I.
«E la Franci? Come
sta?»
Luca posò sul
tavolo un bicchiere mezzo vuoto: e che fosse mezzo vuoto, tra i rumori del
ricordo - mentre allora poté essere quasi pieno - confermò quel detto triste e
senile che i proverbi ci azzeccano quasi sempre.
Lui, senile.
Ci azzeccavano più
spesso.
E Gianlorenzo
rispose «bene: ha avuto ieri il colloquio»; e reagì alla ferita del "come
sta; come stai" con il "bene" incerto e vuoto che ci si illude
che la lenisca.
Com’è duro, un
"come stai".
«Quello in Cina?»
«Sì, ma on line.»
«Com’è andata?»
Come stai?
«Bene. Bene, è
andata bene», rise Gianlorenzo. Bevve un sorso e un altro sorso, «le
hanno chiesto se tra un po' d’anni sarebbe disposta a trasferirsi sulla Luna.»
«Sulla Lu?…»
«Per il lavoro.»
«Dài, mi prendi
per il culo.»
«Tra un po'
d’anni. Vaˈa capire.»
Disse apposta
"tra un po' d’anni", per pensare fosse buffo. Gonfiò le guance e po'
po' po' po' come fa ridere se si è bambini. "Tra qualche",
invece, sarebbe stato professionale. Peggio: adulto; già reale.
«Ma è vero?!»
«È vero.»
«Quella Luna!»,
disse Luca.
Ricordò che da
ragazzo aveva letto che ne esisterono altre otto; che anche quella sarebbe
precipitata. Ma la prima sua ragazza con cui fece sesso vero gli spiegò con
raccapriccio che era un libro da nazisti. Tornò a splenderne una sola, nelle
notti da lì in avanti.
«Sì, la Luna. Yuèliàng,
si dice, là. Non riesco a pronunciarlo.»
Non ci sarebbe
riuscito mai.
«Cos’ha risposto,
Francesca?»
Che cosa aveva
risposto?
Perché Luca, da
qui in poi, non ricordava quell’episodio: gli era, soprattutto, rimasta
impressa la Luna.
Forse la risposta
fu che Francesca, al massimo un anno dopo, lasciò l’Italia poi Gianlorenzo per
un ragazzo cinese, con il volto da armata di terracotta e una figura da
piano-medio dei biopic su Yip Man. Doveva essere il duemilaventi. O il ventuno
o diciannove. E fino a ora Luca non aveva pensato più a quel bancone di
bar - che è chiuso - e a quel fatto che incredibile, fraˈ: alla ragazza di
ˈsto mio amico hanno chiesto se è disposta a trasferirsi per lavoro sulla Luna;
Luna raga, Lu-na. Pensa tu, i cinesi, che cosa stanno già progettando. Mi hanno
detto che in Africa è già tutto dei cinesi. Eh ma guarda: che anche qui...
Fu la morbida
accelerazione dello shuttle TeslItalia a fargli tornare in gola quell’una birra
con Gianlorenzo.
Non sembrò granché
diverso da quelle volte che aveva preso un aereo - tre: per Edimburgo, Londra e
per Berlino. E ritorno.
Solo tre, nella
sua vita.
«Ma no! la Luna!
Che storia, Gian!», avrà almeno ripetuto due, tre volte quella sera. E la Luna
era abbastanza per riempire quei bicchieri, quell’alone di silenzio che si incrostava
sul fondo; «per il resto?»
«Dài. sto bene.»
Il lavoro. L’auto.
Sport.
Si era fatta quella
certa.
Non ci avrebbe mai
creduto.
Gli tornava in
mente adesso.
Tocca a me.
Perciò era vero.
Sembrava il
prologo di quelle trame che ci illudiamo la vita scriva; che sono trame se ci
riguardano. Altrimenti un dì vedremo.
