Adeste Haudmortui (Racconto di Natale 2013)


Nicola aprì gli occhi, cozzò sull'assito, si sedette sul pagliericcio e si avvolse nel mantello. Non era stata un'impressione del dormiveglia: il carro era fermo. Si affacciò dal tettuccio, protestò con i cocchieri:
«Perché ci fermiamo?»
Il phylax della scorta gli indicò quella folla che abbandonava gli insediamenti e le casupole del contado, si accodava lamentosa alle porte di Myra. Si raccoglievano sotto il muro di pietre e ostruivano il ponte e i cancelli fortificati, spingevano capre; si ingobbivano sotto i sacchi di provviste, i fagotti, gli utensili, stringevano al seno i bambini che strillavano. In fila al barbacane, per almeno uno stadius, nel rollio delle carriole e nello strepito dei campanacci, nel barrito dei corni; soffocati dalla polvere, incalzati dall'imbrunire, che imbiancava già di brina l'acciottolato e gli sterpi.
«... vedete che confusione...»
Lui tornò nel carro, si lavò in un bacile: raccolse in una sacca i paramenti e gli oggetti sacri, la mitria; si armò del pastorale ed ottenne un cavallo:
«Farò prima se vado solo», grugnì, «non voglio trascorrere un'altra notte all'addiaccio e tardare per l'investitura di un altro giorno di marcia; non fuori il portone della diocesi, almeno: sarebbe ridicolo. Raggiungetemi in cattedrale.»
«... Vescovo», balbettò l'ufficiale, «non credo che sia prudente...»
«Sono il loro pastore», Nicola spronò.
Galoppò per la pianura lungo le sponde del fiume Myros: da sinistra si allungò l'ombra fredda degli scogli, gli strapiombi di roccia grigia sulle spume del mare. La parete era scolpita di colonne, di trifore, frontoni e lucernari incastonati nell'arenaria.
Accessi all'oscurità.
Lui riconobbe in quelle tetre architetture la necropoli pagana degli Elleni e Romani: gli piacque vedere, arrampicati sui sassi, scrupolosi sacerdoti che aspergevano con l'acquasanta, che lavavano quelle grotte dal veleno dell'eresia. Gli piacque vedere carpentieri devoti che inchiodavano travi sugli ingressi delle tombe.
Però non gradì che ci fossero dei magi che intingevano il pennello in una coppa sacrificale, che grondava di sangue; e dipingessero quelle travi di sigilli e di pantacli.
E lo fece rabbrividire che i sacerdoti con gli stregoni intonassero, insieme, una formula di esorcismo.
«Blasfemi!», ringhiò, si azzardò alla scogliera: il cavallo si intestardì di non scendere, nitrì spaventato sull'orlo del precipizio.
Nicola stornò dalla necropoli, fendette la folla che si accalcava alle porte; batté col pastorale chiunque lo ostacolasse e sferzò col frustino: la marmaglia gli fece largo. I legionari di sentinella ai cancelli si inchinarono all'anello vescovile: lui passò oltre, cavalcò all'agorà, si fermò sulle scale del santuario di Artemide.
La piazza echeggiava degli scalpelli degli artigiani che cancellavano dalle statue le fattezze dei vecchi dei: redimevano in Santa Vergine l'oscena Cacciatrice e davano ad Apollo il volto del Pantocrator; incidevano nelle metrope le croci greche ed il crismon.
