Arabrab era solo un'adolescente quando fu prescelta per diventare un'assassina al servizio del Dio dei Morti, Anubi: una macchina da guerra immortale fanaticamente devota alla causa dell'Egitto dei Faraoni.
Lo scenario è un Mediterraneo temprato nella tarda Età del Bronzo: un mondo tanto esotico quanto decadente, popolato da civiltà sanguinarie e mostri lovecraftiani.
«Ci affidiamo alla politica, ma affondiamo nelle tenebre: viviamo un'epoca di arti magiche e abominevole stregoneria. Nessuno si oppone al male. Dovrai combattere l'oscurità . Non ti dissi che le mie trame non guardano a questa terra, ma che servo il mio paese? Sarai la spada dei nostri dei, la mia nera giustizia»
L'immaginazione del mainstream è così povera di vedute, così mentalmente ristretta.
Si consideri il nuovo Assassin's Creed Origins, ambientato in Egitto. Dalle recensioni dei videogiocatori, il nuovo capitolo della saga è una valida aggiunta, che ha tratto proficuo insegnamento dagli errori passati. Non l'ho giocato, non posso giudicare: sembra tuttavia interessante.
Eppure... quante occasioni sprecate.
Il protagonista è l'ennesimo banale assassino e la mappa, così come la vasta gamma di quest e sub quest si limita a una rilettura superficiale: contemporaneamente si evita di approfondire il contenuto storico dell'ambientazione e si evita di sfruttare l'immenso pantheon religioso egizio.
Nessun elemento fantasy in senso stretto, ma nel contempo neppure un approfondimento storico degno di questo nome. L'effetto complessivo, caratteristico della serie, è di quel genere di ricostruzione storica propria di un documentario del National Geographic, di un canale di Rai Storia, di Focus e delle riviste patinate dal dentista.
Ovviamente, si sa: è quello che desidera un pubblico mainstream. Divulgazione di bassa lega, spazzatura diluita fino a renderla insapore. I videogiochi, in tal senso, mantengono un livello di approfondimento migliore di tanta produzione televisiva. Meglio giocare a Total War che sottoporsi a lobotomia frontale con l'ennesimo catalogo di banalità e filmati stilizzati.
E tuttavia... quale spreco, quale perdita.
Quante opportunità di storie e gameplay accantonate nel rifiuto di studiare a fondo la storia o dall'altro, di studiare a fondo la mitologia e la letteratura classica. I Youtuber e gli auto-definiti storici che si definiscono “esperti” perchè hanno giocato a Total War e letto qualche voce di Wikipedia non si rendono ad esempio conto di quanto siano “prigionieri” dell'impostazione videoludica di battaglie e conquiste. Ad esempio, sono convinto che fino all'età moderna (1500) o addirittura fino alle soglie della Rivoluzione Industriale, il controllo delle vie fluviali risultasse di gran lunga più importante di qualsiasi possedimento terriero. Se consideriamo fino all'avvento delle strade ferrate e delle ferrovie i fiumi come la più veloce via di comunicazione, ci si rende conto di quanto fossero snodi strategici fondamentali. In nessun videogioco e se per questo in nessuna trasmissione, documentario o testo divulgativo questo genere di osservazioni gioca alcun ruolo.
Al confronto con Assassin's Creed, Arabrab di Anubi è un'oasi nel deserto della banalità .
La protagonista è un'assassina, ma è devota ad Anubi: è una sorta di incrocio tra un sicario, un cacciatore di tesori, un guardiano del tempio e un cacciatore di mostri. Ma vi sono anche elementi tradizionali dell'eroe che si limita a girovagare a casaccio, uccidendo il drago e salvando donne indifese. E vi sono elementi “magici”: l'uso dei salmi, l'immortalità nel corpo di una fanciulla adolescente, la forza prodigiosa. Arabrab è un personaggio originale, una protagonista convincente: sebbene non sia un personaggio introspettivo, rimane un'eroina costruita a tutto tondo.
Il modo migliore per descriverla è forse come l'incrocio tra una monaca guerriera e un cacciatore di mostri (Geralt di Sapkowski docet...).
