L’assessore spiegò
sul tavolo una carta del quartiere, la sfiorò col dito medio poi con l’indice
insalivati come vuoi sfiorare i capezzoli del primo amore. Era l’ultima
questione in agenda quel mattino. L’indolente mezzogiorno penetrava le
vetriate: luccicava sui pc, le graffette e i portapenne di una presta primavera
troppo calda e luminosa. Dagli uffici ascoltavi i fruscii delle giacche, lo
spostare delle sedie, porte chiuse e porte aperte; gli «andiamo!»; i «fatto:
andiamo!», e i tintinni delle chiavi. Gli impiegati in pausa pranzo che
scendevano le scale. Tacchi alti in corridoio, fare stridere il portone: quei
rumori - se sei solo - sanno metterti un po' fretta.
«È un quartiere
tutto nuovo. Nuovo», disse l’assessore: scandì bene la parola ad
ascoltarne la forma tonda, lucida, di qualità. Con le dita scese ancora sulle
linee della mappa a percorrere i confini di un rione in costruzione, «e ci
vogliono nomi nuovi per le due piazze e le strade.»
E qui Fabio si sorprese
che il consiglio comunale, la pro loco o un comitato di cittadini non li
avessero già scelti: un notaio, una maestrina, un giocatore di basket, un
partigiano duecentenario che aveva fatto La Resistenza. A che cosa ha
resistito? Gente cremata tre mesi prima con quei nomi tipo
"Adelchi".
Rotolò la
scrivania poi gli scaffali con lo sguardo sulle note e i documenti che
accompagnavano la cartina: firme, timbri e gli stampati dei PDF. Trovò solo un
incarto di patatine dimenticato tra due cartelle di identico arancione.
«La zona adiacente
è dedicata al… Rinascimento», l’assessore schioccò le dita: il termine era
quello, sembrò essersi ricordato.
«Risorgimento»,
corresse Fabio.
«Mameli, Oberdan:
ˈsta gente qui. O Mazzini o Garibaldi: c’è una serie su Netflix. Potrebbe
essere una buona idea intitolare le nuove vie ai patrioti moderni.»
Lui notò che il
termine "patrioti" gli uscì di bocca goffo e sottovoce, come il lemma
di un’altra lingua, che pressappoco conosci, ma che in pubblico ti imbarazza
pronunciare:
«Personaggi
moderni», alla fine preferì.
«Dello spettacolo,
o la cultura, o scienziati, eroi locali.»
«Della storia, Ma
la Storia», che era quella con la maiuscola, «come quelli che abbiamo detto
tipo i martiri e Cavour.»
«Fino a quando?»
«I più recenti. Lo
scorso secolo, direi, al massimo. O i primi dieci anni o venti del duemila.
Ancora vivi, in attività.»
«Che è difficile, temo.»
«Perché?»
Fabio sudò freddo nei
suoi vestiti da ufficio, e forse e per fortuna il suo golfino di cotone
nascondeva aloni scuri sulla schiena, le ascelle e il petto di una camicia che
quella sera avrebbe fatto cattivo odore. Lo stantio della giornata e timo e
alloro di un deodorante.
Il sole, adesso,
alla finestra, diventava fastidioso. L’orologio, alla parete, pretendeva
si andasse a pranzo.
Lui però era lì,
al tavolo del capo, infilzato da una domanda che pensava un po' cretina.
Scrollò le spalle,
esitò. Si prese un «uhm» di tempo:
«Mi sembra presto
per stabilire chi ha fatto storia e chi no. Ci direbbero che è "di parte".»
«Questo è vero.
Questo è vero», l’assessore gli concesse.
«Sai le polemiche,
per ogni nome…»
E l’assessore si
corrucciò:
«Rischieremmo di
sputtanarci come quell’anno a Milano, che intitolarono l’aeroporto a quel… »,
fece una smorfia, «… di Berlusconi. Che imbarazzo, sant’Iddio. Durò solo cinque
anni.»
«Ma adesso è
Fracci.»
«Io non so, chi
fosse Fracci.»
«Mia madre mi ha
spiegato che è stata una cubista.»
