionata, i cedolini appallottolati, l’iPhone
acceso e connesso a Google Map e un piccolo cammello di peluche che pencolava
dallo specchietto retrovisore.
«Pensa tu! Siamo
colleghi», spezzò il gelo Gasparri-erre: accennò ai colori Glovo sul suo pacco
e la sua felpa.
Il Melchio rise:
«Con questo tempo,
di questi tempi; stasera… chi trovi in giro?»
«Noi due coglioni.
E in bici è dura eh?»
«Parecchio dura.
Ci danno quella.»
«Per risparmiare?»
«Perché fa figo.
Perché fa green.»
«Dove andavi?»
«Via Capanna.»
«Ti ci porto»,
disse l’altro, «vado anch’io da quelle parti.»
Mise in moto. Ripartì.
Gli mostrò i suoi documenti: SPEDIZIONE tot-tot-tot DESTINATARIO qualcosa- Myrhiam. Quella lì; la stessa Myrhiam.
«Vaˈ che roba!»,
Il Melchio si stupì.
«La vuoi chiamare,
la polizia, a proposito del?...»
«La vuoi chiamare,
la polizia?», lui rispose.
Gasparri-erre
ammiccò «ma vaˈ: se tu stai bene…»
«Per me, sto
bene.»
Glielo chiese
un’altra volta. Poi ancora, poi ancora. Doveva essere ormai la decima, ma
s’era preso una bella strizza, capì Il Melchio, pure io!; doveva
ammettere che le ginocchia non gli smettevano di tremare.
«Son solo beghe.»
«Ce n’è
abbastanza.»
«… e mi
licenziano.»
«Perché, a me no?»
«Torni a casa,
dopo questa?»
«Sì, ho finito.
Torno a casa.»
«DÃ i, allora.»
Accelerarono nella
pioggia.
Una insegna
FARMACIA brillò fioca innanzi a loro; la croce verde e il datario rosso che
indicava 24. Poco oltre intravidero il cerchio arancio di fari che circondava
le palazzine di quel quartiere di emarginati, di quel grappolo di vite nel
deserto della notte. Sopra a loro, tra le nubi, rombò il motore di un
aeroplano: fiammeggiò di luci verdi sulle ali e sulla coda; la scia azzurra
scintillò tra quei vapori tenebrosi.
Li affiancò un ragazzo
nero su uno scooter scalcinato, gli pesava sulle spalle un grosso zaino di Just
Eat.
Lo superarono.
Rallentarono. Si guardarono negli occhi. Rabbrividirono nei vestiti ancora
fradici d’acquazzone.
Accostarono,
fermarono. Gasparri-erre si sporse dal finestrino; Il Melchio corse fuori, aprì
il vano, si sbracciò:
«Ferma! Ferma!
Salta dentro!»
Il ragazzo
inchiodò sotto la pioggia, il piede sul pedale e pronto a dare gas. Diffidente.
Spaventato. Gasparri-erre si sporse ancora. Batté forte a mano aperta sulla
fiancata celeste e bianca; sulla scritta SDA:
«Anche noi siamo
corrieri! Dove vai?!»
Il ragazzo fece un
cenno in direzione dei palazzoni.
«Anche noi da
quelle parti», disse Il Melchio, «vieni dà i. Non ci arrivi in motorino, con
questo tempo di merda. Mi capisci?!»
«Vaffanculo!»,
sputò l’altro: annuì, smontò di sella, spinse lo scooter nel vano aperto e si
strinse tra i pianali; «Bialdaasir», si presentò.
«Sono Il Melchio»,
lui sorrise. Notò la busta dei documenti sul bagaglio arcobaleno:
via Capanna
Myrhiam T
Non è possibile. Restò basito.
«Tutto a posto? Si
riparte?», domandò Gasparri-erre.
Lui e Bialdaasir
serrarono le portiere, bussò sull’alluminio tra il vano e l’abitacolo:
«Ci siamo.»
Ripartirono.