In un film di quei
vecchi & catastrofici su edifici, transatlantici e aeroplani che si
incendiano, inabissano e vanno in avaria - dove sempre, al novantesimo minuto, c’è
un pastore protestante che si immola in un incendio per salvare la moglie
anziana di un poliziotto in pensione, un milionario che impara che «il denaro,
qui, non conta niente, Simmons!»; una bionda e un quindicenne - Luca, in un
sospiro sconfitto, ora avrebbe, e davvero avrebbe ora voluto,
confessare ad altri tre passeggeri, i tre di fianco a lui, che questa, «per
me», era la prima paurosa volta, su un razzo per lassù.
Questa era la
scena dell’
«e Lei? Di che cosa
si occupa?»
«Ho un emporio a
Cincinnati.»
«Cincinnati? Ma davvero? Io ci capito molto spesso, sa? Per il commercio.»
«Mi passi a
salutare, alla prossima!»
«Senz’altro!»
Ma i tre erano
obesi, luccicanti pakistani che piluccavano patatine da cartoni flosci d’olio,
e si pulivano gli anelli e gli indici, i palmi e i braccialetti, con tovaglioli
di carta azzurra da un pacchetto nel bagaglio; guizzavano a leccarsi le
briciole sui polsi. Esplodevano ogni tanto una granata di business english, e
si facevano gli affari propri in un urdu stretto e fitto.
Luca si specchiava
nei loro torridi occhiali d’ambra come gli orli e cuciture di un qualsiasi
sedile vuoto.
Capì di non
esistere, per loro, e questo lo confortò.
Non sarebbero
passati a salutare, in una prossima lontana vita, di passaggio spesso mai
nella sua piccola cincittà.
«Benvenuti a bordo
della navicella venticinque cinque sette due», annunciò l’altoparlante,
«diretta a Luna Láoshǔ»: il teleschermo con le infografiche si animò di un topo
in stile anime. Lui pensò che i bambini, per esempio, avrebbero gradito
che gli insediamenti cinesi sulla Luna avessero i nomi dei segni zodiacali.
Certo la prima volta avevano ghignato tutti a sentire e immaginare
com’era Luna Maiala; Luna Cavalla o appunto Luna Topa; il maschio medio di
sessant’anni, qui da noi, per esempio me, le voleva abitate tutte
da taikonaute Edwige Fenech.
Il maschio medio
di sessant’anni, sulla Luna, non ci sarebbe dovuto andare.
Ma Luca aveva
ormai insegnato Ariosto troppe volte, e purtroppo l’ottobre scorso aveva
firmato quei documenti in cui chiedeva lui, di restare sulla cattedra di
Italiano. Non ce lo avevano crocefisso.
La cattedra, però,
non era rimasta a Pesaro, Marche, sulla Terra. Continente europeo. E non era
più nemmeno del Ministero dell’Istruzione.
Una volta si
diceva di certi enti e realtà che fossero - sillabò - "a partecipazione
statale": lo imparò da suo papà.
Lo trovò solenne e
giusto.
Adesso era un po'
tutto a partecipazione cinese.
Anche, credo, il
Ministero dell’Istruzione.
Non lo so.
Chi lo sapeva?
Nuove norme ogni
semestre.
«La navicella
fermerà a Tiangong Stazione per controlli di
routine, e arriverà a Luna Láoshǔ alle dieci e ventisette di mercoledì sei
ottobre.»
"Eventuali
accompagnatori, pregati di scendere", già abbandonavano la scaletta di
accesso allo shuttle; camminavano all’indietro, sulla vasta piattaforma
circostante l’area di decollo, salutando le fidanzate, i figli, i colleghi, e
gli anziani partiti soli per le cliniche e ambulatori lunari:
«Ché si sa che
costa meno e i dottori sono bravi», masticavano i settantenni con una prostata
da controllare.
E scomparirono tra
i vetri grigi dell’Astroporto Bologna Sud.