«Brava mamma. E
sempre meglio di quello lì, comunque.»
«Io però non mi
ricordo di Berlusconi», disse Fabio, «dovevo essere appena nato, o molto
piccolo, ma…»
«… Berlusconi:
capisci. Come dire Aeroporto Hitler. Fa già ridere così.»
Cringe abbestia.
Troppo peso,
l’assessore ridacchio: quell’età che ormai aveva che gli pesava sul dizionario.
Si alzò grattandosi dalla poltrona e andò sbuffando all’attaccapanni, prese la
giacca, se la infilò; se la tolse e la riappese. Guardò aprile terso e caldo
che brillava sulle strade, fuori, sui tetti, sui gazebo azzurro chiaro
del ristorante adiacente. Su un tavolino ombreggiato vuoto col cartello
"riservato", a una sedia di distanza dagli impiegati e i clienti.
Fabio si augurò
che per quel giorno fosse tutto.
La discussione si
è fatta oziosa. E pesante, inghiottì:
«È perciò che è
complicato. Non lo dicevo per contraddirla, assessore.»
«Ma il sindaco ha
deciso che è una bega che tocca a noi.»
«Sarebbe a dire?»
«Che adesso è
tardi: facciamo pausa. Suggeriscimi dei nomi. Fa una lista. Fa un progetto. È
una bella responsabilità per il primo giorno di lavoro!»
Fabio ordinò un
piatto unico freddo senza sapore né consistenza, bevve birra, o Coca-Cola: non
lo sapeva già più. Gli restò dentro una certa fame, ma andava bene così. Mise
in tasca anche quel giorno le sue ore da stagista, fece il giro dei colleghi
ripetendo «arrivederci». Non ricordava nemmeno un nome, non li sapeva, non li
imparava, e tra le tette delle impiegate non c’era niente di interessante. Tra
qualche mese sarà diverso, fosse stato ancora lì. Loro gli risposero o
«ciao» con un sorriso o un amichevole «sì, a domani» con le facce sugli
schermi: poteva essere rivolto a lui come all’utente dall’altra parte. Per entrambi:
si fa prima.
Andò alla
colonnina di ricarica dei monopattini, e ronzò tra i moscerini della strada
fino a casa.
Scivolò metà
percorso coi pensieri costipati: che era l’ansia, sempre l’ansia; pensò
al compito che l’assessore gli aveva dato e disse, ad alta voce, un vaffanculo
all’assessore. Con le cuffie nelle orecchie, nel vasto traffico della città,
tra centinaia di biciclette, di caschetti e di segway, non potevano sentirlo:
non si udì nemmeno lui. Si infilò in un’ampia rotatoria al cui centro
verdeggiava un grande bosco verticale: tra le siepi, i condomini facevano tai
chi, e un pallone di bambini rotolò sul marciapiede.
Impiegò un minuto
e mezzo a fare il giro del bosco. Doveva prendere la terza a destra, ma decise
di rifarlo. Poi ancora. Poi ancora. Sentì l’ansia che passava. Fabio ricordò
che c’era tutto, su Google; poteva chiedere a ChatGPI di redigere la
lista. E lo avrebbero potuto anche il sindaco e l’assessore:
«… ma figurati se
quelli…», rise.
I settantenni.
La maggior parte
del pomeriggio, a casa, finalmente, Fabio si prese tempo e i suoi spazi per
rilassarsi.
Suo papà lo
definiva stare lì e non fare un cazzo: ma suo padre apparteneva a un
vecchio mondo volato via di grigliate sulle spiagge e carbonare in collina,
Facebook, fighe e di punti esclamativi.
Era un mondo
adolescente.
Dove Fabio sul
finale era stato generato perché i suoi si erano fatti una scopata
dellamadonna, e mi sa che era successo: che mi sei venuto dentro. E in qualche
incubo da bambino lo aveva visto disfarsi, liquefarsi in macchie ambrate
di alcolici e Red Bull, nelle vasche a idromassaggio in un centro commerciale.
E un rumore
silenzioso rimbombante attorno a tutti.
Poi però tornò al
lavoro.