Da un lato, Arabrab è una devota di Anubi, il Dio dei Morti.
Si tratta di una donna consacrata a una divinità , nella quale crede fervidamente.
Si tratta di un personaggio convinto nella causa del suo paese, l'Egitto e altrettanto convinto del suo dio, Anubi. E' l'equivalente pagano di un crociato degli ordini dei monaci combattenti.
Dall'altro, Arabrab in seguito alla scelta di votarsi ad Anubi perde la sua umanità .
E' immortale, allenata a combattere e a usare le arti magiche. Gli ordini della confraternita di Anubi e la sua stessa volontà avventuriera la spediscono a soccorrere non solo gli egiziani, quanto tutti coloro che desiderano un aiuto. Lungi dall'essere solamente una spadaccina, Arabrab è anche un'esperta di arti oscure, un'abile linguista e una donna acculturata. Ancora una volta l'esempio di Geralt torna alla mente: abile con la spada, con qualche abilità magica e ammazza-mostri. E nel contempo, mostro essa stessa: più volte la donna riflette sulla sua vita e sulla sua innocenza perdute irrimediabilmente.
Se si vuole calcare la mano, mentre ¾ dei personaggi fantasy sono maschi occidentali, ritroviamo in questo caso una protagonista femminile dal Medio Oriente, totalmente disinteressata a ogni romanticheria. Con l'importante differenza che in questo caso Arabrab è bene contestualizzata, motivata nella narrazione: non si tratta di aver scelto una protagonista donna solo perchè donna.
Il principale difetto del personaggio è nell'utilizzo disinvolto della magia, che prende in questo caso il nome di “Salmi”: troppe volte nel corso dei racconti l'autore sembra utilizzare l'incantesimo come un deus ex machina (Anubi ex machina?) per salvare la protagonista.
C'è anche un problema di corporatura, dovuto all'essere ragazza: per quanto muscolosa, per quanto abile nelle armi resta una ragazzina. Nell'insieme l'agilità e uso dell'arco rendono i combattimenti convincenti, con qualche esagerazione qui e lì.
La prima volta che incontrai Howard,
nella forma di un volume della Fantacollana, rimasi sorpreso dalla mescolanza di storia e fantasy: Conan si muoveva dentro una Pre(i)Storia caratterizzata da popoli e culture diverse dalla nostra, eppure stranamente similari.
C'è una notevole differenza tra Tolkien e Howard: nel primo caso la costruzione del mondo immaginario è strettamente linguistica e mitopoietica; nel secondo, il mondo è il risultato di un incrocio caotico di popoli e culture che si scontrano e combattono, dove a ogni ciclo di rinascita corrisponde la discesa di un popolo barbaro, il cui vigore permette di rinnovare una civiltà corrotta e malata.
Al di là dell'ovvio conflitto
Individuo vs Società (o nel caso in questione, Individuo vs Civiltà ) traspare dai racconti di Conan la convinzione scientifica del primo dopoguerra di un universo di popoli e sangue continuamente in guerra, dove anche il più grande impero, la più grande civiltà facilmente cade e collassa. In altre parole, con Tolkien la spiegazione appare
filologica, con Howard appartiene all'ambito
biologicoed
evoluzionistico.
Come hanno osservato alcuni lettori di Conan, nel
1920/30 non siamo ancora così lontani da
Darwin e dall'Origine della Specie. Non è un caso quante scimmie, neanderthaliani e barbari a diversi stadi evolutivi compaiano nei racconti di Howard, quasi a mostrare visivamente un percorso evolutivo.
Sono il primo a criticare i collegamenti storici e biografici, ma non è difficile vedere in questo la disintegrazione di ogni civiltà seguita alla
recessione – economica e mentale – del
1929. La ricostruzione arbitraria delle ristampe degli anni '80 tradisce l'intento originale delle storie di Conan, che sono da leggersi come memorie casuali,
frammenti di testimonianze di un barbaro divenuto re. L'universo di Howard è volutamente caotico e meccanicistico, un puro prodotto della
disillusione post 1918 e post 1929, irrobustita dalle destabilizzanti scoperte scientifiche di quegli anni. Tutto ciò si traduce a sua volta nel personaggio stesso di
Conan, simbolo di un uomo che s'identifica
con la vita stessa, consapevole di muoversi dentro un'ambientazione
priva di senso, dove la morte è solo morte e le divinità , se presenti, tacciono silenziose. Forse la migliore enunciazione di questa filosofia di vita è presente nel lungo monologo di Conan nella
Regina della Costa nera.