Come tutte le
astronavi del lunedì - lo avevano avvertito: è un tormentone dei notiziari, era
un trend topic sui socialnetwork, del lamentarsi degli immigrati e i disagi astronavali - era pieno di
persone e il loro odore di gente. Le facce fresche degli studenti, i visi lisi
degli impiegati, le facce esauste, gli zaini gonfi, scoloriti e lacerati di immigrati
statunitensi rannicchiati a sguardi bassi, quelli imbarcatisi abbastanza svelti
per nascondersi in toilette. Che non avevano mai il biglietto - cosa fai? Li
butti fuori? Scendi alla prossima nello spazio?
Il caposhuttle lasciava stare:
«Tāmen zhǐshì
měiguó rén.»
Quando invece era italiano,
«Americani di merda.»
La schermata passò
dalla tabella oraria a un primo, ovattato piano di un’incantevole hostess
orientale: era insieme una live action di Lamù, Creamy o quella che più
attizzava delle Occhi di Gatto - decideva il tuo cervello, anche se il tuo
cervello non sapeva di sceglierla. Era quella, era qualunque: ed
era così bella che Luca non volle accorgersi che - spiegando ai passeggeri le
dotazioni di bordo, e delle loro poltrone - sulle mani affusolate le si
contavano ognuna sette dita. Su un volo economico - si consolò - ci si
accontenta di AI economiche.
«Nel bracciolo di
sinistra, troverete i sonniferi», disse l’altoparlante. Nel teleschermo dello
schienale apparve il menù Netflix, e una scelta di giochi un po' datati quali,
al massimo, Space Marine XIV.
Il rombo, le
vibrazioni, il bagliore dell’accensione intronarono la navicella né più né
peggio di un qualsiasi concerto metal: Luca si stupì, che non fosse spaventoso.
Ne dovevano aver fatti, di progressi - scherzò tra sé - dai tempi di Tom Hanks,
il calzino e la stagnola.
Il rumore e i
tremolii crebbero di intensità.
Tuttavia Tarantino
ebbe pur sempre ragione a dire che quando uno va a un concerto dei Metallica
non può chiedere a quegli stronzi di abbassare il volume.
Erano ancora vivi,
i Metallica e Tarantino?
Di sicuro non lo erano
gli astronauti che, circa trent’anni prima, e magari un po' di più,
esplosero nel cielo sullo shuttle "Columbia".
Ma che cazzo di
pensieri,
inghiottì Luca: non è il momento.
La navicella si
mosse.
Come la navicella.
Come la navicella.
Che in questa e
quell’altr’onda urtando urtando va.
Il ciel tuona e
balena, il mar tutto è in tempesta, porto non vede o sponda dove approdar non
sa: Luca si imbronciò che Antonio Lucio e Metastasio ne avessero già scritto
quanto ce n’era da scrivere. Come ancora vent’anni prima, quando all’alba
partiva in treno per insegnare in un altro posto, ma ancora sul pianeta, e percorreva la lunga costa dell’Adriatico nell’aurora porporina puntinata da
Venere. Al largo navigavano gli alacri pescherecci, le lance della Guardia e le
brune petroliere: i suoi occhi erano ottusi da un ricordo di Lucrezio che
invocava "sotto il cielo, cosparso di stelle, faˈ che il mare sia corso di
navi: per sempre". Non gli restava granché da aggiungere o immaginare diversamente.
Lo shuttle salì a un
cielo che si fece presto buio, il finestrino divenne un Rothko metà azzurro e
metà nero, una lattigine polverosa ristagnava attorno al mondo. Le casse stereo
dell’astronave diffusero il Danubio.
Che pacchianata, sorrise Luca.
Era un razzo Teslitalia.
Pare usasse, a bordo.
Sempre.
Ti pareva?
Come Kubrick.
Non avrebbe potuto
essere altro.
Lo shuttle sembrò capovolgersi
e curvare, ma là fuori era tutto troppo vasto per esserne sicuri.
Tutta la sfera
varcavano del fuoco.
Chi lo sa se cinquecento,
milletrecento anni or sono, ad Astolfo in arcione all’ippogrifo aveva fatto lo
stesso effetto.