Quindi Google, si
diceva.
Posso farlo con l’IA.
Doveva metterci un
po' di suo, perché il lavoro è così: se è lavoro lo fai tu, ti
insegnavano a scuola media. Ora penso a qualche nome, e lo verifico con l’AI.
Vagolò per il
soggiorno con Alexa che lo seguiva: la periferica rosa peach-fuzz, ovoidale e
silenziosa, scivolava sui suoi passi, gli scansionava l’umore: e eseguiva un
allegretto dalla Settima di Beethoven che riteneva esprimesse meglio il suo
sentire presente.
Non credeva nessuno,
che scansionasse gli umori: ma si era tutti di quello stato d’animo che la
domotica suggeriva.
Sua madre era al
tavolo di lavoro da remoto circondata da cristalli e da piante da appartamento,
inondata dalla luce di due pareti-finestra. Indossava un camicione un po'
lappone e un po' maya. Fabio zittì Alexa:
«Ti ho disturbata?
Sei in call?», chiese alla madre.
Lei gli fece cenno
che aveva ancora del tempo. Dal pc suonò dolciastra la musichina d’ambiente che
annunciava l’inizio del suo corso di Profonda Consapevolezza, "trade
mark". Aveva un gesto particolare, per esprimere "trade mark":
piegava gli indici e i medii a uncino ogni volta che lo diceva. Il sitar si
concertava alle campane tubolari, un refrain di flauto andino e di Callido da
cattedrale. Accanto al monitor, sul tavolino, una piccola sveglia digitale la
avvertiva di ripetere "Profonda Consapevolezza" ogni minuto di
trasmissione. Perché on-line era normale che i corsisti si distraessero.
«Sei pensieroso»,
gli disse.
Consapevole e
profonda.
«Al lavoro mi
hanno dato un incarico importante. Me lo ha dato l’assessore. Di persona.»
«Complimenti! Il
primo giorno! Mi sembra proprio una buona cosa!»
«Hai presente il
quartiere nuovo che stanno costruendo?»
«No.»
Dalla terrazza del
loro attico non lo avrebbero veduto: sarebbe sorto su quel lato di città dove
il sole tramontava sulle tartine da aperitivo.
«L’assessore mi ha
chiesto - praticamente l’ha chiesto il sindaco - di trovare i nomi adatti per le
piazze e le vie.»
«Tu da solo!»
«Sì, in effetti…»
«Beh, mi sembra un
bell’impegno. Ma vedrai: ci riuscirai.»
Per sua madre il
pianeta era un’ampia "buona cosa", e gli oceani dei
"bell’impegni" separavano i continenti. Ma vedrai, genere umano:
riuscirai.
«E questa volta
non finirà come il lavoro di ieri.»
Un rullio di
djembé africano chiuse il brano di apertura, Fabio uscì di un passo dal quadro
della webcam, e il monitor sbocciò di dieci volti infelici che soffrirono un
buongiorno con in mano una tazzina. O un barattolo di yogurt. Alle tre del
pomeriggio erano tutti in pigiama, e anche in bassa definizione non si erano
lavati.
In giornate come
quella stare in casa un po' ammuffisce.
Fabio lanciò in
soggiorno un «vado a fare un passeggiata»; papà e la mamma, più tardi, forse,
lo avrebbero sentito. L’aria aperta lo investì con un alito bruciato: la città
e il problema grave del cambiamento climatico odoravano di incendio,
disinfettante, d’acido e batterie. Da quell’ora fino a notte sarebbe stato così.
Lui sperò che la
calura gli portasse qualche idea.
Ho un vantaggio
importante,
rifletté camminando: che non conosco nessun politico, e la politica non mi
interessa. Non rischiava l’imbarazzo di suggerire dei nomi che sembrassero
servili, o una presa di posizione: la posizione contraria al sindaco,
l’assessore e la città. Non conosceva le loro idee - che parolona, le loro
idee… - realizzò, a pensarci bene, che nemmeno sapeva a che partito
appartenessero; stanno entrambi con lo stesso. Se è il partito del Comune.