Due donne e bambini, nel cortile del tempio, decoravano gli alberi di amuleti e di nastri:
«... le antiche credenze troppo dure a morire. Quell'inetto di Luciano non si è dato granché da fare...»
Entrò nella basilica: l'arcidiacono l'annunciò. L'anziano predecessore lo accolse con un gemito: un alito ammalato, fiacco, sconfitto. L'abbracciò con fatica.
Nicola provava compassione e disprezzo per quel vecchio tremebondo che avvizziva nel talare, e che spazzava ingobbito la polvere con la fascia e i paramenti sfilacciati e consunti:
«... perdonami, Signore», inghiottì, «se pecco di alterigia e con l'anima avvelenata...»
Si sedettero nel presbiterio nella luce dei candelabri. La notte bussava sui colori delle finestre, e il freddo di dicembre strisciò nelle navate. Un giovane sacerdote li servì di due stole, accostò due bracieri; asperse con il turibolo contro i miasmi di muffa, che salivano dalle cripte morsicate dall'acqua.
Obbedirono al rito, si scambiarono i documenti: lui consegnò gli incunaboli sigillati con le cifre dell'Imperatore e di Silvestro Pontefice; innalzarono alle volte i giuramenti in latino.
«Non c'è molto da aggiungere, fratelli», tossì Luciano: testimoni i sacerdoti presenti si scambiarono le consegne e la tutela di Myra, si baciarono fraternamente, «Nicola è il vostro nuovo pastore.»
«Amen.»
«... ora, Luciano», lui si incupì, «se potessimo conferire in privato...»
I preti e l'arcidiacono se ne andarono, chini; scomparvero in silenzio nelle tenebre del tempio. L'altro lo ascoltò rannicchiato sullo scranno, bofonchiò imbarazzato:
«... gli scribi ti informeranno di tutto ciò che ti occorre...»
«Non mi interessano le faccende amministrative: confido che i funzionari si guadagnino i loro solidi. Ma sospetto di ereditare una diocesi corrotta nell'animo. Persino qui in cortile...»
«... è Solstizio... Sol Invictus... Natale: non possiamo eradicare le tradizioni: piuttosto sostituirle. Inoltre che male c'è, nell'appendere una ghirlanda?»
«Ho udito i nostri preti cantare con i magi. Poco fa sugli scogli, in un rito pagano.»
«La necropoli degli Elleni», il vecchio rabbrividì, «è tutt'altra faccenda. Va lasciata così com'è. I bambini non possono valicare i cancelli; gli incantesimi li indeboliscono. E basta che ogni anno, il venticinque dicembre, tu consenta agli abitanti del contado di rifugiarsi in città: in questo modo saranno salvi.»
«Di cosa stai parlando?», lui strabuzzò.
Luciano gli indicò una bacheca di pergamene, ognuna contrassegnata da una data anno domini:
«Gli annali della città dalla nascita di Cristo, compilati o ricostruiti dai monaci amanuensi. Srotola l'anno Tredici in data odierna, e leggi dell'efferato infanticidio: ma abbassa la voce, ti prego; non è bene rievocare certi fatti di notte.»
Nicola sciolse i lacci al papiro, e scorse il manoscritto fino al giorno di Natale:

