"Ucronie Impure" - recensione di Marina Belli

Nota: il concorso da cui è nata l’antologia imponeva un racconto ucronico in cui, a scelta dell’autore, potevano comparire o meno elementi fantastici. Da qui l’aggettivo “impure” nel titolo. Sarà perché amo un cicinino il fantastico, ma le ucronie più impure mi sono piaciute molto. Bene, è ora della pseudo-recensione, in ordine di comparizione

Alla corte del monaco nero di Cristian Leonardi è forse la più “impura” delle ucronie presenti, e questo mi piace. Partendo da Rasputin e la sua fama di mago, e dalle fascinazioni esoteriche del Terzo Reich, l’autore mette insieme uno spunto ucronico interessante, tuttavia pesante da leggere per cause tecniche. C’è modo e modo di dare informazioni, quello usato qui non è dei migliori. Anche nelle sezioni in cui in teoria è Marie che ricorda, fa, pensa, talvolta si sente il narratore onnisciente, cosa che stona. Aggiungiamo avverbi in -mente a cascata, anche quando non servono (tipo “concisamente” per descrivere uno che risponde con una sola parola), e la scorrevolezza ne risente ancora di più. Parere personalissimo: nulla di inquietante né nel rituale di Rasputin, né nella visione della zarina. Peccato.
Aria di Mattia Tasso: spunto ucronico caruccio; il personaggio di Hoover ti fa chiedere se ci è o ci fa (e non so decidere se è un bene o un male); Whitney è un vero squalo, mi piace; il povero Frank Miller rimane sulla scena troppo poco per avere spessore. Invece suo figlio, Frank Junior, mi suona abbozzato: in ufficio non fa una grinza di fronte al sistema di cui è ingranaggio, manco fosse lobotomizzato, ma appena arriva a casa è tutto tormenti e rimpianti. Qualche particolare in più e meno parole generiche (“architettura evoluta e curata”, “particolari pregiati e ricchi”) avrebbero dato più profondità a certe scene, anche se, a essere onesti, si tratta di meri sfondi per le elucubrazioni dei personaggi o i pistolotti del narratore onnisciente, che anche qui ci va giù abbastanza duro. L’azione è ridotta ai minimi termini e un po’ spiace. Qualche frase (su tutte: “Lo schifo che provava nei confronti di sé stesso evitò l’occorrere del tempo per pensare.”) suona malissimo.
Il millenario Regno d’Italia di Ariano Geta: questo è uno degli spunti che più mi sono piaciuti, lo scarto tra come è andata e come poteva andare è notevole e molto interessante, ne esce un’Italia guerresca, focalizzata sull’ambito militare. Ho molto apprezzato il fatto che siano un tondo e una poesia a svelare l’identità famosa di due personaggi che nel mondo ucronico sono due sconosciuti. Come ha fatto notare qualcuno la sezione del ritrovamento della poesia può suonare artefatto, ma ad essere sinceri a me non importa molto, era funzionale ed è stata gestita al meglio delle possibilità offerte anche da un numero di parole ristretto. Un unico refuso su tutto il racconto (“Ma si trattava pur sempre una potenza”), controbilanciato dalla lettera di Sandorfi che, oltre ad essere un modo elegante per dare informazioni al lettore, è ottima. Piccolo plauso personale per essere riuscito fino all’ultimo a tenermi sulle spine con la questione di chi potesse essere il soldato fiorentino.
Kalokagathia di Angelo Cavallaro. È il racconto vincitore del concorso ma lo trovo di pesantezza incredibile. Brutto a dirsi, ho avuto l’idea di iniziare a leggere da qui e dopo poche righe ho pensato di abbandonare l’antologia. Non l’ho fatto. L’iniziale spunto ucronico di questo racconto a me è sembrato prevedibile, mentre il finale è prevedibile ma solo in quanto logica conseguenza del racconto stesso (il che è un pregio, se non si fosse capito). Lo stile credo voglia imitare quello dell’epica greca, ma, ripeto, per me è stato di pesantezza notevole. Sarebbe stato sfizioso se più “impurità” avesse messo piede nella storia, magari coi Mirmidoni che sono davvero formiche trasformati in uomini, o con qualche comparsata divina. Così com’è, lo sforzo di Cavallaro per avvicinarsi al linguaggio antico è notevole, ma per me non lo ripaga.
La fine della diaspora di Ferruccio Gianola: Custer vincitore e presidente, e i Sioux in esilio nel mondo che vogliono vendetta, sono due belle idee. La parte più meramente linguistica non mi sembra all’altezza: qualche caso di termini ridondanti (“le nocche delle mani”, “la locomotiva di una ferrovia”), un “istorica” fuori posto (istorico = storico, che non ha senso nella frase), un “non vedo il momento” che suona goffo (perché non “non vedo l’ora”?), un “gli” che dovrebbe essere un “loro”, alcune “è” a inizio frase che dovrebbero essere maiuscole e un paio di virgole mancanti. Un paio di periodi a pagina 78 avrebbero guadagnato da una rilettura, così come sono incespicano molto.
Bill Orso Veloce sembra avere la profondità morale di un cartonato. A parte l’impressione di stupore continuo e l’entusiasmo per il proprio compito che lo porta a discuterne ad alta voce in una sala affollata (non proprio la prima regola del manuale del cospiratore…), ha un solo nanosecondo di dubbi morali all’idea di poter scatenare una guerra e poi più nulla, come se manco gliene avessero accennato. Meritava qualcosa di più, già solo per il fatto che andava a uccidere quella carogna di Custer.