Se è un partito o se invece una lista civica. «Alle elezioni per il Comune»,
diceva spesso suo padre, «può succedere e succede che vincono le liste. Perché
la gente conosce i nomi, le facce, i precedenti: sinistra e destra non le interessa».
Lui comunque non
votava da che aveva sedici anni: la prima volta ci devi andare: dà anche gusto,
per provare. E qualche volta ci trovi la tua crush che deve fare la
scrutatrice. La volta dopo ti sei già rotto, non ci vai:
«… però è
importante», papà ripete, «e c’è gente che ci è morta.»
Quale gente? Quando
è morta?
Ma anche lui non
ci era andato.
Non ci va da molto
tempo.
Niente politici,
perciò. Chi sono? Ricordava vagamente un certo conte Giuseppe - si
era dato a quel settore probabilmente perché era conte: il presidente che
poco prima che lui nascesse aveva sconfitto l’epidemia di Covid. Una zia, la
nonna e una maestra gliela avevano raccontata pressappoco così. E sapeva dei
fascisti come sapeva dei comunisti: c’era stato un tempo vecchio - cento,
ottanta: un casino di anni fa - in cui la gente metteva bombe e sparava per le
strade.
Ma al liceo non
gliene avevano mai parlato.
Glielo aveva
raccontato un suo bro che stava a Genova.
Che cazzo frega a
un ragazzo, adesso, di deficienti che si ammazzavano per la lotta di classe? Per una guerra
durata parecchio meno della carriera di Taylor Swift.
Che canta ancora, porcaputtana.
A sessant’anni suonati.
E tra i parchi e
le aree verdi che rattoppavano la città, demoliti i capannoni e gli edifici inagibili,
di quei proiettili e quegli ordigni non si sapeva più niente.
Taylor Swift - ecco,
l’idea!: poteva essere una.
Fabio ricordò che
il quartiere in cui abitava era dedicato ai musicisti famosi. Non conosceva
quei Monteverdi, quei Vivaldi e i Rossini sui cartelli: non li aveva ascoltati
mai, però sapeva che erano stati compositori. Viali, e larghi più recenti,
commemoravano i De Gregori, i Dalla, i Bertoli e De André: di cui in casa
doveva avere qualche pezzo di papà. Non li aveva mai sentiti, non ne
avrebbe avuto modo. Suo papà collezionava dei cd «rari, introvabili» che
valevano una cifra; di cui mamma non sapeva quanto fossero costati. Una volta,
a mezza voce, li chiamò «una cosa antica». C’erano dischi di Vasco Rossi, dei
Baustelle, Renato Zero: conservati in una teca, mummificati nel cellophane:
«Quando muoio, se
li vendi, fai un sacco di soldi», sospirava suo padre: lo affliggeva l’idea che
la fornace crematoria li avrebbe liquefatti, se li avesse voluti accanto.
Ma quelli erano
artisti.
Non facevano la
storia.
E a parte i nomi
negri di chi aveva lottato per i diritti, la libertà - rifletté Fabio
- di solito, le strade, hanno il nome di italiani.
Niente da fare,
per Taylor Swift.
Però vediamo, da
queste parti, che criterio hanno adottato.
Da viale Verdi
alberato e lungo svoltò a sinistra per via Morandi, Tenco, viale Paoli; via
Guccini si allargava in mezza piazza di negozi inaugurata da qualche mese.
Forse un anno: di più no. Gli edifici erano tutti di qualche piano più
alto, a confronto degli altri nel quartiere, e le facciate di marmo bianco e di
vetro abbacinate staccavano dall’ocra delle case circostanti. Le rastrelliere
di biciclette si alternavano alle siepi, e più su del quinto piano eri
costretto a distogliere lo sguardo, accecato dai pannelli che brillavano sul
tetto. L’ombra salubre mugghiante e enorme delle eoliche condominiali oscurava
a intervalli i bonsai sui davanzali. Nel cielo azzurro di buffi candidi
crepitava un’antenna 7G. Quella parte del quartiere la si chiamava «palazzi
nuovi», ci si capiva facendo un gesto e dicendo «vado là».
Sarebbe stata
«palazzi nuovi» anche tra un secolo. Si sa: è così.