Arabrab di Anubi in tal senso si pone a metà tra questi due diversi concetti di worldbuilding, attuando nel contempo una ricerca filologica e antropologica.
Il mondo di Arabrab ovviamente trova le sue fondamenta nella tarda Età del Bronzo, tra la Diciannovesima e la Ventesima Dinastia, collocabile tra il XIII e il XII secolo a. C. Il dominio dei Faraoni è ancora forte, ma l'Egitto è minacciato dai Popoli del Mare. In Grecia, il ricordo della Guerra di Troia impallidisce pian piano, mentre i sempre abili fenici navigano in tutto il mondo.
E nel contempo, non si tratta di una ricostruzione storica precisa, anzi: è un giocare con i secoli e con gli stereotipi, un continuo reinventare ammuffiti ricordi d'infanzia. Leggendo le avventure di Arabrab si avvertono quelle identiche sensazioni proprie dei racconti di Conan: qualcosa di storicamente familiare, eppure estraneo. Si colgono i riferimenti, le immagini salgono alla mente, ma sono diversamente colorate.
Forlani ovviamente coglie l'elemento linguistico dato dalla parola erudita fonte di per sé stessa di meraviglia: spesso nelle avventure di Arabrab (a sua volta un nome palindromo), i nomi dei popoli e delle tribù forniscono già una descrizione, trasformandosi in involontario esotismo.
Il nome proprio – geografico, dinastico, tribale – viene sfruttato con lo scopo di caratterizzare in fretta una cultura estranea, con la quale Arabrab entra in contatto. Questo ha il duplice scopo di evitare le descrizioni e nel contempo di rientrare nella forma breve del racconto senza sacrificarne la costruzione ambientale. In entrambi i casi la struttura di queste avventure forlaniane appare velocizzata, complici i dialoghi botta-e-risposta.
Questo primo elemento che potremmo definire tolkieniano, per l'enfasi sulla parola e sulla filologia, si mescola tuttavia irrimediabilmente con un elemento altrettanto howardiano.
Il mondo di Arabrab non è sotto teca, non è una rievocazione ideale: si tratta di un passato sanguinario e viscerale, dalle venature splatter. I combattimenti sono furiosi e brutali, senza risparmio di colpi, di ferite, di arti mozzati. Le battaglie divengono facilmente massacri e gli eroi sono coloro che massacrano più di tutti. Una tra le migliori storie dell'antologia presenta in Italia un incontro tra l'Enea dell'omonimo poema di Virgilio e Arabrab di Anubi. Il classico eroe viene presentato come un mostro bipolare: un eroe greco tanto magnifico quanto possente, che nel momento del combattimento impazza tra le linee nemiche come un macellaio folle. Sarebbe stato facile presentare un fantasy incolore su sfondo storico, come tanti romanzi oggigiorno ambientati nell'Italia rinascimentale, ma Forlani preferisce piuttosto un approccio disturbante, dove il mito viene realisticamente descritto come qualcosa di mostruoso, assolutamente alieno e inconcepibile.
Quando si tratta dell'inspiegabile che sfugge alle leggi della scienza, siamo nel campo lovecraftiano: entità innominabili e indescrivibili, tese alla distruzione non solo del mondo, quanto dell'universo stesso. Quando invece si tratta di mostri affrontabili in combattimento e/o riconducibili all'epica dell'Iliade e dell'Odissea, Forlani preferisce una spiegazione antropologica, propriamente howardiana: esperimenti di cerusici e scienziati ante litteram e sopratutto incroci incestuosi, linee di sangue corrotte e impure.