La regina dei pirati d’Atlantide di Davide Mana è un’altra delle storie che contaminano l’ucronia con il fantastico, di nuovo approvo. Mi aspettavo qualcosa tipo che Atlantide era in realtà l’America, non scoperta per ragioni varie ed eventuali, quindi ho apprezzato la sorpresa di leggere che Atlantide è Atlantide e il perché nessuno vi fosse andato prima. Gli automi e i re “ibernati” mi sono piaciuti molto, così come la scena del risveglio. Peccato che la strada per arrivarci sia dovuta essere, per forza di cose, così lunga (l’alternativa era molto più infodump-osa di così). Gli ultimi paragrafi mancano un po’ di mordente ma l’unico difetto del racconto credo sia la mancanza di approfondimento dei personaggi e conseguente impressione indistinta (il tutto per la solita mancanza di spazio connaturata al racconto). È comunque una cosa sopportabile. Curiosa la scelta del termine “impedimenta”, anche se adatta a un ragazzo che vuole darsi un tono.
Niente veri refusi, solo un periodo che poteva essere più scorrevole e un altro (“Se credessi in Dio,” replicò lord Percy, ergendosi in tutta la sua altezza, “direi che sarebbe maledettamente ora che si decidesse da che parte sta.”) che è molto poco chiaro.

Reliquie di Diego Bortolozzo. Molto bella l’idea delle reliquie cristiane e della loro potenza, e la conseguenza di avere i templari ancora in lotta contro gli infedeli nel XX secolo. La realizzazione, invece, fa imbufalire la Rottenmeier che è in me: virgole in libertà (spesso tra soggetto e verbo, oppure assenti a sproposito); il termine “saladini” che, per quanto comodo alla narrazione, è inventato (dizionario e wikipedia dixerunt); delle ripetizioni che invece di rafforzare il concetto appesantiscono e basta; dei punti a separare frasi che stavano meglio insieme, così non ne guadagnano né in leggibilità né in enfasi; il fatto che è tutto un immenso racconto da parte di un narratore onnisciente, che uccide il pathos anticipando le svolte narrative.
Subito in apertura c’è un incendio ma se il lettore non è esperto di storia medievale o non ha wikipedia sotto mano, si porrà una legittima domanda (cosa sta bruciando?) e non avrà mai risposta nel corso del racconto. “Il cardinale anziano si portò verso la mappa appesa al muro, solitamente coperta da un grande affresco” dà i brividi, ma spero sia solo stato scritto di corsa e non riletto. La parte sul Fronte Orientale è piena di frasi che potevano essere scritte meglio, e di eventi visti ora con la mentalità di una parte, ora con quella dell’altra, mentre avrebbe giovato separare meglio le due visioni, o rimanere su una sola.

Rintocchi di Stefano Sciarpa è il mio racconto preferito. L’idea è bella, gestita bene, con pochi sbrodolamenti e solo qualche magagna tecnica (un paio di zone con “poi” a raffica; l’assenza di linguaggio tecnico al posto di generici “un’apertura circolare alla sua destra”; un “Puntò il dito” che credo abbia come soggetto Boch ma non ne sono troppo sicura). I rintocchi della campana e rispettive conseguenze sono ottimi, la conclusione ha la giusta dose di umorismo. S’è capito che è il mio preferito?
Squali contro alieni di Simone Corà inzia con un refuso (il cognome con doppia maiuscola), prosegue con una frase in cui temo manchi qualcosa (“Patrizio cade, e che non c’è modo migliore per iniziare a registrare su questo trabiccolo che mi hanno dato”) e a cui ne seguono un’altra in simili condizioni e, più avanti, un “benché meno” che dovrebbe essere un “men che meno”. Nonostante ciò, il racconto si fa leggere e apprezzare, e anche molto. È l’unico dei racconti dell’antologia a prendersi poco sul serio, o a non dimenticare l’autoironia nell’altro paio di pantaloni. I personaggi sono sopra le righe ma a loro modo apprezzabili, anche i razzisti Kotipelto, e alla fine, pur nel tripudio di follia e pulp-ume (a partire dal titolo), la storia riesce pure a lasciare un po’ di malinconia per… beh, tutto quanto. Anche qui plauso per l’ucronia, ma soprattutto per l’ibridazione che porta all’entrata in scena dell’Ideon e quindi alla costruzione dello Squalo.
Tlaloc verrà di Alessandro Forlani. La storia è bella, ha un particolare stonato verso il fondo (i guerrieri che aspettano invece di entrare subito in casa fanno una discreta cazzata, IMHO) ma a parte questo fila bene, soprattutto grazie al fatto che le scelte dei due protagonisti sono ben coerenti. L’ucronia mi è piaciuta, per quanto forse un po’ azzardata (organizzarsi per un viaggio di durata sconosciuta con massimo 24 ore di tempo non dev’essere facile…). Quello che non mi ha esaltata è lo stile. Molto barocco, troppo pesante per i miei gusti. Ricco di colori e dettagli, ma con una costruzione dei periodi troppo arzigogolata per potermi piacere (“Ti erano molto costate?” “gote rubizze d’aria aperta”). Ah, sì, c’è un “Dì nonno” che dovrebbe essere “Di’, nonno” (ma la virgola è opzionale).
Piccola considerazione conclusiva, valida per Aria ma anche per tanta roba che leggo su internet: ma la consecutio temporum sta passando di moda? Sigh!

Alessandro Forlani

sedicente scrittore, è nato negli anni '70 del XVII secolo, si è reincarnato nel XIX, nel XX e millenni a venire. Nerd, negromante, roleplayer e autore "difficile" di racconti fantastici. Di giorno si impaluda da docente universitario e ciacola di sceneggiatura, cinema e scrittura; di notte, che dovrebbe far l’artista, piuttosto guarda film, legge fumetti, ascolta musica barocca, gioca a soldatini e poi va a dormire. Perché crede che sia più sano scrivere in questo modo.

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