Ma qui, a
proposito, pensò
Fabio, che nomi hanno dato a quella piazza e le vie? C’erano gli usci di
appartamenti, targhe d’ottone di ambulatori, c’erano i nomi degli avvocati, i
medici, i commercialisti. I ristoranti palestinesi. La pulsantiera di
campanelli quasi tutti magrebini, slavi, ispanici, cinesi. Un indirizzo doveva
esserci.
Lui percorse la
strada da cima a fondo: trovò un cartello, e non c’era scritto niente.
Era un rettangolo di latta bianca già usurato lungo i bordi.
Ma non c’era
scritto niente.
Ai balconi vedevi
gli stendipanni ordinati con le paia di mutante e l’outfit da padel. Una donna
in asciugamano, reggiseno color carne e un aroma amarognolo di sigaretta
elettronica. Le persone hanno una vita, dove ci lavano le mutande: se ti
sfasci su uno sdraio, probabilmente una fine. Ma la strada in cui ora si
trovava non aveva nessun nome. Forse un numero, oppure nemmeno quello. Gli
operai del comune, in queste cose, non se la prendono così comoda.
Fabio udì il
sibilo di un veicolo dal fondo della strada. Era un furgone di netturbini: chiedo
a loro. Lo sapranno. Dal modello non sembrava fosse un drone di quelli
nuovi, che dettavano istruzioni solo in hindi e coreano perché ancora ai
Servizi Urbani non li avevano riprogrammati: sperò che a bordo ci fossero
spazzini veri.
Vide scendere
un’anziana con i guanti e il berretto giallo.
«Signora, scusi»,
Fabio la chiamò.
La netturbina
guardò una fila di cabine compostatrici, guardò lui, e di nuovo i dispositivi,
come stesse decidendo quale fosse la priorità. Lasciò perdere i controlli delle
cabine e gli venne più vicino con le mani nelle tasche. Aveva gli occhi di un
grigio gelido e un’espressione severa, puntuale, intelligente, e un tono
sbrigativo, scostante e affilato come quello - che ricordava - dei contrattisti
universitari.
«Come posso
aiutarti?»: dalla faccia si capiva che l’intenzione non ce la aveva.
«Che via è,
questa?»
«È questa via. A
chi ci abita o ci lavora non interessa saperlo.»
«Ma qual è il nome
della via?»
«Non ne hanno dato
uno», lei sorrise, «È sempre stato così. Li avevano finiti.»
Gli lasciò intendere
di spostarsi perché aveva da lavorare. Tornò ai controlli delle cabine
compostatrici ad accertarsi che funzionassero correttamente.
«Grazie. Scusi»,
Fabio la salutò.
E la buon’ora gli
venne in mente di controllare su GoogleMaps.
Cercò l’iPhone
nelle tasche, inserì le coordinate, e ingrandì la schermata al massimo sul
tassello di città. Le righe azzurre e violette della mappa diventarono le
strade e le case del quartiere, le figure verde-chiaro diventarono dei parchi.
E le icone di forchette, chiese, letti e di musei si allargarono in insegne di
ristoranti e in atrii di supermarket, cattedrali e di hotel. Lungo i viali, in
prospettiva, apparirono toponomastiche. Ma del complesso residenziale non era
scritto un bel niente: era un grumo di abitati che proseguiva dalle altre
strade.
Non lo sapeva
nemmeno Google.
Ed è impossibile,
questa cosa.
A quel punto
domattina avrebbe detto all’assessore che ci aveva anche provato, ma non aveva
nessuna lista: perché a due passi da casa sua, «ed è una zona di lusso!», c’era
tutto un isolato intitolato a nessuno.
Ma un elenco
striminzito lo doveva presentare.
Per dimostrare che
un paio d’ore ce le aveva dedicate.
Gli venne in mente
che in queste cose sono bravi i laureati. Quelli in Lettere, soprattutto: si
ricordano le date.
Fabio le chiese se
avesse un’oretta libera, la invitò per un ginseng in quel baretto «vicino a».
«Quello in fondo a
via Guccini?»
«Ecco: là.»