“Il destino di un'assassina” introduce la nostra protagonista, ancora sedicenne: alla corte del Faraone, è un'avventura introduttiva funzionale alla storia, dove simbolicamente si consuma la rottura di Arabrab con il nucleo famigliare a favore della vita a servizio di Anubi.
Si ripresentano a questo proposito gli stessi effetti di
distorsione temporale già presenti in
Xpo Ferens, solo in questo caso declinati nella magia nera del maestro del Dio dei Morti:
Menetepre tornò dall'ombra, calciò ammirato gli infiniti cocci che cospargevano il pavimento con ingranaggi e rocchetti e corde; guardò ammirato le lame rotte che arrugginivano nella polvere.
«Uhm. Sei migliorata, in un anno di addestramento. Riguardo ad arco e spada non c'è nient'altro che devi apprendere.»
«... combatto appena da pochi istanti: non è possibile che sia trascorso...»
«Akhet, peret e shemu senza fermarti né prender fato; e clessidre innumerevoli di ininterrotto combattimento.»
«Stai mentendo!»
«L'ha fatto Yehoshua che fermò il sole, era un prete degli ebrei: non dovrei esserne in grado?»
«Devi spiegarmi quest'incantesimo!»
«Ti avevo detto di non pensarci: l'apprendistato non è finito.»
“La progenie del labirinto” è una storia particolarmente efferata, dove il mostro per eccellenza, il Minotauro, viene moltiplicato e declinato in una chiave horrorifica e necrofila piuttosto azzeccata.
Le capacità di resurrezione egizia, la “nascita” del Minotauro e la bestialità di fondo del mito della maledetta Cnosso sono condensate in un'avventura quasi splatter.
“Vimana” aggiunge alle storie precedenti un che' di retrofuturista nella proposta di una guerra artificiale, dove gli egizi, così come i popoli barbari e le altre pittoresche civiltà dell'universo di Forlani, sono balocchi di entità occulte, manovrati a combattere guerre inutili e meccanicistiche.
Le scene della battaglia campale sono descritte accuratamente, con chiarezza e occhio attento alla panoramica d'insieme:
«E' il momento», Nebunenef incoccò, «segnalate alla fanteria di ritirarsi e tenere l'argine: se i Siriani resistono, li accerchieremo e distruggeremo.»Tirò una freccia all'auriga barbaro che correva innanzi gli altri: lo abbattè fra ruote e zoccoli; carri rossi e carri bianchi si incrociarono saettando, Arii e Egizi ruzzolarono a morire nella polvere.
Arabrab si accucciò nell'abitacolo di legno e scampò allo scroscio fitto di dardi e boomerang e giavellotti, rialzò la testa quando le squadre si superarono malridotte e decimate dai proietti e dalle falci.
“Un dio deve tacere” è uno dei miei racconti preferiti dell'intera antologia.
Come ne “La progenie del labirinto” parte con una tranquilla ripresa dei miti greci, salvo degenerare di eccesso in eccesso, ricordando nel finale il Re-Animator di Lovecraft.
Raramente uso il termine “appiccicoso” riferendomi a un'ambientazione, ma l'Etruria del racconto “Charu colpisce” è una strana landa, popolata da pastori e agricoltori legati alla terra e ai suoi misteri. In questo caso Arabrab affronta niente di meno che un demone etrusco:
Un individuo di mezza età con un ridicolo cappello a punta, che si appoggiava ad un curvo lituo di quercia e ammantato di scarlatto su una tunica turchese, fu accompagnato dai due soldati alla presenza del Lucumone. Le sorrise con denti neri di un sorriso ciarlatano, arricciolato dai lunghi e sporchi capelli grigi spettinati su una tebenna:
«Cosa sai dei nostri numi?», lo sconosciuto la apostrofò.
«Questi è Avke Feluske», lo presento la regina, «lei, Aruspice, e l'egiziana di cui ti dissi: una guerriera di un dio di tenebre che può sconfiggere cose oscure.»
«E' una bimba!»
«E' un sacerdote?!»