Raggiunsero il
quartiere. Gasparri-erre si
inoltrò lento, obbediente a Google Map, per le strade silenziose tra edifici
tutti uguali, tra cortili di cemento tutti vuoti e silenziosi. Tra altalene
ischeletrite nel chiarore dei lampioni, le panchine sgretolate e i resti arsi
dei cassonetti. Sopra a loro si estendeva un cielo triste di calcestruzzo
costellato di finestre di una fioca luce azzurra, il brillio delle TV su una
immensa solitudine.
… tra cento metri
svoltare a destra…
«Questa Myrhiam spende soldi», scherzò Il Melchio: era turbato;
mostrò a Bialdaasir il suo cartone e il pacco SDA.
«Non ha soldi», il
ragazzo scrollò le spalle.
«La conosci?»
«Da mangiare. Dei
vestiti. Sono roba che le mandano gente buona. Lei lavora per famiglie, per
parrocchia qualche volta: bada a anziani, fa pulizie, ma non ha un lavoro vero.»
«Come noi.»
Risero tristi.
Ancora fradici e infreddoliti.
«Con bambino è
difficile. È sola. Ha… diciott’anni, lei dice. Ma molti meno, secondo me. Io
penso quattordici.»
«Ha un figlio?»
«E non c’è il
padre.»
«L’ha
abbandonata?»
«Inshallah!», sospirò
Bialdaasir, «ma lei è brava. Ma lei è brava.»
«Ci siamo, raga»,
Gasparri-erre annunciò, «via Capanna venticinque»: fermò il furgone, aprì loro
la portiera e si affrettarono sotto un portico con i pacchi sulle spalle.
«Quale interno?»,
chiese lui.
«Cazzo, questo è
un po’ un problema…»: un centinaio di campanelli su una decina di pulsantiere;
le targhette illeggibili, i portoni di vetro. Il buio dietro il vetro e nessuno
sotto il portico. L’alone polveroso di lampade arancioni.
E il freddo,
Cristo, il freddo!; il Melchio batté i denti: sarà anche meno di quattro
gradi; gli trafiggeva la carne e l’ossa, gli torceva le budella e mi
scappa da pisciare! Sperò ˈsta Myrhiam ci avesse un bagno, non gli negasse
di approfittarne.
«Sai qual è?»: scrollò
il ragazzo.
«Ãˆ tutto uguale.
Non mi ricordo.»
Un fruscio
li spaventò.
Si voltarono.
«… chiediamo…»,
inghiottirono stupiti dal tizio enorme di fronte a loro.
Doveva essere uno
slavo, o crucco, alto almeno uno e novanta; con occhi azzurri terrificanti e i
capelli paglierini. La mascherina la aveva a casa, se la aveva, questo mostro.
Un grembiule celestino sulla piazza del torace. Era intento a
spazzare il porticato con una scopa da Nonna Papera di saggina e piume nere.
A quell’ora.
E con quel clima.
Molto dopo il
coprifuoco.
Ma Il Melchio rise
ad immaginare una pattuglia municipale che fermava ˈsto titano per la multa e
un predicozzo.
Gasparri-erre
gemette «scusi… Lei conosce Myrhiam The…»
Il bestione lo
azzittì con un cenno ed un grugnito, indicò loro la porta in fondo, gli spazzò
i piedi:
«Filiamo, raga»;
pacchi in spalla e culo stretto suonarono al campanello, da dentro udirono un
vagito.
Aprì loro una
ragazza che in effetti, pensò Il Melchio, non poteva avere più di quindici
anni. Un telo azzurro annodato in testa e il bambino tra le braccia. Gli occhi
neri, il viso bruno e il perdono nello sguardo. Non era bella, ma chi lo è.
Nelle pupille le scintillava un’intensa felicità , contenta di quel niente che
aveva nella stanza. L’appartamento era freddo e spoglio: un tappeto, una
stufetta; una cassetta di cibi in scatola e una cesta di vestiti. Una matita sui
fogli sparsi per un diploma di scuola media; due peluche su una coperta: una
mucca e un somarello. Il bambino le arruffava i ricci neri sulle orecchie.
Non c’era nulla,
ma aveva tutto.
Lui, Bialdaasir e
Gasparri-erre si guardarono ammutoliti con le facce da cretini. Con le lacrime
agli occhi; vaˈ a capire perché.
«Buon Natale»,
disse Myrhiam.
Come un’arpa nella
pioggia.