«Ce l’ho presente.
Cinque minuti di monopattino.»
«Mi trovi al
tavolo», le aveva detto.
Nell’attesa si
sedette sotto un ombrello, lì fuori, dove le sedie di zinco e vimini scottavano
un po' meno.
I riverberi di
luce gli offuscavano la vista, e gli interni del locale gli apparivano scoloriti.
Le persone silenziose, con gli occhiali da sole sulle facce, erano intente a
scrollare i social o l’elenco delle mail; o assertive e conserte con l’amica o
un fidanzato. O chiacchieravano sottovoce o non dicevano una parola: a lui
sembrò, davvero, si limitassero ad annuire, sorridere, negare e tornare
inespressive.
Senza emettere alcun
suono.
In quel grigio
tutto uguale del bancone e le pareti.
Delle seggiole
spaiate di chissà quante gestioni fa.
Di un barista
senza faccia perché era chino sul lavandino.
Di un calendario di
surf e l’Inter e delle mensole degli analcolici.
E di un cestino di
frutta in cera di qualche tropico andato a male.
Da qualche parte
le casse stereo trasmettevano qualcosa: una musica che Fabio, da lì dov’era,
non riuscì ad ascoltare. Tuttavia la vedeva persistere nell’aria come un
olio più leggero e appiccicoso di quell’aria. Sulla sua testa,
sull’architrave, non notò nessuna insegna. Le persone erano ferme tra i
trentacinque e i quaranta. E il locale gli sembrava che fosse lì in nessun
posto da prima degli edifici che in qualche modo non c’erano.
Samanta arrivò
dritta in mezzo ai tavolini, ripiegò il monopattino sotto i piedi e si tolse il
caschetto verde acido.
Si asciugò con il
foulard i capelli verde acido.
Stravaccata, a
fiato corto, scoprì la pancia dal gilet rosso: il bottone e la cerniera dei
pantaloni si arrendevano al suo ventre troppo gonfio di Burger King.
Sua cugina aveva
sempre l’aria di essere arrivata lì, ora, spinta da un’ultima definitiva
catastrofe; e di aver dato e sofferto tutto quando non c’era né da soffrire né
dare.
«Innanzi tutto»,
gli ricordò, «io non insegno da almeno cinque anni. Sette. O forse tre. Ma
insomma non mi ricordo. Ho fatto una supplenza alle scuole superiori. Non era
una supplenza: ero più tipo la tutor. Poi, finito l’anno, non m’hanno più
richiamata. Tu figurati se ho ripreso le mappe concettuali e le slide di storia
contemporanea! A una commessa Curvyntimissimi quella roba non serve più.»
«… però qualcosa
ricorderai…»
«Mi ricordo degli
egizi, dei romani, il medioevo: per un po' è stato di moda, quand’era vivo
Barbero. Come i nostri genitori tutti scienziati con gli Angela, quando erano
bambini.»
«Mi segno questi,
che è già qualcosa.»
«Io però non posso
dirti chi c’è stato di recente, ma abbastanza nel passato da dedicargli
una via. Forse Putin. È un nome che mi ricordo.»
«Credo no. E mi sa
che era già morto quando noi siamo nati. O è morto poco dopo: vaˈ a capire, che
cosa ha fatto. E soprattutto non è italiano. Voglio solo gli italiani.»
«Era ucraino?»
«Sì.»
«Mi sa.»
«Come facevi a
insegnare storia?»
«Ero la tutor. Non
insegnavo. E anche tu, se ti ricordi, al liceo studiavi a moduli. C’era il
modulo sul razzismo, c’era il modulo sulla democrazia, sull’ambiente,
sull’olocausto, c’era il modulo…»
«… su tutto,
cazzo: mi ricordo!», Fabio si incarognì. Gli tornarono presenti certe figure di
merda, certi debiti in estate, le incazzature dei prof: «mi ricordo del
parlamento di quei cazzo di ateniesi con democratici e repubblicani. Mi ricordo
della diaspora degli indios e gli homo sapiens del paleolitico che facevano
l’apartheid ai Cro-Magnon. Ho dovuto imparare tutto, l’ho imparato a memoria.