Luca adesso si abbrancava
al ricordo dell’ippogrifo, perché era l’ultima cosa autentica, capì, che
gli restava in quell’ampio vuoto.
Doveva essere per
la paura.
Quel girare gigantesco.
Ricordò che anche
Virgilio, sulla groppa di Gerione, aveva imposto le rote larghe e che sia
lo scender poco.
Ed ecco un altro
verso rigurgitato dagli anni a Lettere. Altro pensiero che non è mio, ma che
ho trovato su un libro.
Che cosa porto di
me, lassù; che cosa porto di vero?
Già i tre
pakistani inghiottivano i sonniferi, la maggior parte dei passeggeri cercò un
film, una serie, una partita su Netflix, infilò le cuffie rosse laccate e si
perse in espressioni di già visto e ilarità.
Luca volle
prendere un selfie dallo spazio: una notifica di Whatsapp, attivata la
videocamera, lo avvertì che per ragioni di sicurezza non era consentito
utilizzare la propria camera. Sullo schermo tornò a ancheggiare la hostess
digitale: gli mostrò, tra le opzioni disponibili, un’app di bordo di sfondi
standard cui sovrapporre la propria immagine. Condividerla, scaricarla. L’effetto
era realistico, gli sembrò però già visto: realizzò che tutti i selfie
che si scattavano nello spazio - degli amici e sconosciuti, nei telefoni e sui
social: che salutavano dall’esosfera con il gatto e il fidanzato - erano un
artificio della stessa applicazione. Sullo sfondo risplendeva la perfetta Luna
argento, quella Luna da sussidiario, da cartoline astronomiche, quella Luna fredda
e esatta in Capricorno agli intelligenti. Ti veniva pure il dubbio, per quei
selfie, a questo punto, che non ci fossero stati mai.
Guardò alla Terra
dal finestrino.
Casomai che fosse
piatta.
Guardò ancora al
sasso bianco che si ingrandiva davanti a lui.
Gli sembrava
troppo immenso per contenerlo in set.
Ma non era quella
Luna degli amanti e i Futuristi, non si specchiava tra i cani e un astice nel
diciotto dei tarocchi. C’era stato un paladino, Pulcinella, Bergerac. Dei
veterani Confederati dentro un proiettile con il sofà. Un francese
illusionista.
Io chi sono, o «ch’il concede?»,
tremò Dante sulla Porta.
Ma non era quella
Luna. Forse davvero precipitarono e ne esistettero almeno otto, prima. Lei,
sopra di me, con il seno scoperto a quel pallore, ansimava «dài lascia
perdere, basta, non parlarne». Era un libro da nazisti. Nei raggi pallidi su un’automobile
tra le frasche dei sambuchi, su una coperta su un prato buio, su una finestra di casa sua.
Tutte le Lune della sua vita che gli franavano enormi incontro.
Luca sentì insorgere
quel genere di pensieri che liquefanno in assurdità e ti disfano nel sonno. I
pakistani, di fianco a lui, sussultavano in un sogno.
Nel buio, in lontananza, brillò candida e
rotante la stazione di Tiangong, brulicante di robot di servizio che attendevano
lo shuttle.
Gli schermi accesi
sui gol di Messi e sulle repliche di Breaking Bad tintinnarono di avvisi
"stai ancora guardando?": dieci secondi valeva "no", e si spegnevano
gradualmente sui visi grigi dei passeggeri assopiti.
Luca contò le teste
fino quasi a metà scafo. Arrivò fino a sessanta, forse. Si addormentò.
Sentì gli scampoli
del Furioso, di Odissea 2001, la Commedia, dell’Apollo,
di Vivaldi e di Méliès che si staccavano dalla sua pelle come l’involucro
di Motoko. Quando esce dalla vasca. C'è quel canto dei bambini.
A ga maheba teru
tsuki toyomunari.
Poiché ho danzato,
la Luna echeggiò splendente.
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