caupo affertulit necavit pueres, in terrae hospitii obruit dilacerates (1)

«Che orrore!», si segnò.
«L'orrore venne dopo: l'oste confessò solo in punto di morte; ricevette l'estrema unzione e fu salvo. I bambini non ebbero sepoltura cristiana: l'omicida li ridusse in tale stato che... potremmo dire che sono sparsi tutt'ora sotto il suolo di Myra. Che Iddio ci perdoni, li calpestiamo ogni giorno. C'è chi vuole che da allora, ogni notte di Sol Invictus, chiamino gli infanti dalla necropoli sugli scogli a vendicare la loro morte sugli adulti del borgo.»
«Ci credi, Luciano? Sei un vescovo cattolico, e queste sono fole da villici.»
«Ero un vescovo: ora tocca a te. Io so solo che da trecento anni nessuno che resti fuori le mura, stanotte, sopravvive ad orribili, piccoli antropofagi che non si possono contrastare perché sono già morti. So che gli incantesimi servono a rallentarli. E ammetto che le preghiere non bastano ad arrestarli.»
«Vattene, vecchio», Nicola avvampò, «abbandona la diocesi: ed io fingerò di non avere ascoltate codeste tue colpevoli parole.»
L'anziano batté col pastorale sul pavimento: tornò l'arcidiacono, lo alzò dallo scranno; l'aiutò ad arrampicarsi su una chiocciola per la canonica. A metà si fermò, lo guardò con una supplica. Lui gli rispose con una smorfia di intolleranza.
Suonarono le campane e bussarono ai portali.
«È il vespro, fratelli. La sentinella ha riferito che gli abitanti del borgo sono tutti al sicuro entro il cinto di mura», un prete annunciò, e accolse alla postierla una squadra di legionari.
Gli uomini entrarono senza smettere le armi, né i mantelli sfilacciatati né gli zaini dalle spalle; attraversarono la navata e si fermarono sotto l'abside, salutarono col braccio teso:
«Eccoci, Vescovo.»
«Costoro sono gli uomini che mi scortano», Nicola li presentò, «lasciatemi con loro, e apparecchiate la Santa Messa.»
Luciano ed i prelati se ne andarono con gli occhi bassi, pispigliarono inquieti: lui gli ignorò. Schioccò al decurione che scattò sull'attenti:
«Ordini, Vescovo.»
«Abbiamo un carpentiere?»
L'ufficiale chiamò due soldati tarchiati, dai bicipiti impressionanti, con i calli alle mani; un intuito di cose pratiche che brillava negli occhi:
«Adiatorige e Stentore.»
«Non ho intenzione di sopportare che nel Natale del Cristo, la mia prima notte come Vescovo di Myra, i demoni degli Inferi minaccino il mio gregge: scenderò nei recessi di quell'empia necropoli.»
Gli uomini sbiancarono con le mani sull'else:
«Da solo?! Ma, vescovo!...»
«... però mi serve un mezzo per affrontare le rocce, ché i cavalli non ne vogliono sapere. Mettetevi al lavoro, adattate il mio carro: ché entro la mezzanotte voglio essere sugli scogli.»


La macchina era ferma presso i cancelli fortificati, Stentore e Adiatorige sollevarono il telo. Nicola si sbigottì, epperò soddisfatto: non capiva granché di quell'ordigno bizzarro, che appariva robusto, minaccioso ed efficiente; lo convinse soprattutto quel barilotto di fuoco greco:
«L'abitacolo superstite del carro», Adiatorige l'istruì, «è dove vi siederete per guidare la macchina. Quella è la leva del lanciafiamme sul tetto; con i pedali e con i tiranti muoverete le zampe.»
La parte anteriore dello strano marchingegno, Nicola osservò, era infatti costituita da una trave di un pedes munita di otto zampe, di pulegge e di corde. Il giogo era scolpito a testa d'asino o bove: lui non approfondì, per non offendere i carpentieri; ma i sistemi di tiranti e di antenne, incastonati all'altezza delle orecchie, la facevano assomigliare piuttosto ai cervidi tarandri (2) del settentrione d'Europa.
«... e abbiamo sostituito le ruote con un pattino di acciaio», Stentore gli mostrò, «scalerete le rocce e fenderete il terreno: provatela, Vescovo.»
Nicola si sedette a cassetta dell'ordigno, spinse sui pedali e armeggiò con le corde: dopo un paio di tentativi la macchina gli obbedì.
Nel frinire regolare delle gomene e dei tiranti, nell'esatto ticchettio degli ingranaggi, s'insinuò all'improvviso un vagito, un sospiro.
L'eco del pianto di decine di bimbi.
«Kyrie, cos'è stato?!», impallidirono i legionari.
«Aprite le porte», Nicola ordinò; mise in moto l'ordigno e si armò del bordone, si tuffò nelle tenebre poco oltre le mura.