Non ci ho mai capito un cazzo. Non mi è mai fregato un cazzo.»
Evitava di parlarne,
con la mamma e con papà. Perché suo padre faceva pesi elencandogli - in ordine
cronologico - i Sette Re di Roma.
«Prima di
quello di cui ti importa, e di te, io non lo so, se il mondo è mai
esistito. Ovvio: c’era, ma insomma non lo so. Io penso questo,
sinceramente. E ci penso molto spesso.»
«Non mi sei stata
d’aiuto.»
«Ma lo sai: domani
molli. E quella lista non la farai.»
È una stronza.
Come sempre.
«Io però prendo un
tè freddo, ché il ginseng mi fa un po' schifo. Paghi tu?»
Il barista servì
loro cose insipide, il bicchiere era bollente, la tazzina era gelata, e un
alone di calcare e detersivo persisteva sul cristallo e la ceramica finte.
Fabio realizzò che erano stati un po' fessi, a ordinare e consumare per
davvero. Perché il bar era un postaccio. Ai tavoli, all’interno, le piane
erano sgombre: nessuno, e forse mai, aveva preso qualcosa. Federica
bevve un sorso con una smorfia schifata: sembrò pensare «ma ha offerto lui»; un
altro sorso e non disse niente. Lasciò il resto tutto lì. In superficie, sul
suo ginseng, c’era una patina iridescente.
«Ci muoviamo», lei
decise: «sei a piedi?»
«Torno a casa.»
«Ti accompagno per
un tratto. Faremo un giro un po' lungo. Ho qualcosa da mostrati. Non succede
solo qui.»
A tre chilometri
di ciclabili e uno scavalco di ferrovia, sotto i piloni di acciaio lucido delle
tre monorotaie, tensostrutture da sport indoor si innalzavano nel verde:
collegate da vialetti di lampioni, palme, totem e villini di due piani con le
facciate a murales. I colori un po' naïf per gli Immigrati dall’Africa; firmato
Doctor Bree; e il Disagio di Noi Giovani taggato Mara ©. I temi erano
quelli. C’era stato un campionato e c’era stato uno stadio: il ricordo dei
campioni riviveva nelle strade. Viale Sinner, largo Egonu, via Pilato, via
Bassino… questi, un po', Fabio li conosceva. Non li aveva veduti gareggiare -
la maggior parte, quando lui era bambino, si stavano ritirando. Però li
invitavano a commentare nei podcast, o facevano i testimonial per i prodotti
che ti pompavano. Ma quelli naturali. Con le bacche e le radici. Una
targa scolorita indicava via "Valentino" - chissà, perché tra
virgolette - e su una anche più vecchia si sbiadiva la scritta "viale
Totti".
Li ho sentiti
nominare.
«Seguimi, adesso»,
Samanta disse.
E lo prese per la
mano come fosse spaventata.
Dietro l’angolo a
una breve, e stretta via Baresi, Fabio non trovò niente.
Non c’era proprio niente.
Non riusciva né a
vedere né sentire e toccare niente.
Qualcosa c’era, doveva
esserci: e ce la aveva davanti agli occhi. Né accecante né nero né
inconsistente né solido. Si appoggiò probabilmente a un palo o una parete, ma
sentì che andava giù. Con un senso di vertigine, la nausea e dolore
nelle orecchie.
Lì era vuoto;
non c’è nulla. E sembrava non finire.
Sentì Samanta afferrarlo
a un braccio e tirarlo forte indietro, tra edifici vecchi di un po' di anni che
non avevano nessun aspetto. Ma quelli c’erano, perlamadonna: c’era un cielo, un
asfalto, c’era un sotto e c’era un sopra:
«Mi sento male.»
«Stai meglio,
adesso.»
«Sì… va bene. Ho
un po' di nausea…»
«… ma adesso
passa.»
«Sì, è passata.
Cosa cazzo è successo?!»
«La prima volta mi
ha fatto brutto, ed ero sola. Terrorizzata. So di essere caduta e di esserne strisciata
fuori. Ma per caso, alla cieca. Ho gattonato.»