Si guardarono, sprezzanti, con reciproca disistima; lo straccione, la buon'ora, si decise di spiegarle:
«Vanth, Tuchulcha, due potenze delle tenebre, inferiscono sui defunti nella notte dell'Oltretomba. Ma il carnefice è Charu, che ci colpisce con il suo martello.»
«... e gli Elleni hanno le Parche, noi Anubi, in Asia hanno Nergal: ogni popolo ha un dio nero della morte.»
E' bello leggere un fantasy sugli etruschi, considerando quanto poco siano conosciuti. L'idea del racconto è infatti derivata da un sondaggio condotto da Forlani su Facebook, dove il demone dall'Etruria ha trionfato a mani basse. Gli etruschi dell'antologia sono una sorta d'italiani moderni: eroici all'occorrenza, ma scettici e truffatori, un po' alla buona.
«Posso usare la magia: so ieratici di luce; rischiarerebbero la galleria, ci allevierebbero la fatica.»
«Ma va là . Ciarlatanate.»
«E' molto comico detto da te.»
«Dai, dimostralo.»
«Non servirebbe, non durerebbe: sono incantesimi per pochi istanti, me ne servo in combattimento. E se aveste ragione voi...»
«... se incontrassimo Charu...»
«Mi assoldaste a questo scopo, devo serbare le mie risorse: se non altro, per sopravvivere a questa fogna.»
«Non esiste che un prodigio: è nei fulmini, nei visceri.»
«Ma lo sai leggere, tu, il futuro?»
«Sono aruspice», si scappellò.
«E per noi che cosa vedi?»
«Su, muoviamoci», sbuffò, «preferisco le sorprese.»
Lo squittio dei grassi topi che infestavano quei sepolcri, lo strofinio degli orrendi insetti ed il sibilo dei serpi sussurravano nei loro orecchi litanie dell'oltretomba; l'anatema abominevole di finire in pasto ai vermi. Arabrab si aggrappo al freddo ciondolo del Dio Sciacallo: queste tenebre, inghiottì, sono il destino dei miscredenti; di questi barbari troppo avidi di vita che scontano in quest'inferno i loro eccessi ed appetiti.
«Le piramidi sono meglio?», Feluske la spernacchiò: quasi le indovinasse quei colpevoli pensieri.
«Noi non conosciamo quest'orribile disfacimento: preserviamo i nostri corpi, perché un giorno rinasceremo. Le nostre anime leggere e pure sono accolte in sale eterne.»
«Come no?»
“In una morsa di pece e fango” è un mystery dove Arabrab deve fronteggiare la minaccia di un mostro familiare ai lettori di lunga data di Forlani, ovvero il golem. L'assassina sta lavorando per consacrare una città in costruzione al dio Anubi, eliminando (letteralmente) la competizione degli altri dei, quando scopre un agghiacciante complotto che mira al dominio dell'intero Egitto.
Tra le storie meglio sviluppate dell'antologia, “In una morsa di pece e fango” funziona come punto di svolta della raccolta: destabilizzata, in preda a una crisi di fede, Arabrab abbandona le sue mansioni di assassina per intraprendere un viaggio in Europa. Si tratta di un pellegrinaggio, un'erranza pagana alla ricerca del dio Anubi. On passant, il racconto è anche un'involontaria satira dei fantacomplotti che vanno di moda oggigiorno.
“La bestia nelle viscere” segue Arabrab nel profondo nord, abbandonata di sua volontà a meditare nel ghiaccio e nella tundra, dopo aver approfittato di un passaggio via nave dai fenici.
La volontà ascetica della guerriera è presto interrotta quando le popolazioni locali domandano il suo aiuto per investigare la scomparsa dei propri figli.