Le casupole di calce con il tetto di paglia galleggiavano nella pece di un orizzonte gelato, e il fango e la gramigna scricchiolavano spezzate sotto il trotto inarrestabile delle zampe meccaniche. L'inverno azzittiva gli animali notturni, e l'unica e nera voce era quella del vento. Le ombre spaventose delle nubi e dei rami d'albero strisciavano sulle pareti illividite dal freddo.
Nicola era cieco:
«Così non va bene», spruzzò con il lanciafiamme sulla paglia di una casa, e l'incendio di fuoco greco schiarì l'insediamento.
Lui si segnò: l'assalivano da ogni lato.
Corpi putrefatti di bambini e di adolescenti, scheletri, mummie, cadaveri infantili, arrancavano per i chiassuoli del borgo grattando alle porte e insistendo alle finestre, sfondavano, entravano, vagavano muti; cercavano affamati nelle aie deserte. Il pianto spettrale che echeggiava da Myra li attirava alla città come un canto di perdizione, non stornavano gli occhi marci dalle mura agognate. Le fiamme tradivano nelle guance incavate, nei crani devastati, nei conati di umore, un'impossibile sofferenza più profonda della morte.
Il sentiero di ciottoli che scendeva alle tombe era tutto gremito di quegli orridi pargoli.
Ne venivano ancora.
«... Sorgi, oh Signore, e spargi i tuoi nemici!...»
Nicola si buttò con l'ordigno nel mezzo della calca puzzolente e mostruosa, colpì col pastorale e calpestò i corpicini. Ruotò su sé stesso; manovrò la testa cervide con i tiranti ché scornasse e spezzasse in quell'orda di abomini. Calciò i bambini morti contro il muro di una stalla, li usò come rampa per salire sul tetto. Scrosciò fuoco greco: lo zolfo e la nafta divamparono nel villaggio.
Lui si sciolse lo scapolare paonazzo e lo avvolse alla bocca contro i fumi della strage: i mostri esplodevano per i liquidi della morte che bollivano e s'incendiavano nei loro visceri gonfi.
Crepitavano secchi. Senza emettere un grido.
L'acciottolato per la necropoli fu cosparso di cenere, e la macchina galoppò su quella coltre fumante giù per le scogliere e nell'abisso della notte.
Nicola appiccò alle ginestre ed i pini: gli sterpi incendiati schiarirono il cammino, ma le fiamme non penetrarono gli ingressi alle tombe. Manine e piedini marcescenti e scheletriti, occhietti sfavillanti di mefitici fuochi fatui, si azzardarono dal profondo sugli scogli illuminati, graffiarono gli architravi; attesero cupidi che s'estinguessero i fuochi, tornarono a centinaia a aggredire il pendio.
Lui rabbrividì dell'appetito e la dannazione che animavano quei cadaveri, impietrì del loro numero: le porte dei loculi continuavano a vomitarne; un'orribile, putrescente e barcollante teoria. Il rantolo dei mostri, il vagito dei bimbi, azzittivano il mare molti metri più sotto.
Nicola diede fondo al barilotto di fuoco greco: i getti incenerirono i primi ranghi dell'orda, rovesciarono i non-morti in tizzoni nell'abisso. Dai sepolcri tuttavia ne strisciarono il doppio: e ormai solo l'odore della nafta e dello zolfo esalavano dall'arma sul tettuccio del carro, e gocciole di pece liquefatta e fumante. Gli zoccoli della macchina calpestarono tutt'attorno, il pattino d'acciaio fendette i carcami: presto s'impantanò dentro un cumulo disgustoso di viscere e cartapecora che scricchiolava di pezzi d'ossa. Lui spazzò gli assalitori col pastorale, affondò con il bastone nei toraci, nei crani: intrappolato fino le cosce e la vita nei corpi fatti a pezzi dei bambini infernali.
Stremato.
Recitò le sue preghiere, menò un altro fendente, crollò: strinse i denti per sopportare da martire le grinfie feroci di quell'orda schifosa, e i morsi avvelenati nella gola e le carni:
«... Kyrie, eleison!...»
I cadaveri lo abbrancarono, soffocarono, calpestarono; lo avvinghiarono e graffiarono e sommersero la macchina.
Passarono oltre.
Lui si rialzò sbigottito e malconcio, raccolse i lembi laceri del talare e mantello e montò sulla cassetta per vedere e raccapezzare.
Ai roghi delle piante e dei tetti di paglia osservò la processione vomitare dai loculi, salire per l'erta e sciamare nel borgo. Non riuscì di distinguere fino il cinto fortificato: epperò gli sembrò che quegli infanti spettrali si accanissero ai portali come i villici all'imbrunire.
Li vide attraversare in un recinto di vacche. Non morsero o graffiarono per una fame blasfema: le bestie mugghiarono, li infilzarono coi corni; loro si difesero come è proprio dei bimbi.
Ascoltò il loro pianto: attento a non confondere con il fischio delle cripte e il sibilo dell'inverno e i barriti degli scogli.
Non era una cantilena di vendetta e malignità: imploravano aiuto. Battevano ai portali guardati dai legionari, bianchi dal terrore e l'ottusità, sugli spalti. Gli uomini rispondevano con i pilum, le frecce; grandinavano sui non-morti con le balliste e le catapulte.
«... che Iddio ci perdoni!», Nicola si segnò, lacrime di pena gli stillarono sulla barba, «Non escono dalle tombe per punirci di un crimine: fuggono da qualcosa che è sepolto con loro!...»
Fissò l'oscurità nei portali di pietra, e tremò all'inconcepibile orrore che si celava in quell'infetta profondità: non riusciva ad immaginare cosa spingesse un'animula a destarsi, nel peccato, dall'eterno riposo, a vagare nelle tenebre e morire due volte. I tormenti dei dannati non erano così crudeli:
«... non sopporto quest'empietà!...»
Smontò dalla macchina, l'ordigno si inclinò, e un involto di stracci rotolò dall'abitacolo.
Sui panni era attaccato un cartiglio con il goffo latino di Adiatorige e Stentore:

rem vobis, episcope, persuasi prodetur (3)

Nicola sollevò quel fagotto, pesava, lo sciolse e sbigottì: l'arma era una piccola ballista, portatile, rapida a caricare e munita di dardi; con un triplice canale, martinetto e cremagliera. La provò contro un albero: una raffica di verrettoni sbriciolò la corteccia, e scavò dentro il tronco tre ferite profonde.
Riarmò soddisfatto, ghignò. Intinse il pastorale nei residui del barilotto, lo accese ad un rovo in fiamme e lo usò come torcia. Imbracciò la balestra:
«... chi è costui che viene, nel nome del Signore?...»
Salì per i sentieri che accedevano alle cripte.


I cunicoli scendevano molti metri nel tufo, la roccia era cava di edicole e di nicchie. Dove non giacevano i cadaveri di adulti si trovavano i segni di un grattare dal basso, smottamenti di argilla; le impronte di falangi che tornavano dal di sotto. Gli architrave d'arenaria all'ingresso dei corridoi, e i gradini insidiosi che affondavano nel buio, erano tutti contrassegnati da una lapide, una targa, una piastra di metallo con un numero inciso:
«Identici agli annali nel presbiterio di cattedrale», Nicola intuì: scese qualche rampa e strisciò in un passaggio, e le cifre decrescenti gli confermarono quel sospetto, «che cosa cercare?»
Si calò nelle tombe per quinquenni, decenni; affondò nei pozzi neri dei tre secoli precedenti.
Sulla soglia di un corridoio con il Pesce e con il crismon, che spartiva la necropoli fra pagana e cristiana, vide accendersi una cripta di un'insana luminescenza.
Qualcuno ansimava nella foia di un coito, e la cifra sullo stipite era XIII A.D.
Nicola appoggiò il pastorale in un loculo, ché gli schiarisse una via di fuga, e avanzò verso il chiarore con il dito sul grilletto.
Entrò nella cripta.
Lo spettro verde-fradicio di un antico locandiere galleggiava nella stanza con il membro fra le mani; si attardava alle nicchie con i cadaveri dei bambini, si strusciava sui loro resti e li insozzava di sperma: quella immonda sostanza resuscitava i cadaveri. I fanciulli si contorcevano nella sporcizia dei loculi e strisciavano lontano dagli appetiti dell'ombra: che spaccava i loro crani con una roncola d'aria nera.
Lui tirò tre verrettoni contro il mostro: i dardi lo trapassarono, s'infilzarono nel tufo; l'immondo taverniere gli sorrise, sereno:
«Embeh? Sto scopando.»
Nicola bruciò d'ira, scagliò la ballista: l'arma gorgogliò nell'ectoplasma dell'essere e cadde impiastricciata sulle lastre del pavimento.
«Perché t'arrabbi tanto? Che vuoi? Sono in pace. Sono morto da cristiano con i debiti sacramenti; ho lavate le mie colpe e me la spasso con i mocciosi. Voi vivi non vi riguarda.»
«Hai dannato i bambini che uccidesti da vivo e tormenti i fanciulli che giacevano sepolti; e attossichi di angoscia i Natali dei cittadini!»
Il fantasma smorfiò di insopportabile indifferenza, si grattò i genitali e si strinse nelle spalle:
«... ma voialtri mi garantite che sarò salvo lo stesso, è così?...»
Nicola si sedette su una colonna crollata, ispirò profondamente e domandò con voce mite:
«Figliolo, quale è il tuo nome di battesimo?»
«Timoteo di Aristotile e di Porzia Lucilla: convertito e battezzato nell'anno Dodici, da adulto, nella basilica e cattedrale di Myra.»
«Dunque appartenesti a quel gregge e quella diocesi?»
«Vi appartengo tutt'ora.»
Lui si alzò di colpo dal trochilo spezzato, e impose l'anello sulle labbra allo spettro:
«Riconosci il tuo Vescovo!», il mostro si sottomise, «Ti revoco l'estrema unzione!»
L'ombra affiochì, ritornò corpo fisico: l'empietà di trecento anni la corruppe di piaghe, la impastò con la polvere e sozzura del sepolcro. Nicola la spintonò, ruzzolò alla balestra, caricò tre quadrella e puntò alla creatura: l'oste era ridotto ad un flaccido cadavere dalla pelle purulenta, giallognola e crepata, un amalgama ammalato di fanghiglia e di carne.
Vulnerabile ai colpi.
Quell'empio peccatore l'assalì con un ruggito. Lui lo inchiodò coi verrettoni alle parete, tornò nel corridoio e riprese il pastorale. E affondò l'estremità fiammeggiante nei visceri gonfi di umori e di gas:
«... nel nome del Padre, del Figlio e lo Spirito!», l'abominio scoppiò.


Nicola attraversava la processione di spettri che esalava dai cadaveri dagli scogli alle mura. I corpi si afflosciavano svuotati all'improvviso, svanivano in cenere; gli spiriti dei bimbi si addensavano sull'erba.
Un alito raggelato di migliaia di volti, una coltre di anime con gli occhi limpidi e luccicanti. Piangevano di redenzione e d'innocenza restituita, guardavano al cielo.
Le campane della città rintoccarono la mezzanotte, gli spiriti intonarono l'Adeste Fideles: la laude investì gli ingressi neri delle cripte e ruggì in profondità come un'onda che lavi. I bambini svanirono nella notte di Natale col venite adoremus che vibrava sulle labbra.
Lui ritrovò la macchina camminatrice rovesciata fra i fili d'erba in uno strato di polvere: sembrava che il vento si affrettasse a spazzarla, e lo tirasse per il talare ché riprendesse le redini. Drizzò l'ordigno in piedi, imbracciò la balestra, obbedì a quell'impulso e guidò verso Myra.
Grida di pipistrelli ed ululati di lupi, sibili di bisce e bubboli d'upupe, lo insultarono rancorosi dalle tenebre circostanti: il vocio dell'Inferno che ammetteva la sua sconfitta, pretendeva rivalsa.
Nicola impennò col marchingegno contro il buio, incoccò tre quadrella e brandì il pastorale:
«Stanotte è Natale, progenie di Satana: vi porto i miei doni...»




(1) Un oste violentò e uccise alcuni bambini, e li seppellì in pezzi sotto la sua locanda.
(2) Renne, in latino
(3) Un aggeggio per voi, Vescovo, che siamo convinti vi sarà utile

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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