«Non è "alla
cieca": qualcosa ho visto… Anche se in realtà non c’è niente da vedere.
Che è spaventoso.»
«La prima volta...»
«Come sarebbe, la
prima volta?! Ma cos’è, ci hai preso gusto?! Forse qui è pericoloso… O c’è
una perdita: di gas, di plasma, roba chimica. Veleni. Forse è qualche
radiazione.»
«Stai dicendo una
cazzata.»
Si sentì stupido.
Però ha ragione.
«È lo stesso in
altri posti. Tanti, posti: e sempre più.»
«Sarà il caso di
chiamare…»
«Chi. Perché?»
Fabio realizzò che
non aveva una risposta, che non c’era una risposta, che aveva solo
paura. E che adesso era sicuro che di notte, da lì in poi, si sarebbe svegliato
con un urlo.
«La prima volta ho
gridato forte. Ero a terra, continuavo a chiamare aiuto. Sono riuscita a
tirarmi in piedi. C’era quel… buco, di fronte a me, e nessuno ci ha
fatto caso. Un ragazzo mi ha guardata: era pallido, sudava. Sono convinta che
lo sapesse, anche lui. L’ho avvicinato, ma è corso via; non ha
voluto parlarmi.»
Fabio quella sera
andò a letto abbastanza presto: gli doleva un po' la testa, s’era stressato per
il lavoro, era stato a passeggiare sotto il sole, nel caldo, per forse troppe
ore: diocristo, se era caldo! Era ancora preoccupato perché il file salvato
LISTA non conteneva nessuna lista, nessun nome e idea di nome. Certo: il
capo non lo vuole per domani; l’assessore aveva chiesto «faˈ un progetto, una
proposta». Per come sbrigano le cose là sarebbe stato tra più di un mese. Tra un
anno. Ma aspettare lo angosciava, e non gli avrebbe portato nulla. Non sarebbe
andata bene: non posso farcela, si persuase. Si girò e si rigirò sul
materasso sudato. L’emicrania si aggravava. Non poteva addormentarsi così. La
finestra era socchiusa su una notte troppo afosa, su una notte già
irrespirabile, perché è di notte che è peggio; le zanzare gli gemevano
alle orecchie e sulla faccia, e lui provava, però era inutile: non le prendi,
le zanzare. Un istante di silenzio e tornavano a tormentarlo. Daì:
pungete e vaffanculo. Alla finestra polarizzata c’era il pastello della
città, dalle luci morbide e offuscate per non ferire la vista. Da lì erano solo
macchie d’ombra colorate nell’acqua della notte. Non ti davano fastidio, se
dormivi.
Si rialzò.
Sospirò esausto.
Aveva addosso un
presentimento.
E non sapeva di
cosa.
Uscì nudo e magro
sul balcone.
Pensò che in fondo
ma vaffanculo, ci si perde la salute. Io non posso stare male e dar di matto
per questa cosa: accontentare il mio capo! Che è un politico di merda. Lì decise
- e sai che cosa? - che lo lascio, quel lavoro. Io domani non ci torno.
Basta un giorno e già sto male. Ma è possibile? È uno scherzo! Tutti i
lavori da già da… sempre: dopo un mattino li abbandonava. E se le cose
stavano così, Fabio scrollò le spalle, non ci posso fare niente. Ma poi comunque
il papà e la mamma se lo aspettavano, lo sanno già; anche Samy, prima,
al bar, gli aveva detto «domani molli».
Perché è normale,
lo fanno tutti.
E a proposito quel
bar faceva schifo.
E quel giorno era
accaduta una cosa molto strana. Non avrebbe saputo dire cosa e come
era accaduto. Ma lo aveva preoccupato. Non ricordava che cosa. Era accaduto nel
pomeriggio. Era insieme a sua cugina. «Che cosa pensi stia succedendo», gli
sembrò di averle chiesto. «Che il passato sia scomparso». E adesso era trascorsa
la mezzanotte e se n’era già scordato.
Si affacciò.
Guardò lontano.
Non gli parve
troppo buio.
Non c’era niente,
laggiù.
Niente.
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