Sono esseri umani, ma Forlani li descrive a tal punto brutali, a tal punto rincoglioniti, a tal punto regrediti nel corpo e nella mente che sembra di veder descritta una razza di troll:
Ma arrivarono, finalmente, a quell'ammasso di tuguri. Non si poteva chiamare villaggio: erano mucchi di mota e sterpi; rozze, fragili palizzate e un muricciolo di pietre e palta, l'argine insalubre di un fumiciattolo avvelenato di moscerini. Le conifere incombevano su quel misero insediamento, schiume di tenebre e d'oscurità ne erodevano le cinta. C'era vita, all'aria aperta, nel fango pesto fra le capanne: liti, schiamazzi e un gutturale sinistro idioma per contendersi capre e pecore buoi e porci e cavalli enormi. I maschi erano mostri dai bicipiti impressionanti e le chiome e le barbe bionde che crescevano incolte e sudicie, mentre le femmine erano orchesse dall'incarnato e i capelli chiari che sgobbavano a mansioni financo ingrate per uno schiavo. Arabrab inghiottì schifata: non era umanità ; le sembrò stesse affondando in un brago di abbrutimento.
Rasmus sputo parole rattorcigliate di k ed r cui mancarono le morbide e piacevoli vocali: un saluto, probabilmente. I selvaggi, dal canto loro, gli grugnirono diffidenti. Spintonarono ad affrontarlo uno scimmione dai baffi grigi: si scambiarono altri blateri, alla buon'ora la mostrò al branco. Le abbassarono il cappuccio e sbigottirono della sua pelle, le accarezzarono le trecce nere e... se la risero che fosse donna e cosi giovane e minuta.
Questa non è cattiveria o ricerca del grottesco: è una realistica descrizione di come dovevano sembrare le popolazioni nordiche al confronto con le civiltà egizie e greche. Si trattava letteralmente di un'altra scala evolutiva, Howard docet.
“Il giudice del mondo” è un ampliamento e una rielaborazione della tematica retrofuturista di “Vimana”, ma nel contempo paga un tributo obbligato all'Atlantide di tanta Sword&Sorcery. L'avversario di Arabrab, contorto e mostrificato dalla tecnologia, prodotto dalla stessa, possiede un tono petulante e in un certo qual modo nerd che lo rende alquanto efficace.
“La terza estate” descrive il ritorno in patria di Arabrab, seguendola nelle avventure di una Lazio contesa tra Rutuli e colonizzatori troiani di Enea. Al di là dell'eroe in questione, di cui ho già scritto, è un esempio perfetto di come Forlani selezioni elementi a noi familiari, come la lupa, i sette colli, l'Eneide, ecc ecc e li renda irriconoscibili, talmente rovesciati dall'essere estranei. In questo caso la nascita di Roma possiede caratteristiche quasi demoniache, dove il destino di dominare il mondo non è una benedizione, quanto una sventura. Specie per i popoli, come l'Egitto di Arabrab, che ne diverranno servi.
Tra i tanti riferimenti, c'è una critica alla condizione della donna nel passaggio dalla civiltà dei Teucri alla civiltà proto romana:
Si parlò subito di armenti, spose, di terreni e matrimoni: vacche e pecore, ragazze, sentimenti e recinzioni per i Rutuli non differivano. Lei se ne stupì, dato il rispetto e il comportamento di quei selvaggi nei confronti delle troiane prigioniere, ma vide anche che trattavano allo stesso modo le pecore e le scrofe e le cavalle nelle stalle. La sorprese inoltre il fatto che i troiani, più raffinati, si abbrutissero volentieri a quelle usanze da trogloditi ma... si trattava di un'altra vita, un'altra terra ed un nuovo cielo.
A questo proposito, è interessante osservare come tra le civiltà trasfigurate dal fantasy di Forlani gli etruschi siano forse i più egualitari.
“Sul trono della morte” si riallaccia infine al primo racconto: nuovamente in patria, a Khana, Arabrab non deve stavolta duellare interi eserciti o combattere mostri, ma si ritrova avviluppata in un intrigo di vecchie conoscenze e altrettanto vecchie divinità : la guerriera per la prima volta ha la scelta se continuare con la vita di assassina o sperare nei sentimenti dei mortali. La protagonista sembra abbandonare l'armatura e il fanatismo dell'assassina, ma è solo un inganno tra i tanti.
Il racconto simbolicamente conclude il viaggio di Arabrab, nel contempo sancendo sia fisicamente che metaforicamente la crescita del personaggio.